Senato della Repubblica – Discussione e approvazione, con modificazioni, del ddl 1210 Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2009 e bilancio pluriennale per il triennio 2009-2011 (Approvato dalla Camera dei Deputati)
Dichiarazione di voto a nome del gruppo parlamentare del Partito Democratico.
Signor Presidente, la lunghissima sessione parlamentare di Bilancio – apertasi col DPEF e col decreto di Luglio e proseguita con l'emanazione di numerosi decreti che ne correggono questo o quell'aspetto, fino al Decreto 185 in discussione alla Camera – si sta per chiudere senza che sia stata fornita dal Governo una risposta almeno chiara, se non convincente, alla seguente domanda: "qual'è la ragione per la quale il Governo italiano – unico in Europa e nel mondo Occidentale – si rifiuta di usare anche la politica di Bilancio per fare fronte alla recessione, che già si dimostra pesantissima, e si annuncia lunga?" Riferendoci ai grandi filoni della teoria economica, le riposte a questa domanda possono essere due.
La prima, è quella del liberismo puro – il nostro Ministro dell'Economia forse lo chiamerebbe "fanatismo mercatista": i fattori di soluzione della crisi saranno prodotti dalla recessione stessa. È vero che l'aggiustamento e il riequilibrio avranno costi sociali pesanti – licenziamenti, fallimenti di imprese, caduta del reddito – ma essi saranno mitigati dalla forte riduzione dei prezzi e dalla caduta del costo del denaro, che contribuiranno a migliorare progressivamente la domanda, sia dal lato dei consumi, sia dal lato degli investimenti. E comunque – concludono i "fanatici mercatisti" – se si intervenisse con politiche di bilancio espansive non si farebbe che rallentare il ritmo dell'aggiustamento, aggravandone – lungi dal mitigare – i costi sociali.
La seconda, è più ritagliata sullo specifico italiano: le politiche di bilancio espansive, sono certamente raccomandabili, quando si tratta di contrastare una forte recessione. Ma esse debbono essere rese compatibili con la stabilità finanziaria di lungo periodo. Quindi, per l'Italia, sarebbe certamente utile usare il bilancio pubblico in chiave anticiclica, ma non se ne presentano le condizioni. Troppo grande il nostro debito, troppo incombente il rischio di peggiorare il merito di credito del Paese, con conseguenze insostenibili sulla spesa per interessi.
La prima, non viene sposata dal Governo: al di là della sua difficile coerenza con libri e suggestioni colbertisti e neostatalisti, essa è infatti abissalmente lontana dalla cultura politica di una coalizione di forze che pratica da sempre – e più di recente anche predica – politiche ostili alla apertura dei mercati chiusi, esalta "l'italianità" come valore da difendere ad ogni costo (anche quando l'erario e l'interesse nazionale ne risultano gravemente danneggiati), rinnova pubbliche concessioni per legge, sospende sine die normative antitrust in settori strategici, aumenta di due punti di PIL in cinque anni la spesa corrente primaria… Insomma, la Signora Tatcher, che da tempo, grazie al New Labour, non abita al n° 10 di Downing Street, non si è trasferita nemmeno in ispirito a Palazzo Chigi.
Resta allora la seconda: "vorrei, ma non posso". E il Governo infatti cerca di rifugiarvisi, nel tentativo di giustificare con l'anomalia dei conti pubblici italiani l 'anomalia della sua politica di bilancio nell'intero Occidente.
Un tentativo del quale la nostra proposta alternativa ha mostrato l'intrinseca debolezza. Noi non vi abbiamo proposto – signori del Governo – di abbandonare il sentiero della stabilità, né l'obiettivo del pareggio nel 2012-2013. Avremmo tradito gli interessi del Paese; e noi stessi, visto che siamo stati noi a guidare lo sforzo per conquistarlo, quel sentiero.
Noi vi abbiamo proposto un'altra strada: nel 2009, un peggioramento di un punto di PIL nel rapporto indebitamento netto/Prodotto. Per usare più di 15 mld di Euro in misure di contrasto al ciclo negativo. E subito, contemporaneamente, le misure legislative ed amministrative che consentono di garantire ai mercati il permanere della nostra finanza pubblica in un'area di stabilità.
Ieri, sono stati pubblicati i dati drammatici della produzione industriale. Noi siamo un Paese manifatturiero. Lì c'è il nerbo della nostra capacità competitiva. Voi avete risposto con un taglio della spesa in conto capitale del 20%, tra il 2009 e il 2008. E con l'eliminazione dei residui crediti d'imposta automatici.
Immorali – li ha definiti il Ministro – perché darebbero luogo ad abusi. Strano modo di ragionare: in contrasto coi principi elementari di etica politica sembra piuttosto uno Stato che penalizza tutti gli onesti, perché non sa individuare e colpire i truffatori.
Tra pochi giorni, saranno pubblicati i dati ISTAT sull'occupazione dell'ultimo trimestre, il primo della crisi. Vorrei tanto sbagliarmi, ma credo che ci parleranno della avvenuta distruzione di qualche decina di migliaia di posti di lavoro. Più di quanti ne distrusse, nei primi tre mesi, la crisi del '92-'93, che, alla fine, ne eliminò più di un milione. Davvero pensate che basti rispondere con la concessione della C.I.G "in deroga"?
Anche voi sapete che le misure fino ad oggi messe in campo sono scatole vuote, recano spesso i titoli giusti per contenuti inesistenti. E sapete che i contenuti non ci sono perché – per esserci – reclamano risorse aggiuntive. Che a loro volta non ci sono perché voi non volete cambiare il segno della vostra politica di bilancio: da duramente restrittiva a responsabilmente espansiva.
Il ragionamento torna così alla domanda iniziale – perché questa politica di Bilancio? – e fornisce la risposta giusta: voi non cambiate politica fiscale non perché non sapete che sarebbe necessario, ma perché sapete di non avere la forza politica necessaria per farlo.
Perché – alla fine dei conti – la vostra è una coalizione di forze ancora dotata di grande consenso, ma nella quale prevale un orientamento conservativo. Mentre è il cambiamento, in tutti i campi – la leva che ci può sollevare oltre la crisi. Quel cambiamento che noi vi abbiamo proposto e che voi avete rifiutato. Votiamo contro, lasciandovi piena la responsabilità di questa scelta, destinata ad essere pagata duramente dal Paese e dalla componente più debole del nostro popolo