Il Riformista – 13 gennaio 2009 – Intervista di Antonio Polito
Massimo D'Alema è nella sede di Red tv, cioè della tv della sua associazione politica. Dunque è insieme intervistato ed editore. Diciamo che è a casa sua. E si informa infatti anche delle dotazioni tecniche, microfoni compresi, che se prendono troppi rumori esterni rischiano di registrare anche quelli provenienti dalla casa di Silvio Berlusconi, coinquilino nel palazzo di Via Grazioli. Partiamo dal sanguinoso conflitto tra Israele e Hamas. Lei ha usato toni molto critici nei confronti del governo italiano e del ministro Frattini.
Quello che sta accadendo è, non soltanto dal punto di vista dei costi
umani, molto pesante e grave. Noi parliamo di una guerra, ma in
realtà si tratta di una vera e propria spedizione punitiva.
L'espressione «guerra contro Hamas» è il titolo che i servizi
informativi israeliani danno a quello che sta succedendo. Si tratta
di una rioccupazione, sia pure temporanea, con bombardamenti
quotidiani, rastrellamenti. Un conflitto in cui muoiono novecento
persone da una parte e dieci dall'altra difficilmente può essere
definita come una guerra. Aggiungo che essendo Gaza un'area
densamente popolata e nella quale la metà della popolazione ha meno
di quattordici anni è normale che ormai siano circa trecento i
bambini uccisi. Dal punto di vista del fondamentalismo, poi, quello
che accade è uno straordinario incoraggiamento a una campagna
internazionale di reclutamento e di odio contro l'Occidente e contro
Israele. Hamas non è un movimento nazionalista palestinese, ma è
parte di un movimento internazionale che ha un'ottica totalmente
diversa, nella quale i trecento bambini morti sono uno straordinario
incoraggiamento alla guerra santa contro l'Occidente.
Lei sta dicendo che le vittime di Gaza sono innanzitutto vittime di
Hamas…
Certo, è chiaro che Hamas ha una responsabilità enorme. Ma il
problema non è Hamas, perché noi non siamo alleati di Hamas e quindi
non possiamo discuterne la strategia. Il problema è cosa fa l'Europa,
cosa fa Israele, cosa fanno gli Usa per evitare una spirale che alla
fine fa il gioco del fondamentalismo. Hamas uscirà rafforzata da
questa tragedia e usciranno indeboliti quei leader moderati che noi
diciamo essere i nostri interlocutori.
Cosa si potrebbe fare e non si è fatto per fermare il conflitto?
Moltissime cose. Lo dico perché noi in Italia abbiamo un dibattito
gravemente distorto e molto ideologizzato, sulla base di
un'informazione limitata. Io ho letto l'editoriale dell'Economist –
spero non sia considerato un organo di informazione estremistico –
dove credo che ne sappiano più di certo editorialisti nostrani che
scrivono di cose che non sanno con rozzezza propagandistica. Dice
l'Economist che Hamas continuerà ad esserci, non verrà eliminata:
Hamas è una parte della popolazione palestinese.
Con venticinquemila uomini in armi. Cioè un esercito, non solo un
partito.
Un esercito, un partito, ma comunque una parte della popolazione del
Paese. Non un gruppetto di terroristi nascosti tra i civili. I
militanti di Hamas sono i nipoti, i figli, dei cittadini di Gaza. Non
c'è famiglia di Gaza in cui non ci sia un militante di Hamas.
Hamas ha fatto anche la guerra a molte famiglie di Gaza. E ne ha
uccisi moltissimi di palestinesi.
Ha fatto la guerra ad Al-Fatah, certo. Ha fatto la guerra a chi si
opponeva a quella deriva fondamentalista. E' chiaro che quella è la
storia, e la conosco bene. Del resto sono amico e collaboratore del
gruppo dirigente di Fatah, di Abu Mazen. È un po' buffo che mi si
diano lezioni su questo tema.
Segnalavo soltanto altri punti dell'editoriale dell'Economist.
Sì, capisco. Ma il problema non è favorire Hamas; il problema è come
si combatte il fondamentalismo. Con i massacri di bambini? No, con i
massacri di bambini non lo si combatte ma lo si rafforza. Questo è il
messaggio che deve dare la politica. Intanto io ritengo che ora Hamas
ci sia e che la tregua non possa che essere concordata con quella
parte. Infatti al Cairo stanno trattando con Hamas, al di là delle
ipocrisie. Ma il fatto è che Israele il trattato di pace avrebbe
dovuto farlo con il presidente Abu Mazen, che nel corso di un anno
non ha ottenuto nulla da Israele. Io temo che alla fine si produrrà
una situazione che aumenterà l'insicurezza di Israele. Prima si ferma
questa tragedia e meglio è. Ho apprezzato la sensibilità della
Chiesa. Ma trovo nell'opinione pubblica italiana un'insensibilità che
talvolta sfiora la propaganda di guerra anti-islamica.
Che effetto le hanno fatto le bandiere di Hamas alla manifestazione
di Milano e la preghiera collettiva?
Non mi sorprendono, per le ragioni che le ho detto.
Quindi lei crede che si rafforzeranno i radicali anche
nell'immigrazione islamica in Europa.
Ma non c'è dubbio. Io immagino l'impatto delle immagini diffuse da Al
Jazeera perfino sui media americani, che in parte hanno cambiato
atteggiamento. L'impatto è enorme. La visione del massacro di Gaza
non può che rafforzare l'integralismo.
Pensa che ci sia un legame tra l'Iran e Hamas?
Sì, certamente c'è, un legame tra Iran e Hamas, anche attraverso la
Siria. C'è un fronte islamico radicale che si è venuto costituendo
nel corso degli anni e che costituisce una minaccia seria per il
mondo moderato. Anche perché gode di un crescente consenso popolare.
Venendo ai fatti di casa nostra: perché criticate il governo su
Alitalia?
La vicenda Alitalia è stata un tipico imbroglio. Berlusconi ne ha
fatto una bandiera elettorale. Alla fine si va verso l'unica
soluzione ragionevole, cioè quella che porterà alla fusione tra
Alitalia e Air France. Così come aveva detto il governo Prodi. Ci
sono però differenze importanti: quando si farà questa fusione i
francesi non la pagheranno, a differenza di quello che sarebbe
accaduto con la soluzione proposta dal Governo Prodi, perché il costo
dell'operazione è stato scaricato sui cittadini italiani che
pagheranno tre miliardi di euro. Questo è un esito a mio giudizio
scontato, anche perché gli imprenditori che si occupando di Alitalia
fanno giustamente gli imprenditori, appunto, e non stanno lì a
seguire le direttive del comitato centrale della Lega Nord. Di
conseguenza fanno due più due e sono arrivati esattamente lì dove
eravamo arrivati noi dopo un lungo esame. In questo c'è una vendetta
della razionalità economica contro la propaganda e si svela quello
che è stato fin dall'inizio un grande imbroglio.
Si può fare una riforma della giustizia che comprenda anche il Pd
sulla base del programma presentato, abbastanza irritualmente, dal
presidente Fini?
Tra tante irritualità che avvengono in Italia la proposta di Fini è
stata una di quelle positive. È utile che le persone ragionevoli e di
buon senso, in un momento così difficile, cerchino di trovare delle
soluzioni per il Paese. Le considerazioni di Fini non sono un
programma, ma ha messo alcuni paletti ed io credo che ci sia la
possibilità e l'utilità di un confronto sui temi della giustizia. Non
ho mai considerato questo un tabù.
Passiamo al Pd. So che lei non ama parlare molto delle vicende
interne al Pd, ne parlano però tutti i giornali. Non ha incarichi, ma
credo di poterla definire un dirigente di quel partito. Il segretario
Veltroni ha chiesto ai suoi critici interni una tregua interna fino
alle europee. Lei è d'accordo?
Io sono già da tempo impegnato unilateralmente in questo. Infatti, se
sfoglia le cronache dei giornali, non mi troverà già da molto tempo a
questa parte nelle cronache di queste vicende amareggianti che
avvengono.
Cos'è che l'amareggia?
Questa confusione, questa sensazione di mancanza di responsabilità da
parte di diversi. Anche prima, francamente, ero tirato per i capelli
attraverso cose che non avevo detto; mi si attribuivano complotti di
fantomatici dalemiani, e trovo che sia stato sbagliato. Anziché
affrontare i problemi di questo partito, è stata alimentata una
campagna, per un certo periodo, come se il Pd fosse stato in una
situazione splendida salvo che c'era D'Alema che è cattivo, con le
sue iniziative e le sue correnti. Non capendo che le iniziative che
noi abbiamo preso (la fondazione, l'associazione Red) erano una
risorsa di questo partito, perché in una situazione difficile si sono
continuate a raccogliere forze ed idee e di mantenere canali di
contatto con la società civile. Tutto questo doveva essere apprezzato
e non demonizzato. Invece di demonizzare i miei convegni bisognava
preoccuparsi di più di governare un partito che viveva una situazione
difficile. Io ho sempre detto che sono disposto a dare una mano.
Penso che il Pd rappresenti l'unica grande speranza in prospettiva, e
penso che oggi sarebbe giusto chiamare a raccolta tutte le maggiori
personalità di questo partito per vedere insieme cosa si può fare per
rilanciare questo progetto. Non spetta però a me farlo. Io al massimo
posso dichiararmi disponibile.
Lei ha parlato di amalgama mal riuscito. Quali sono i problemi del Pd?
I problemi riguardano molti aspetti. Che cos'è la fondazione di un
grande partito nuovo? È un'opera di cultura, perché si tratta di
definirne i lineamenti. Perché nasce, quali sono le sue radici, qual
è la sua collocazione internazionale. Che cosa dev'essere dal punto
di vista delle forme organizzative… Ecco, questi sono i problemi.
Si fa il tesseramento, non si fa…, in ritardo…, forse… Questa
era l'opera che bisognava fare. Che è stata anche fatta, ma con molti
ritardi, molta incertezza. Spero che questo processo fondativo trovi
un momento forte di rilancio nella Conferenza programmatica. Io posso
dare un contributo, io sono pronto. Non ho ricevuto chiamate, però
resto pronto.
Quindi l'appello alla tregua era pleonastico nei suoi confronti. Lei
è un pacifista in molti campi…
Io sono un uomo pacifico, non un pacifista, che è un termine carico
di ambiguità.