L'Unità 7 maggio 2008
La vera alleanza è con gli elettori
di Stefano Ceccanti
La questione delle alleanze è in questi giorni al centro del dibattito. Chi teme che la “vocazione maggioritaria” possa avere un connotato isolazionistico, autoconsolatorio, fa valere almeno tre ragioni che non vanno ignorate: nel 2009 c’è un turno amministrativo importante, dove ci presentiamo con coalizioni uscenti in genere molto larghe, le stesse che governano le Regioni in scadenza nel 2010; il risultato delle elezioni politiche ha escluso dalla rappresentanza nazionale forze con cui mantenere i rapporti anche per evitare loro derive protestatarie; lo stesso risultato ci ha collocato all’opposizione insieme ad altre forze come l’Udc con cui è opportuno avere un rapporto positivo per rendere il nostro sforzo più efficace. Questi tre buoni argomenti, che comportano ciascuno una particolare serie di conseguenze, non possono però essere tali da farci capovolgere la scelta di fondo del Partito democratico sin dal discorso che Veltroni pronunciò al Lingotto. Il partito “a vocazione maggioritaria” è tale se costruisce le eventuali alleanze sulla base del programma e non viceversa, come era accaduto con l’Unione. In altri termini quel tipo di partito è felice di stipulare alleanze per governare, quando vi siano serie condizioni di omogeneità programmatica; allo stesso tempo è risolutamente contrario ad alleanze ‘contro’ qualcuno, capaci di farci vincere, ma non di farci governare. Meglio ben accompagnati che soli, meglio soli che male accompagnati. Questo principio deve valere per tutti i livelli di governo, nessuno escluso, anche se può sfociare in esiti diversi: sappiamo che anche in Italia, come in tutta Europa, un governo nazionale con le forze alla nostra sinistra (per lo meno per le piattaforme che esse presentano oggi) è altamente improbabile, mentre problemi minori vi sono con esse ai livelli regionali e locali. Sappiamo che in alcuni territori vi è una maggiore vicinanza con l’Udc ed in altri, a cominciare dalla Sicilia, una minore. Non si possono appiattire i diversi livelli e i diversi contesti, ma il principio va tenuto fermo perché ad esso, al suo fermo mantenimento, ha guardato con fiducia quel terzo del Paese che ha deciso di votare il Pd nonostante il fallimento dell’Unione: un risultato quantitativo e qualitativo niente affatto scontato al momento della caduta del Governo. L’elettorato ha punito soprattutto i soggetti politici identitari, espressivi in sostanza di nostalgia per la prima fase della Repubblica, (la Sinistra Arcobaleno, il Partito Socialista) o che miravano solo ad essere determinanti (l’Udc): un dato ben difficilmente reversibile. Quelle identità appartengono alla storia, ma non sono riproponibili in quanto tali nel nostro presente. In questo contesto è significativo che sia il Pdl sia anche il Pd, siano tornati a superare, e non di poco, la barra del 30%, da anni irraggiungibile, con una dinamica sostanzialmente bipartitica, non sminuita dal fatto di disporre ciascuno di un significativo alleato minore (Lega Nord e Italia dei Valori). I perni aggreganti alternativi del sistema restano due e non più di due.
A questa interpretazione del voto si pone però una seria obiezione: il Pdl ha vinto, il Pd ha perso, mancando lo sfondamento sull’elettorato di centro e da lì occorre quindi ripartire, senza equipararli. Un’obiezione fondata, ma ripartire dal centro non ha un significato univoco: un conto è farlo dagli elettori di centro, come si fa in un qualsiasi Paese normale, un altro politicisticamente dal partito di centro per siglare intese di vertice, secondo una modalità interpretativa che vede le identità degli elettori del tutto fisse e governabili dai rispettivi vertici politici. Una visione che, tra l’altro, non può essere riproposta ingenuamente negli stessi giorni in cui decine di migliaia di persone a Roma votano su una scheda il sindaco Alemanno e sull’altra scheda, come Presidente della Provincia, Zingaretti. Il mancato sfondamento al centro del PD può avere diverse chiavi di lettura, di tipo economico, sociale e-culturale, verso il “centro in ascesa” dell’innovazione economica diffusa, verso il “centro in discesa” dei settori che avvertono la globalizzazione e l’immigrazione come pericoli per i propri standars di vita. C’è però anche una parziale sovrapposizione di queste difficoltà con il “centro cattolico diffuso” nella società italiana (che non è un enclave, che risente delle priorità dell’insieme del Paese, pur con filtri culturali originali riproposti in questi giorni dall’azione Cattolica e dalle Acli), verso una presenza molecolare che, a differenza di altri Paesi, per la sua peculiare consistenza qualitativa e quantitativa non può essere ignorata o aggirata. In parte questo mancato sfondamento è dipeso anche dalla particolare offerta politica presentatasi nelle elezioni del 2008, che però appare irripetibile. Il leader del centro-destra, estromettendo l’Udc dalla sua coalizione nazionale – specularmente a quanto fatto con forze di estrema destra – e ciò nonostante alcune pressioni in senso contrario di autorevoli ambienti cattolici, ha ritenuto di poter attrarre direttamente parte degli elettori di quel partito e che il suo posizionamento equidistante dalle forze maggiore avrebbe funzionato come ostacolo alla conquista del centro da parte del Pd, come una forza di interposizione che avrebbe impedito alla nuova offerta politica di Veltroni, non più zavorrata dalla vecchia sinistra, di espandersi oltre i suoi confini tradizionali. La situazione non appare però stabilizzata: l’Udc si ritrova oggi con un elettorato potenzialmente più spostato verso sinistra, mentre la sua dirigenza appare spesso tentata da accordi verso destra, verso chi detiene dopo il voto le leve del potere. Gli esiti non dipendono certo da accordi di vertice, ma dalla capacità di proposta politica del Pd verso quegli elettori e proprio su questo va ricollocata la questione delle alleanze. Lo sfondamento al centro non poteva avvenire sul breve periodo, esclusivamente sulla base di dichiarazioni, giacché pesava in senso negativo la memoria negativa delle cose fatte e soprattutto di quelle non fatte dalla coalizione litigiosa di Governo che ha zavorrato la campagna del Pd. Ritornare ad alleanze solo per vincere le elezioni significherebbe andare all’indietro nel gioco dell’oca, ritornare al motivo, alla casella per la quale siamo stati sconfitti. Proseguire sull’innovazione, su programmi per governare significa invece realizzare l’unica grande alleanza che ci fa arrivare alla fine del tabellone di un gioco normale, non d’azzardo: quella con gli elettori.