Nella lettera che abbiamo pubblicato qui sul mio blog (si veda post precedente) Bonet tematizza perfettamente l’attuale combinato fra policies e politics che paralizza le potenzialità politiche del Pd. E come avevo tentato anche io di spiegare sul Riformista (ella sezione Leggi Tutto trovate il mio articolo), rinviene molte di queste difficoltà nella forma partito attuale. C’è un punto su cui voglio soffermarmi e su cui la penso diversamente da Salvati. Nel rapporto fra iscritti ed elettori, come definito dallo statuto nazionale del Pd, penso che ci sia la sintesi più forte.
Agli iscritti spetta la titolarità della proposta politica ogni 2 anni col congresso e l’indicazione del segretario regionale nazionale, che andrà alla valutazione delle primare, e la possibilità di essere dirigenti delle strutture di partito. Agli elettori attivi che si registrano nell’albo spetta tutto il resto: specialmente la possibilità di candidarsi alle elezioni. (si veda nello statuto nazionale la parte su diritti degli iscritti e degli elettori). Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi e le proposte su questi due articoli per capire se ci sono sovrapposizioni. Forse Luciano ha ragione nel criticare la dominanza del circolo territoriale.L’ultima direzione ha votato per una commissione che si occupi della revisione di alcune parti dello statuto. Ma escluderei la possibilità di adesioni collettive che – basta aprire i giornali – porterebbero a una possibile degenerazione del partito e alla violazione del criterio democratico liberale “una testa, un voto”.
Pensiamo se si iscrivessero collettivamente organizzazioni di interesse e di categoria, che potrebbero così determinare la proposta dei segretari alle primarie.Sull’organizzazione degli elettori di cui parla Tonini bisogna intendersi e dirsi le cose con verità. E’ scandaloso l’abbandono fatto da tutti di quel giacimento che Morizio definisce giustamente ricco di energie e sensibilità. Come scandalosa è stata la gestione dell’assemblea nazionale che era la fonte legittima del potere e che è stata mal convocata e poi liquidata in poco tempo, una volta votato lo statuto e la Direzione. E’ stato impressionante sentir dire in Direzione che si sono persi gli elenchi delle primarie. Spero non sia così. Analogamente bisogna intendersi su due punti: un conto è l’organizzazione, gli elenchi dei cittadini attivi fondatori del Pd e che vogliono influire sulla sua vita e sulla sua politica (che vanno quindi organizzati, cosa difficile e costosissima), un altro conto sono fluide campagne di opinione ed episodiche mobilitazioni di primarie, che costituirebbero organismi dirigenti democraticamente eletti e risolverebbero in una mera dimensione elettoralistica la forma del partito.
Bonet ha ragione a parlare di cartel party, ma credo dovremmo vedere i rischi e specialmente le inadeguatezze di un partito solo così fatto. E reggere la sfida per un nuovo riformismo per l’alternanza al governo del Paese. Per quanto riguarda il "circolo veltroniano", che non mi sembra abbia propaggini organizzate nelle periferie se non come biografia individuale e apertura a nuovi protagonismi, credo che anche lì alberghino tensioni diverse tra chi pensa che il partito degli iscritti non serve, ma non ha il coraggio di dirlo (e ciò sin dall’inizio della fase costituente) e chi cerca disperatamente di mettere in piedi il partito previsto dallo statuto e dal codice etico.
Naturalmente non riesco a condividere con Luciano la lucida amarezza delle sue conclusioni: si va verso un partito elettorale, contano solo gli incentivi elettoralistici e di sottogoverno. Così è da almeno 10 anni anche nell’evoluzione dei Ds e della Margherita, ma è esattamente il limite che dobbiamo superare ora, se vogliamo creare un movimento e un soggetto politico che risponda alla sua funzione storica e attuale.
E personalmente ritengo che l’attuale Pd non sarà quello a regime. Ma non concordo con l’occhettismo d’annata di Veltroni di ridurre tutto a una ipotetica lotta del nuovo contro il vecchio. Quale è il nuovo? Non tutte le scelte di Vltroni- di candidature e di scelte politiche- hanno onorato questa tensione. Penso in ultima analisi che si andrà a una selezione molto dura di politiche, progetti istituzionali, che naturalmente segneranno una scansione. Non è detto che sarà la qualità anagrafica a individuare gruppi dirigenti efficaci. Insisto, congratulandomi ancora con Luciano, che sia offerta questa sua riflessione a un pubblico non solo telematico e ristretto, ma a persone e militanti che sono stati negletti e inascoltati in questi ultimi mesi.
Ancora una cosa: come la metti, caro Luciano, con l’intervista di Nadia Urbinati sull’Unità di domenica, che sostiene esattamente il contrario. Cioè che solo un nuovo massiccio radicamento territoriale porterà a un partito aperto e in grado di vincere. La Urbinati, partendo dallo stesso ordine di problemi arriva a conclusioni diverse e opposte. Inoltre non vorrei che fosse sfuggito che l’ultima direzione nazionale (la relazione è riportata qui di seguito in Leggi tutto) è stata anche l’occasione di una proposta riformista votata da tutti.
scarica l'intervista a Nadia Urbinati
Costituzione materiale del Pd |
sabato 15 novembre 2008 | |
Il Riformista – Le Ragioni del Socialismo – 7 novembre 2008 Magda NEGRI Carmine Pinto ha colpito nel segno. Bisogna riconoscere e isolare in sé la questione della costituzione materiale, hic et nunc, del PD. Il farlo non è esercizio formalistico astratto dall'urgenza delle scelte politiche concrete e dai problemi di identità ancora irrisolti, ma per alcuni versi costituisce la condizione per meglio affrontarli. Il pluralismo costitutivo del PD trovò nelle primarie del 14 Ottobre 2007 e nello Statuto votato nel Febbraio 2008 una precisa formalizzazione: gli organismi dirigenti si sarebbero dovuti costituire rispettando la proporzionalità dei voti ottenuti dalle varie liste dei delegati collegati ai candidati segretari. Tale ispirazione intendeva essere squisitamente politico-programmatica, cogliendo e anticipando l'issue fondamentale del nuovo partito: mescolare persone provenienti da diverse tradizioni politiche in intelligibili piattaforme programmatiche che legittimavano la peculiarità delle singole candidature a segretario. Buon metodo e buona ispirazione, cui già ci eravamo attenuti negli ultimi congressi dei DS, e che la proiezione popolare a dimensione delle primarie avrebbero utilmente "volgarizzato" veicolando messaggi politico-culturali a vasto spettro. La loro applicazione avrebbero ovviamente richiesto quello che la Commissione Statuto bocciò e che era stato vanamente sostenuto da Parisi, Morando e pochi altri, cioè l'esclusività dell'apparentamento: un segretario e una sola lista di candidati per l'assemblea costituente, ad ogni livello. Veltroni ha scelto, invece, dall'inizio l'ibridazione opportunistica di questo metodo, cercando la creazione di più liste (Democratici per, Innovazione, Ambiente, Lavoro, Sinistra per) che non potevano onestamente riconoscersi allo stesso modo nella piattaforma del Lingotto e nel partito a vocazione maggioritaria lì delineato. La ricerca della vittoria plebiscitaria sugli altri due candidati ha, quindi, segnato dall'origine la segreteria di Veltroni, compromettendone il disegno politico e aprendo il varco a successive complicazioni. Pinto coglie perfettamente un problema che abbiamo del tutto ignorato. Era senza dubbio giusto legare il segretario ad una precisa maggioranza (in questa caso sommamente imprecisa). Ma, accettata la pluralità delle liste, la scelta dei collegi uninominali a liste bloccate ha, di fatto, dipanato ad ogni livello territoriale la somma delle gerarchie partitiche preesistenti (DS e Margherita), ognuna percentualizzata nei possibili esiti in cabine di regia nazionali e regionali. Solo a cose fatte ci si è resi conto che l'assembla di 2.800 delegati raccoglieva solo marginalmente energie nuove e sorgive dei territori, ma era una disposizione euclidea dei gruppi dirigenti. Veltroni ha poi commesso due successivi errori, credo in piena consapevolezza. Alla prima assemblea nazionale, ha nominato senza neppure procedere a un formale voto di ratifica, la prima Direzione. Alla assemblea successiva alla sconfitta elettorale, di fronte a un'evidente platea numericamente inadeguata, ha proceduto a pur limitate modifiche statutarie e a far votare, per estenuazione, una Direzione presentata a lista bloccata, difendendola in virtù della rispondenza ai criteri statutari e originali della proporzionalità. Quale proporzionalità? Quella delle sei liste dei tre candidati segretari? Forse, ma nella sostanza la proporzionalità che il segretario difende e di cui si fa ormai garante e regolatore massimo, è una proporzionalità auto-attribuita di gruppi di potere personali e di sottocomponenti per lo più afferenti all'ex Margherita e agli ex DS, ormai del tutto trasversali alle liste che si presentarono a quella specie di bel congresso a cielo aperto – come lo definì Salvati – che erano state le primarie. Senza dirlo, quindi – e a parer mio violando lo Statuto, o comunque lo spirito originario del PD – abbiamo assistito alla ricombinazione pseudo-identitaria che occupa la vita del PD, dalla Direzione nazionale all'ultimo circolo di periferia. Il segretario conduce una quotidiana polemica contro le correnti mentre si aggira in un grande accampamento di piccole tribù. Nulla di male, se questo non costituisse un ostacolo potente all'ingresso e alla valorizzazione di nuove energie e alla emersione di limpide piattaforme politiche. Il PD è ormai un partito dove nessuno ti chiede che cosa pensi, ma con chi stai. La riflessione iniziata da Parisi ed altri, può arricchire tutti se non diventa un'altra corrente nostalgica, di fatto, dell'Unione. Personalmente mi auguro che la nascita dei circoli, il regolamento per la prossima conferenza programmatica e quanto previsto dallo Statuto per l'elezione del segretario al prossimo congresso, con il doppio canale di iscritti e cittadini delle primarie, riscomponga questo quadro così nervoso, ma di fatto così inerte. Nel frattempo, lo stare solo con se stessi in un leale confronto con tutti, può essere un efficace esercizio di onestà intellettuale. ——————————————————————————– Il dovere di non deludere Disuguaglianza sociale. Il dramma più grande che l’Italia oggi sta vivendo è contenuto in queste due parole. Disuguaglianza sociale. E’ questa la grande, moderna questione che si pone, oggi, di fronte a noi. Colpevole non vedere, non rendersene conto. Imperdonabile non sentire bruciante, sulla nostra pelle, per le nostre coscienze, il dovere di offrire risposte a questa realtà. La crisi finanziaria, esplosa nei mesi scorsi, è diventata recessione economica e sta colpendo con durezza la vita delle persone, delle famiglie, delle imprese. Nel terzo trimestre di quest’anno il Pil è sceso dello 0,9 per cento. L’Istat ci dice che il tasso di disoccupazione è arrivato al 6,1 per cento e Confindustria stima che arriverà all’8,4 per cento nel 2009. Settori cruciali del nostro apparato produttivo conoscono riduzioni di ordinativi nell’ordine del 30 per cento rispetto allo scorso anno. La caduta dei consumi e la stretta creditizia tolgono ossigeno alle piccole imprese: tre su cinque stanno avendo difficoltà nell’accesso al credito. Più di 300 mila lavoratori sono già in cassa integrazione: 58 mila in diversi stabilimenti della Fiat, 1.600 nelle sole acciaierie di Piombino, e soffrono anche distretti forti della nostra economia come quello delle ceramiche di Sassuolo e quello dell’occhialeria di Belluno. Sempre Confindustria stima che la crisi distruggerà 600 mila posti di lavoro. “Io non renderei note queste cose”, ha detto ieri il Presidente del Consiglio. Ma questi non sono solo numeri: sono storie, sono vite, sono famiglie mortificate e in ginocchio, sono dignità ferite e speranze infrante. E questa realtà il Presidente del Consiglio non può pensare di cancellarla agli occhi degli italiani. Alcuni di voi avranno letto, su Internet, i racconti dei ragazzi di 5 mila scuole italiane. Descrivono cos’è la crisi, con gli occhi di un adolescente, mentre la vita continua, mentre si avvicinano le Feste di Natale. Una di queste lettere descrive quello che succede in una famiglia normale, semplice, onesta. Lo sguardo di una ragazza che cade sui suoi genitori, seduti al tavolo della cucina. Il padre con la testa fra le mani. La madre con lo sguardo preoccupato che prova a consolarlo. Quelle due parole, “cassa integrazione”, percepite distintamente. E il racconto che prosegue: “papà non sembra consolarsi, dice di essere un fallito, perché non è riuscito a dare tranquillità e sicurezza alla sua famiglia. Si sente un fallito, perché ha caricato mamma di mille preoccupazioni e, nonostante gli sforzi, con quel misero stipendio di operaio che portava in casa, non si riusciva ad arrivare a fine mese. Si sente un fallito perché non riesce a dare ai suoi figli un futuro sereno: non può portarci al cinema o al ristorante, ma neanche comprarci dei vestiti nuovi o una fetta di carne in più al posto delle solite verdure. Mamma allora si siede accanto a lui, lo guarda negli occhi e gli dice determinata e lucida: è lo Stato che ha fallito, non tu; lo Stato che non riesce a dare benessere ai suoi cittadini e sta producendo sempre più nuovi poveri”. Il dramma è questo. La crisi sta colpendo un Paese fermo e terribilmente diseguale, un Paese con le infrastrutture in ritardo e senza mobilità sociale, sempre più diviso fra ricchi e poveri, fra chi paga le tasse e chi no, fra pochi che per molto tempo hanno tratto vantaggi dalle speculazioni finanziarie e tanti che anche per effetto dell’avida ingordigia di questi pochi ora non arrivano alla fine del mese. Gli operai che faticano, che troppo spesso rischiano anche la vita per 1.200 euro al mese e che ora vivono con l’angoscia di arrivare in fabbrica e sapere che si va tutti a casa perché la produzione si ferma. I pensionati che devono calcolare come impiegare quel che resta della loro pensione dopo aver pagato l’affitto di casa e le bollette e decidere se eliminare qualcosa quando vanno al supermercato oppure entrano in farmacia. I ragazzi che, quando scadono i sei mesi passati al telefono a quattro o cinque euro l’ora, sanno che nemmeno verranno avvertiti e “licenziati”, perché semplicemente non verrà loro rinnovato il contratto: si calcola possano essere mezzo milione, quelli che alla fine dell’anno saranno in questa condizione. Tutte quelle famiglie che sono state sempre considerate “ceto medio”, ma che stanno diventando i “nuovi poveri” di cui si parla nella lettera di quella ragazza. O che comunque sentono che possono facilmente diventarlo: l’Italia è il paese europeo, seconda solo all’Ungheria, con la percentuale più alta di persone (più di un terzo della popolazione) che si sentono a rischio povertà. La realtà nuova con cui tutti siamo chiamati a fare i conti ha insomma un nome: disuguaglianza sociale. E noi, una forza come il Partito Democratico, non possiamo rispondere che in un modo: facendo nostra, nei modi che sono di un partito riformista e dell’innovazione, la lotta alle forme di questa moderna e inaccettabile disuguaglianza sociale. E’ proprio adesso che noi possiamo farlo, che il Partito Democratico può e deve farlo. E’ il senso, la ragione, della nostra stessa esistenza. Nel momento in cui c’è un’emergenza da gestire, per attutire l’impatto della crisi sulla società italiana. Ora che c’è da immaginare e costruire il futuro, se si vuole evitare che l’Italia esca dalla recessione più piccola, più sola e ancora più ingiusta. C’è bisogno di molta e buona politica. Gestire l’emergenza, immaginando e costruendo il futuro, richiede infatti la capacità e la volontà di fare appello, in piena trasparenza, a tutte le energie del Paese. Richiede spirito repubblicano, forte coesione nazionale, senso di responsabilità diffuso, insieme al coraggio di decisioni difficili e ambiziose. Al governo, lo diciamo con rammarico, sono fin qui mancati sia il coraggio dell’innovazione, sia la capacità di confronto: sul piano politico e parlamentare, come su quello sociale e sindacale. La destra appare più impegnata in una campagna elettorale permanente. Il governo fa l’opposizione all’opposizione, piuttosto che governare il Paese in un passaggio così difficile. Gli italiani se ne sono accorti e hanno cominciato ad esprimere disillusione e preoccupazione. In Abruzzo, il partito dell’astensione ha sfiorato la maggioranza assoluta. E il nuovo presidente della Regione è stato votato da meno di un quarto degli elettori. Non si contano i sondaggi che rilevano la crescita esponenziale della propensione al non voto. E’ evidente che l’angoscia per la crisi economica e sociale, insieme alla caduta di autorevolezza, di credibilità morale della politica, stanno aprendo una pericolosa voragine nella democrazia italiana. Anche sotto questo profilo, il profilo politico e istituzionale, la crisi sarà uno spartiacque. Non solo il volto economico, produttivo, sociale dell’Italia, non solo il suo peso e il suo ruolo in Europa e nel mondo: anche la sua fisionomia civile, la sua qualità democratica saranno ridefiniti, usciranno radicalmente cambiati. Potremmo ritrovarci in un Paese che non riconosciamo. Migliore o peggiore: dipenderà anche da noi, da cosa decideremo di fare e prima ancora di essere. Sarà un paese senza il berlusconismo, che nonostante le apparenze è un modello culturale, prima ancora che economico e politico, che inevitabilmente volge al tramonto. E’ stato il nostro modo, il modo italiano, di adattarci all’egemonia del pensiero neo-conservatore, che ha dominato il mondo negli ultimi trent’anni e oggi è entrato in una crisi irreversibile. Il Partito Democratico invece è nato per abitare il futuro. Per essere la vela con la quale l’Italia può prendere il vento nuovo: quel vento democratico che oggi sembra essere l’unica energia che può portare il mondo fuori dalla crisi. Ma non possiamo dare nulla per scontato. Non basta un’intenzione, per produrre un successo storico. Serve un’opportunità oggettiva, un’occasione prodotta dalla storia. E serve anche una convinta decisione soggettiva, che si traduca in una collettiva assunzione di responsabilità. Il Partito Democratico è nato sulla base di una sintesi tra continuità e innovazione. Era inevitabile e forse anche saggio. Se oggi abbiamo il PD, se oggi siamo il PD è perché culture politiche che hanno fatto la storia del Paese, organizzazioni profondamente radicate nella società italiana hanno deciso, con generosità e lungimiranza, di guardare oltre se stesse, di pensare il futuro. Ma la crisi economica e politico-morale che stiamo vivendo ci consegna, oggi, un’alternativa, secca e drammatica: o innovazione, o fallimento. O siamo capaci di accelerare l’innovazione – politica e programmatica, ma più ancora radicando un partito nuovo – o rischiamo che il PD sia travolto. O aiutiamo il Partito Democratico a saltare nel futuro, o finiamo per legarlo ad un presente che la crisi sta precipitando nel passato. Questo è l’ultimatum che ci hanno inviato gli elettori abruzzesi. Con l’astensione di massa, che non ha colpito solo noi, ma anche e innanzi tutto noi. E con il voto all’Italia dei Valori, che come è stato scritto è il sintomo e non la causa del nostro malessere. L’una e l’altro, sono espressione di una protesta, dura, rabbiosa, e insieme di un appello accorato, da parte dei nostri elettori. Il bollettino quotidiano, che da ormai diverse settimane ci informa di indagini o provvedimenti giudiziari nei confronti di nostri amministratori o dirigenti, in tutta Italia e in particolare nel Mezzogiorno, racconta al Paese di un Partito Democratico segnato da opacità amministrative, compromessi morali, collusioni col malaffare. Sappiamo che si tratta di un’immagine deformata e quindi ingiusta. I nostri amministratori sono migliaia: migliaia di persone perbene, la stragrande maggioranza delle quali regala alla collettività un servizio in regime di volontariato, quando non ci rimette di tasca propria. Al Paese voglio dire che il PD è un partito di persone per bene, di amministratori straordinari, che sono un patrimonio per l’Italia. Colpirli significa danneggiare quella cultura del buon governo e della responsabilità etica che caratterizza il lavoro, la fatica e il rischio di migliaia di amministratori italiani. E tuttavia, non si può deformare, o ingrandire, qualcosa che non c’è. Non sappiamo se ci sono elementi di prova a carico degli amministratori e dirigenti politici indagati dalla magistratura. Per ciascuno di loro vale, come per tutti, il principio costituzionale della presunzione d’innocenza, fino alla eventuale condanna definitiva. E la magistratura, lo diciamo in questo momento con la nettezza di sempre, deve procedere nel suo lavoro senza che da nessuna parte venga messo in discussione il principio della sua autonomia e indipendenza. Quel principio che è la forza di una democrazia. Per noi la questione morale è centrale. Lo è per il nostro elettorato, lo è per ciascuno di noi individualmente. Per questo, quando si affaccia, determina in noi inquietudine e voglia di reagire. Sia chiaro: noi vogliamo più di chiunque altro che proprio gli amministratori di centrosinistra siano i più attenti alle regole, giuridiche e morali, che presidiano al loro lavoro. E dunque, se la magistratura, in singoli casi, registra gravi anomalie, è giusto che intervenga. Non siamo tra coloro che rispettano la magistratura e la sua autonomia a seconda di chi è indagato. Allo stesso tempo voglio dire questo: un magistrato ha nelle sue mani uno strumento molto potente, che può distruggere la vita e la dignità di una persona. E non penso solo ai politici o agli amministratori, ma in primo luogo ai singoli cittadini. Voglio essere sincero, perché lo sostenne il mio giornale, quando ero direttore dell'Unità, al momento dell'arresto di Paolo Berlusconi: la sottrazione ad una persona della sua libertà è uno strumento estremo, da utilizzare davvero con grande equilibrio e attenzione. Anche perché non si può ignorare il fatto che sul lavoro della magistratura agisce la morsa di un sistema mediatico che finisce per regalare nove colonne alla notizia di un'indagine e consegna a sole tre righe quella del proscioglimento. La magistratura ha un grande potere, al quale non può non corrispondere una grandissima responsabilità. E un po’ come un medico che se sbaglia un’operazione può segnare per sempre la vita di una persona. E comunque, per noi, non c’è solo il codice penale. Non possiamo non vedere come nel nostro partito si siano insinuati stili politici, metodi di gestione della cosa pubblica, modalità di rapporto con la società civile e di relazione con la sfera degli interessi privati, assai diversi da quelli che devono essere nostri. C’è la grande maggioranza degli amministratori di centrosinistra, che hanno sempre ispirato la loro condotta a principi di trasparenza, di competenza, di innovazione e su queste buone pratiche hanno basato la loro popolarità tra i cittadini. E tuttavia, da diversi anni a questa parte è cresciuta, attorno a tutti i partiti, anche un’area grigia e paludosa, nella quale la trasparenza è diventata opacità, la competenza professionismo politico e carrierismo arrogante, l’innovazione gestione cinica di un potere fine a se stesso. La popolarità, in questi casi, ha lasciato il passo al disincanto e alla delusione. E ci si è illusi di poter compensare questo deficit di consenso con il rovesciamento del rapporto tra potere e consenso: non è più il libero consenso dei cittadini che legittima il potere, ma è il potere che viene utilizzato per acquistare il consenso. E comunque, anche le ultime indagini dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la questione della moralità della politica non riguarda certo una parte sola. Noi la avvertiamo in modo particolarmente bruciante perché la nostra cultura, i nostri valori, il nostro modo di essere, quello di tutto il nostro popolo, mette la legalità e l’onestà personale al primo posto, assoluta precondizione del far politica. Per altri non è certo così. E tutto si può accettare tranne le lezioni che vengono da chi tra le sue file ha indagati per reati connessi alla mafia e alla camorra. Da chi, mi riferisco al Presidente del Consiglio e voglio dirlo senza alcuna concessione alla demagogia, ma per semplice verità dei fatti, ha scelto di fronteggiare le sue vicende giudiziarie varando una serie infinita di leggi ad personam. E’ in funzione dei nostri valori che noi siamo estremamente severi con noi stessi e promuoviamo la nostra stessa profonda innovazione. Un partito ha pochi poteri di intervento su se stesso in chiave punitiva e repressiva. Ha invece grandi responsabilità e possibilità nella prevenzione di comportamenti illeciti, o comunque sbagliati. Perché se organizziamo la nostra vita interna in modo da tollerare fenomeni di malcostume politico, per quanto non penalmente rilevanti, di fatto abbassiamo la soglia etica e creiamo le premesse anche per la violazione delle leggi. Il Partito Democratico è un partito nuovo, anche perché la prevenzione del malcostume politico intende farla sul serio. Anche se questo dovesse costare, nell’immediato, pagare dei prezzi in termini di consenso elettorale. Non ho nessuna paura, voglio essere chiaro anche in questo caso, di perdere voti se questo significa combattere e sconfiggere quei fenomeni di inquinamento che rischiano di avvelenare la nostra vita interna. Per i disonesti non c’è posto nel Partito Democratico. Verremmo meno alla nostra responsabilità, se pensassimo e se ci comportassimo diversamente. Il Partito Democratico è nato per rinnovare la politica, per restituirle dignità, credibilità, autorevolezza. Per liberarla da queste degenerazioni: non per ereditarle, non per farle sue. Il Partito Democratico fa parte della soluzione, non del problema. Questo abbiamo detto ai cittadini italiani. Ai nostri elettori che hanno affollato i seggi delle primarie il 14 ottobre dell’anno scorso e poi ci hanno consegnato, pur nella inevitabile sconfitta nella competizione sul governo, un partito del 33 per cento dei voti, il più grande partito riformista che l’Italia abbia mai conosciuto. Lo abbiamo detto ai nostri militanti, che hanno riempito il Circo Massimo il 25 ottobre: per la prima volta in così tanti, per la prima volta accomunati dalla stessa bandiera. Così abbiamo detto. E così loro hanno capito. Per questo, oggi, ci chiedono coerenza. Lo hanno fatto in Abruzzo. Lo fanno in tutto il Paese, e noi dovremo dare loro la chiara percezione che abbiamo scelto, in modo inequivocabile e impegnativo, la discontinuità e l’innovazione: sul piano politico, su quello programmatico, su quello della forma partito e della sua classe dirigente. Le crisi sono fasi di passaggio, dure e dolorose, dalle quali non si esce mai come si era entrati: nelle forme e nei modi di produzione e di sviluppo; nei rapporti di forza, sociali e politici; nei modelli culturali, nella gerarchia dei valori. Dalla grande crisi del 1929, si uscì, dopo la Seconda Guerra mondiale, con un grande compromesso tra capitalismo e democrazia: una crescita trainata dai consumi di una classe media in espansione, nella quale entrava il mondo del lavoro, anche operaio; una forte compressione delle disuguaglianze, grazie a politiche salariali generose e a forti azioni redistributive pubbliche; la rapida espansione dello Stato sociale. Trent’anni dopo, negli anni Settanta, la crisi petrolifera e la stagflazione hanno spinto l’Occidente a cambiare rotta: forti investimenti in innovazione tecnologica, che innalzano la produttività tagliando posti di lavoro e ridimensionando il potere contrattuale dei sindacati; la classe media si assottiglia, le disuguaglianze tornano ad allargarsi e l’ascensore sociale si blocca, anche per il ridimensionamento dello Stato sociale. Viene teorizzata l’autosufficienza del mercato e si afferma lo strapotere della finanza sull’economia reale, con gravi conseguenze anche per la democrazia, costretta a rinunciare a qualunque effettiva sovranità sui flussi di capitale. L’economia torna a crescere, ma a prezzo di gravi squilibri e forti disuguaglianze: negli Stati Uniti, innanzi tutto, ma anche in una parte dei paesi europei, tra i quali in primo luogo l’Italia, divenuta in questi anni, dopo gli Usa, il paese più diseguale dell’Occidente. Nel mercato globale entrano in campo nuovi protagonisti. Miliardi di esseri umani, prima esclusi dallo sviluppo, rivendicano peso e ruolo. Nel nuovo secolo, lo sviluppo si mostra tanto impetuoso, quanto insostenibile: sul piano globale, per il divario crescente tra l’indebitamento americano e il surplus asiatico; sul piano ambientale, per le pesanti conseguenze sul clima del trasferimento del modello occidentale ai paesi emergenti; sul piano interno, per l’impoverimento della classe media, in particolare negli Usa, spinta ad indebitarsi per la casa, la sanità, l’istruzione. Lo squilibrio è stato sostenuto, in questa prima fase del Duemila, la stagione della presidenza di George Bush, dalla “hybris” imperiale americana, dal suo imporsi come unica iperpotenza globale, dalla sua pretesa di dettare da sola, in modo unilaterale, con le armi o con il dollaro, le decisioni riguardanti l’ordine mondiale. Ma il pantano iracheno prima e la crisi finanziaria poi, hanno spezzato l’illusione neo-conservatrice e hanno aperto la via ad una fase nuova, ad un nuovo paradigma di pensiero, ad una nuova stagione politica. In questo contesto, la scelta del popolo americano di affidare le proprie sorti a Barack Obama è stata una straordinaria prova di saggezza e di lungimiranza. L’America ha respinto la tentazione della chiusura difensiva e ha deciso di scommettere sul cambiamento: su un nuovo multilateralismo nelle relazioni internazionali; e su un nuovo New Deal, sulla ricostruzione della classe media, su una nuova stagione di uguaglianza sociale. Obama, e con lui il Partito democratico, ha vinto perché ha puntato tutte le sue carte sul cambiamento, sulla voglia, sul bisogno di innovazione della società americana. Ora è atteso dalla dura prova dei fatti. Sarà la storia a dirci se il giovane presidente afroamericano, come tutto lascia sperare e presumere, sarà un nuovo Roosevelt, la guida sicura di una fase di cambiamento duraturo e solido. Per intanto, è toccato a lui aprire simbolicamente una fase nuova, una “terza fase” dello sviluppo umano contemporaneo. Il binomio rappresentato dalla crisi economica e dalla vittoria di Obama costituisce una formidabile occasione storica per i democratici e i progressisti di tutto il mondo e quindi anche per noi italiani. Nessuno di noi ha mai pensato che la vittoria democratica negli Stati Uniti fosse una nostra vittoria, ma abbiamo colto in quel risultato una straordinaria opportunità e anche una lezione, da apprendere e da meditare. Grazie alla crisi economica e al suo programma innovativo, Obama è riuscito a cambiare in profondità i rapporti di forza politici nella società americana, riportando i Democratici al primato sia alla Casa Bianca che al Campidoglio, dopo una lunga stagione di predominio repubblicano, solo attenuato con la presidenza Clinton. Se ciò è stato possibile, è perché la crisi economica ha riportato in primo piano il conflitto sociale, negli anni di egemonia repubblicana messo in secondo piano dall’uso ideologico delle questioni inerenti la razza, i valori tradizionali, la sicurezza interna ed esterna. E’ come se la crisi avesse dissolto la nebbia che per tre decenni aveva consentito e quasi imposto ai ceti popolari e alla middle class americana di votare contro i propri interessi e a favore di quelli della minoranza privilegiata, che vedeva ogni anno crescere i suoi redditi e i suoi patrimoni e decrescere la pressione fiscale alla quale era sottoposta. La lezione americana ci dice che cambiare i rapporti di forza nella società è possibile; che se è stato possibile nella società americana, non c’è alcuna ragione insuperabile perché non possa esserlo anche in quella italiana; che la condizione perché ciò avvenga è riportare in primo piano, nella competizione politica, la questione economica e sociale; e offrire ad essa uno sbocco realistico, attraverso una proposta di forte innovazione politica e programmatica. Questa è del resto per noi la “vocazione maggioritaria”. Non la presunzione boriosa dell’autosufficienza, né la ricerca della solitudine, ma la convinzione che i rapporti di forza elettorali, anche nella società italiana, non sono un destino ineluttabile, ma possono essere modificati, anche in profondità, se cambia l’offerta politica, attraverso l’innovazione della proposta che rivolgiamo al Paese. Non è vero, non è mai stato vero, che la società italiana è “di destra” e pertanto ai riformisti, ai democratici, non resta che compensare, con la manovra politica, con il gioco delle alleanze, la loro insuperabile minorità. Il Partito democratico è nato sulla base del presupposto contrario. Una profonda innovazione politica e programmatica può cambiare, anche significativamente, l’orientamento elettorale degli italiani. Noi vogliamo far diventare il PD, alle prossime elezioni politiche, il primo partito italiano. Vogliamo conquistare alla destra una parte dei suoi consensi, costruendo una grande alleanza nella società italiana, un'alleanza con il Paese. E’ un cammino lungo e faticoso, quello che ci attende. Un cammino che chiede a ciascuno di noi generosità, pazienza, tenacia. E anche una certa dose di disciplina interiore. Ma è l’unico all’altezza delle ragioni storiche che hanno portato alla fondazione del PD. E soprattutto, l’unico adeguato alle necessità dell'Italia. Lungo il cammino, costruiremo le necessarie alleanze politiche. Mai più alleanze lunghe, eterogenee, costruite “contro” l’avversario e poi incapaci di governare. Questa stagione l’abbiamo chiusa con coraggio noi, l’ha chiusa il PD per sempre e il Paese non ha nessuna intenzione di farsi riportare indietro. E neppure dobbiamo nutrire nostalgia della stagione dell’alleanza tra partiti “di sinistra” e partiti “di centro”. Non solo è un progetto incompatibile col Partito Democratico, che è un partito di centrosinistra. Soprattutto, è un progetto anacronistico, che considera immutabile uno schema novecentesco che tutt’al più può sopravvivere a se stesso, ma che certo non è in grado di esprimere alcuna potenzialità innovativa. Non c’è, da parte nostra, alcuna illusione di poter fare tutto da soli. Ma le alleanze nuove che costruiremo saranno alleanze per l’innovazione e il cambiamento, affidabili sul piano della tenuta alla prova di governo. E saranno possibili solo se il Partito Democratico saprà dimostrare capacità espansive, solo se noi non delegheremo a nessuno il compito, che è innanzi tutto nostro, di modificare i rapporti di forza politici nella società italiana, attraverso la messa in campo di una proposta innovativa e credibile. E' qui il punto di debolezza dell'Italia dei Valori, che alimenta costantemente una polemica nei nostri confronti ma non si cimenta, parlando di lavoro, di scuola o di immigrazione, con le sfide dell'innovazione riformista. Sento dire che dovremmo rompere con Di Pietro. Posso solo far presente che già per tre volte in questi mesi, abbiamo esplicitato nel modo più chiaro che in Italia ci sono modi diversi di intendere e di fare l’opposizione: subito dopo il voto di aprile, quando Di Pietro ha stracciato gli accordi presi prima delle elezioni sul gruppo unico, quando noi non abbiamo partecipato alla manifestazione di Piazza Navona e infine con una mia dichiarazione che è stata titolo di apertura dei giornali. Ciò non significa che a livello locale non si possano trovare, come accade e accadrà con l’Udc e la sinistra radicale, delle convergenze su programmi e buona amministrazione. E comunque vorrei ricordare, per la memoria, che con lo stesso Di Pietro che oggi fa un’opposizione diversa dalla nostra, abbiamo condiviso un’esperienza di governo, e con non poche contraddizioni. E’ giusto fare, forse, un ragionamento di fase. Silvio Berlusconi è da quindici anni al potere. Otto come capo di governo, sette come capo dell’opposizione. E’ l’uomo politico più “longevo” dell’ultimo trentennio di storia italiana. E’ evidente che il Paese si trova nelle condizioni in cui è, sua è una parte molto grande di responsabilità. Ed è altrettanto evidente che se l’Italia sta così è anche perché le è mancata una vera e coerente stagione riformista. Il nostro Paese non ha conosciuto stagioni paragonabili a quella che la Gran Bretagna ha avuto con Tony Blair o per il verso opposto da Margaret Thatcher, non ha mai goduto dei benefici di quei cicli lunghi di governo che producono ventate creative e innovatrici, che dinamizzano e modernizzano una comunità nazionale. Due volte si sono aperte possibilità di questo tipo: con il primo centrosinistra e con il primo governo Prodi, ma entrambe queste esperienze si sono interrotte bruscamente. Berlusconi ha dimostrato e continua a dimostrare di non essere all’altezza di questa sfida. Noi dobbiamo esserlo. Tutte le nostre energie, intellettuali, morali, politiche, organizzative, devono essere messe al servizio di questo compito storico, allo stesso tempo arduo e affascinante. Con la crisi dell’egemonia del pensiero neo-conservatore, può tornare il primato della politica sulla forza, e dopo la crisi dell’unilateralismo, torna ad affermarsi, come unica via possibile, quella del multilateralismo efficace, del dialogo tra i popoli, per la pace e per uno sviluppo equilibrato e sostenibile. Si afferma, a partire dai pericoli per l’ambiente, la necessità di una visione qualitativa dello sviluppo, che faccia della ricerca di nuove tecnologie e di nuove fonti energetiche il settore trainante di una nuova rivoluzione industriale. Oltre la contrapposizione tra religione e ragione, si afferma l’idea di una società post-secolare, nella quale il riconoscimento della dimensione pubblica della fede religiosa, del suo apporto alla tenuta dei legamenti sociali e alla vitalità della democrazia, si salda con l’autonomia della politica e la laicità delle istituzioni. Emerge, da questi segni dei tempi, tutta l'attualità del progetto del PD, che è nato sulla base di un’intuizione culturale, prima ancora che politica. Avevamo maturato la consapevolezza che il mondo nuovo che stava nascendo metteva fuori gioco le vecchie culture, le tradizioni politiche del Novecento, con le loro pretese di autosufficienza. E ci provocava a cercare, insieme, un pensiero nuovo, nuove categorie per leggere la storia e nuovi alfabeti per interloquire con essa. Per questo ci siamo incontrati, donne e uomini che si erano formati nella sinistra democratica come nel movimento cattolico, nell’area laica e liberaldemocratica o a confronto con le nuove culture e i nuovi movimenti della fine del secolo scorso. Quel che ci accomuna è una visione umanistica della storia e della politica, sulla quale fondiamo il nostro impegno per una società aperta, libera, eguale. Noi, il PD, non siamo una federazione di vecchi partiti e neppure di vecchie culture. Siamo un partito nuovo, impegnato nella definizione e nella realizzazione di una comune, innovativa identità politica e culturale: l’identità democratica, l’identità di un partito riformista, di centrosinistra. Ci sentiamo parte di una vicenda storica dell’umanità che va sotto il nome di “Occidente democratico”. Siamo “europeisti” e siamo “atlantici”. Non in maniera chiusa, esclusiva, difensiva, ma in maniera aperta. Pensiamo cioè che quanto noi abbiamo scoperto nella terribile e travagliata storia dell’Occidente lo stia scoprendo tutta l’umanità e che gli altri popoli stiano percorrendo un cammino originale verso la stessa nostra meta: la meta della democrazia, l’unico sistema rispettoso della dignità di ogni essere umano. C'è qui, per noi progressisti di tutto il mondo, la sfida di una missione al tempo stesso antica e nuovissima: attraverso un nuovo internazionalismo democratico, costruire le sedi e le regole di un nuovo governo globale. Quel governo mondiale del quale parlò con grande spirito anticipatore Enrico Berlinguer. C’è la sfida di fare di una nuova stagione di lotta alla disuguaglianza la leva fondamentale per l’apertura di una nuova fase di sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile. Il PD è un partito europeista, che lavora al potenziamento delle istituzioni comunitarie, sulla base di un’ispirazione federalista, anche attraverso la costruzione di un vero sistema politico europeo, che abbia nella competizione tra centrodestra e centrosinistra una sua dimensione centrale e imprescindibile. Oggi non è così. La Commissione europea è il risultato più degli equilibri tra i governi nazionali, che di quelli emersi in seno al Parlamento dal voto dei popoli. E lo stesso Parlamento europeo vive più di consociazione tra i grandi partiti, a loro volta prevalentemente cartelli di partiti nazionali, che di competizione tra grandi schieramenti politici. La nostra collocazione e il nostro ruolo in Europa sono definiti da due punti fermi. Il primo è l'autonomia dell’identità “democratica” del PD, irriducibile alle attuali famiglie politiche europee. Un’identità che deve essere messa al servizio della costruzione di un grande campo di centrosinistra in Europa. La seconda è il progetto di trasformazione del quadro politico europeo, per il quale intendiamo batterci e attorno al quale intendiamo costruire una rete di alleanze in Europa, a cominciare dalla famiglia socialista. Così vogliamo essere: con la nostra identità, ma non isolati. La nostra vocazione maggioritaria, la nostra ambizione di modificare in profondità i rapporti di forza nel Paese, attraverso la costruzione di una nuova alleanza sociale, fondata sull’innovazione politica e programmatica, ha come primo banco di prova la risposta da dare alla crisi globale che sta sconvolgendo anche il nostro Paese. Con il Lingotto e con programma elettorale, e poi con il lavoro del governo ombra, abbiamo configurato proposte e valori di riferimento. Lo dico perché uno dei nostri vizi è quello di pensare di dover sempre ricominciare da capo con i programmi e l’identità. Invece abbiamo una solida base. Nello stesso spirito di innovazione, sapendo che questi temi e l’innovazione del partito saranno ancora al centro della Conferenza programmatica di marzo, voglio oggi avanzare una serie di altre concrete proposte. 1 – Primo: una politica di bilancio espansiva, subito, adesso. La crisi va affrontata dando una risposta efficace a chi perde il lavoro, alle famiglie che non arrivano alla fine del mese e alle imprese che soffrono. Ed è questo l’unico modo per farlo. Tutti i governi stanno facendo così. Tutti meno uno: il governo Berlusconi, in Italia. Che si ostina a ripetere che non c’è bisogno di modificare il decreto di luglio. Il Pil cade, la produzione industriale crolla, aumenta la disoccupazione, gli italiani stringono la cinghia e riducono i consumi, ma tutto quel che c’era da decidere è già stato deciso a luglio e ora bisogna lasciare perfettamente inalterati i saldi di finanza pubblica. Non si può fare diversamente, dicono gli stessi neofiti del rigore che tra il 2001 e il 2006 hanno aumentato di due punti e mezzo di Pil la spesa corrente primaria e che ora hanno appena buttato 3 miliardi e mezzo di euro nell’azzeramento dell’Ici anche per i contribuenti più agiati e altri 3 miliardi nel pasticcio Alitalia. E invece si può e si deve cambiare, bisogna avere il coraggio di innovare. I problemi dell’Italia sono profondi, non nascono con la crisi. L’Italia non deve solo resistere alla recessione, deve tornare a crescere. Nessuno meglio di noi sa che la stabilità dei conti pubblici è un valore. Siamo stati noi a risanarli e a portare l’Italia da subito in Europa, quando altri pensavano solo ad alimentare uno sterile euroscetticismo. E’ stato il primo governo Prodi, è stato un ministro del Tesoro come Carlo Azeglio Ciampi. Ma se è in corso una recessione, l’unico modo per tenere in ordine i conti pubblici in prospettiva è quello di sostenere la crescita, e dunque di aumentare ora la spesa pubblica, avviando contemporaneamente, subito, quegli interventi di riqualificazione della spesa che porteranno domani ad una sua riduzione. Sostenere ora il Pil richiede anche la ripresa delle liberalizzazioni e di azioni coerenti di politica industriale; tenere i conti in ordine impone di tornare a contrastare l’evasione. Solo così potremo davvero non compromettere la stabilità di lungo periodo della finanza pubblica. Ecco la nostra proposta: per il 2009 si sostengano le famiglie, i lavoratori e le imprese con misure pari a un punto di Pil, pari a 16 miliardi di euro. Proponiamo di ridurre la pressione fiscale sui redditi da lavoro e sulle pensioni, a partire dai livelli medio-bassi: 7-800 euro l’anno in più per chi ha fino a poco più di mille euro al mese. Una misura non una-tantum, ma permanente, in grado di dare un sollievo duraturo e di contribuire a rilanciare i consumi. Questo serve, anche alle nostre imprese. Alle quali lo Stato deve garantire un sostegno per accedere a tutto il credito di cui hanno bisogno e l’immediato pagamento per i beni e servizi che devono arrivare dalla Pubblica Amministrazione. Tempi certi: quando si ha a che fare con lo Stato, per le imprese, come per i cittadini, questo deve essere un diritto, non solo un dovere. Proponiamo poi una riduzione del prelievo Irpef sulla quota di salario da contrattazione di secondo livello, in modo da favorire la crescita della produttività e la sua equa redistribuzione. E proponiamo una riduzione del prelievo Irpef sulle lavoratrici, dipendenti e autonome, con figli. A parità di reddito, di prestazione di lavoro, di settore di attività, il lavoro di una donna con figli deve essere fiscalmente agevolato, e costare meno all'impresa, rispetto a quello di un lavoratore maschio. Le ragioni sono evidenti: se in famiglia lavora anche la donna, ci sono spese per servizi di cura che altrimenti non ci sarebbero. E se incentiviamo l’occupazione femminile, tutto il sistema ne trae giovamento, perché la più grande risorsa per lo sviluppo e la mobilità sociale è quella, oggi sottoutilizzata, rappresentata delle donne. C’è un’evidente, fortissima connessione tra queste proposte in tema di trattamento fiscale del reddito delle lavoratrici e quella che abbiamo chiamato la “dote fiscale dei figli”: un robusto aiuto alle famiglie che traduce in italiano, senza disincentivare il lavoro femminile, la soluzione francese del “quoziente familiare”. Questo deciso riorientamento “al femminile” del sistema fiscale e di welfare può essere finanziato, almeno in parte, attraverso il graduale e flessibile superamento dell’attuale differenza dell’età di accesso alla pensione tra uomini e donne: una questione difficilmente eludibile, dopo la sentenza della Corte europea di giustizia, che l’ha definita come una discriminazione contro le donne. La nostra proposta – al contrario di quella del Governo, che si limita a prendere atto della sentenza per fare cassa – intende utilizzare tutte le risorse liberate, per rafforzare il sostegno pubblico alle donne stesse, favorendo ogni pratica di conciliazione e concentrando le risorse nella fase della loro vita nella quale ne hanno più bisogno, quella del triplo impegno: della maternità, del lavoro di cura e del lavoro di mercato. E se c’è da affrontare un grande forzo per sostenere lo sviluppo e il tenore di vita della classe media e del mondo del lavoro, è giusto, ad esempio, chiedere un contributo straordinario di solidarietà a chi, manager e non solo, ha redditi superiori ad un milione di euro. E’ venuto il tempo di cominciare a redistribuire davvero, da chi ha troppo verso chi ha poco. 2 – Seconda grande innovazione: un nuovo sistema universale di ammortizzatori sociali. E’ una innovazione che risponde concretamente al dramma di milioni di milioni di persone, donne e giovani su tutti, e che dà il segno di quanto sia profonda la rottura col passato rappresentata dal riformismo del Partito Democratico. Per i lavoratori che sono tutelati dalla Cassa integrazione, questo è un periodo difficilissimo, pieno di preoccupazioni sul futuro loro e dell’azienda. Per tutti gli altri, è anche peggio. Per loro, la perdita del lavoro è subito perdita di tutto il reddito. Innovazione, per noi, significa allora superare quell’inaccettabile dualismo nel mercato del lavoro per il quale ci sono lavoratori che hanno tutele e garanzie e altri che ne hanno di meno o non ne hanno affatto. E’ come se all’Italia mancasse un intero pilastro dello Stato sociale. Se in America manca la sanità pubblica, a noi manca la tutela del reddito in caso di perdita del lavoro. Invece della flexicurity europea, nel nostro Paese, per quasi metà dei lavoratori c’è il massimo di flessibilità, senza alcuna sicurezza. Innovazione, per noi, significa un sistema capace di sostenere tutti i lavoratori, al di là del contratto, del settore e delle dimensioni dell’impresa nella quale operano, nel momento in cui ne hanno bisogno. Uniche condizioni: l’impegno per la riqualificazione professionale e la disponibilità ad accettare un nuovo lavoro. Proponiamo un sussidio unico di disoccupazione, che sostituisca gli attuali istituti, che sia della durata massima di due anni, che sia finanziato in via assicurativa e sia strettamente collegato a politiche di formazione, di riqualificazione e reimpiego. Accanto a questo, proponiamo l’introduzione di un reddito minimo garantito, che contrasti la povertà anche tra chi lavora solo per brevi periodi di tempo o tra chi non ha un lavoro da molto tempo. Un istituto di welfare universale che esiste in quasi tutti i paesi europei e che costituisce il completamento degli istituti di tutela del reddito. Non si tratta, ovviamente, di togliere qualcosa a chi le tutele le ha. Si tratta di dare a chi non ha. Si tratta di costruire un percorso di inserimento nel mondo del lavoro che sia associato a un sistema di tutele e garanzie. Noi pensiamo a milioni di giovani, pensiamo alla loro vita, alle loro aspettative, alla loro frustrazione e alle loro speranze. Ieri c’era la mortificazione dei braccianti col cappello in mano, c’era l’alienazione della catena di montaggio. La precarietà senza futuro è il volto assunto oggi dallo sfruttamento. Il nostro riformismo non può chiudere gli occhi di fronte all’eterno susseguirsi di lavori precari che non conducono a nulla, di fronte all’inaccettabile prodursi di “vite di scarto”, condizione comune di milioni di persone. E’ questo il contesto nel quale si può cominciare a pensare e a discutere apertamente, e certo è chiara a tutti voi la radicalità di questa possibile innovazione, della sperimentazione di un contratto unico, a tempo indeterminato, con tutela crescente nel tempo e con un ben organizzato sistema di premi e penalizzazioni per l’azienda, volto a favorire il consolidamento e la stabilità dei rapporti di lavoro. Innovazione: di questo ha bisogno, come se fosse aria, il nostro Paese. Innovazione per costruire maggiore giustizia sociale. 3 – Terza innovazione radicale: fare dell’ambiente, della lotta ai mutamenti climatici, delle politiche energetiche, una delle chiavi per uscire dalla crisi. Forse la prima delle chiavi. Lo ha capito Barack Obama, che ha annunciato, per rilanciare l’economia americana, un piano di 150 miliardi di dollari in risparmio energetico e fonti rinnovabili, per creare 5 milioni di nuovi posti di lavoro. Una “rivoluzione verde”, una “terza fase” della rivoluzione industriale, che nasca da una nuova etica della responsabilità e che poggi, per quanto riguarda l’Italia, sulle straordinarie carte che il nostro Paese potrebbe giocare. La “rottamazione” del petrolio, la fine della dipendenza dai combustibili fossili, gli investimenti sulle fonti rinnovabili: questa è la strada. Il governo Berlusconi dimostra di non saperla e volerla prendere. Non comprende, proprio non comprende, che spendere, in campo ambientale, significa investire sul futuro. Ha distrutto, con un insieme di correttivi devastanti per i cittadini e per le imprese, gli incentivi al risparmio energetico per le abitazioni introdotti dal governo Prodi. Si è nascosto dietro alla comprensibile preoccupazione dei settori produttivi più esposti ai venti della crisi per cercare inutilmente di mascherare il suo ennesimo “euroscetticismo”: questa volta sugli obiettivi del 20-20-20 per le fonti rinnovabili, il taglio di emissioni di CO2 e l’efficienza energetica. Noi proponiamo che l’Italia imbocchi con decisione la strada dell’innovazione, della ricerca, della diffusione delle fonti rinnovabili. Si devono moltiplicare, e non eliminare, gli incentivi per le famiglie e per molti settori della nostra impresa che vogliono entrare o già si muovono in questo campo. Un campo vasto e fertile, che ha confini larghi. Penso ad esempio agli elettrodomestici, all’illuminotecnica, alla modernizzazione delle tecnologie per l’edilizia. Penso al settore dell’auto, e nel complesso a quanto si può fare per un eco-ricambio del parco circolante a livello di mezzi sia privati che pubblici. 4 – Quarta sfida di innovazione: una radicale e condivisa riforma della scuola, dell’università e della ricerca. E’ bene che dal governo ci sia stato un netto passo indietro da parte del governo, anche grazie al nostro ruolo e alle migliori ragioni avanzate da un movimento civile che ha coinvolto genitori, ragazzi e insegnanti. I tagli però restano, mentre gli altri paesi europei proprio qui fanno grandi investimenti. E con i tagli restano la nostra preoccupazione e le nostre critiche. Insieme ad una consapevolezza che non ci ha mai abbandonato: scuola, università e ricerca non vanno bene così come sono, ma hanno appunto bisogno di innovazione. Nella scuola e nell’università è il cambiamento, e non la conservazione, la frontiera dei riformisti. Selezione e valutazione, questi sono i principi che ispirano le nostre proposte. Senza selezione e valutazione, senza merito, i migliori finiscono per risultare sempre gli stessi: quelli con famiglie facoltose alle spalle, quelli con i contatti giusti, e magari quelli disposti a qualche compromesso di troppo con la propria coscienza. C’è un muro di conservazione che va rotto, abbattuto. Proponiamo che l’Italia si doti di un sistema di valutazione, nazionale e standardizzato, dei livelli di apprendimento degli studenti di elementari, medie e superiori. Solo con un grande esame su scala nazionale, gestito da valutatori esterni alle scuole e corretto in modo centralizzato, si potrà poi perseguire efficacemente il duplice obiettivo di premiare i capaci e i meritevoli e di individuare gli studenti, gli insegnanti, le scuole in difficoltà, con lo scopo di aiutarli. Solo così si potrà valutare il contributo netto di ogni scuola e di ogni docente sui risultati degli studenti, tenendo conto della qualità in entrata e delle condizioni socio-economiche delle famiglie. E sulla base di obiettivi chiari e di una reale autonomia, sarà finalmente possibile indirizzare le risorse verso le realtà che lo meritano. L’autonomia è la condizione per dare fiducia ai giovani. E’ forse venuto il momento di discutere se non si debba investire con più coraggio sulla consapevolezza dei ragazzi di sedici anni, che devono poter partecipare con le loro scelte alla definizione del loro piano di studi. Noi dobbiamo, dentro gli ambiti formativi definiti, permettere che i giovani seguano le loro passioni e i loro interessi, responsabilizzandoli costantemente. Dobbiamo investire su di loro, avere cura e attenzione per il grande tema della condizione sociale e psicologica dei ragazzi italiani. E a questo proposito, è giunto il momento di riconoscere ai ragazzi di sedici anni il diritto di voto alle amministrative. Responsabilizzazione, questa è la chiave, perché oggi si smette di essere bambini e si diventa giovani molto prima di un tempo. Autonomia e valutazione, anche per l’università: proponiamo una valutazione periodica di università e dipartimenti, attraverso gruppi di esperti, anche internazionali, che giudichino la qualità della ricerca e delle pubblicazioni. Sulla base di queste valutazioni sarà assegnata ai migliori una parte cospicua delle risorse. Il ministro Gelmini, facendo anche qui un passo indietro, ha annunciato l’obiettivo di portare al 30%, nel medio periodo, la quota di finanziamento delle università pubbliche basata sulla valutazione della ricerca. Bene. Lo si faccia davvero e con rapidità, con criteri davvero rigorosi e in modo indipendente. Di più: lo si faccia privilegiando il migliore 25% dei dipartimenti di ogni settore disciplinare. E’ un circolo virtuoso, che si deve innescare. Premiare le migliori università porta le università a puntare sui migliori. E così, al di là delle regole che verranno scelte per i concorsi universitari, si potrà sperare di ridurre al minimo i problemi di localismo, clientelismo o nepotismo. 5 – Quinta grande innovazione: mettere finalmente sui giusti binari le politiche per il Mezzogiorno. Le politiche del governo Berlusconi stanno letteralmente saccheggiando le risorse dedicate al Sud e puntano a riproporre, al posto della buona pratica degli incentivi automatici, l’intermediazione della politica locale e nazionale. Le cifre sono impressionanti: nel 2009, a fronte di 6 miliardi originariamente appostati nel Fondo per le Aree Sottoutilizzate, le effettive disponibilità sono state dimezzate per finanziare spese di parte corrente, che trovano i loro destinatari prevalentemente al centro-nord. E ancora prima era stato cancellato il credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno. Ci vogliono risorse aggiuntive e ci vuole una coraggiosa battaglia per la legalità. Non si può lasciar solo quel vasto movimento di imprenditori, artigiani, commercianti del Sud che si battono contro il pizzo e le estorsioni delle mafie e hanno bisogno di buona politica come dell’aria da respirare. Della politica che dà certezze e non dispensa favori. Due, per noi, sono le strade da seguire per battere l’ideologia della dipendenza e promuovere la cultura della legalità e l’etica della responsabilità, senza le quali il Mezzogiorno non potrà mai diventare quella risorsa per il Paese e innanzi tutto per se stesso che oggi non riesce ad essere. Proponiamo di concentrare i fondi destinati al Mezzogiorno su pochi grandi obiettivi di carattere infrastrutturale e sovraregionale, a cominciare dalla mobilità e dalle grandi reti idriche. Proponiamo di prevedere una sorta di “vincolo esterno” nazionale, che promuova l’utilizzo ottimale delle risorse pubbliche ordinarie, per una progressiva qualificazione dei servizi pubblici e una progressiva riduzione delle spese di autorganizzazione della pubblica amministrazione. E’ esattamente per questi motivi che il Mezzogiorno non deve temere l’ondata di responsabilità derivante da un federalismo ben pensato: fondato sui criteri di vera autonomia impositiva, solidarietà collettiva e non bilaterale, riferimento ai costi standard e non ai costi storici. Ed è proprio in nome dell’interesse del Mezzogiorno e non solo delle legittime aspirazioni delle aree forti del Nord, che abbiamo deciso di presentare in Senato un nostro organico disegno di legge sull’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione e di aprire, a partire da esso, un confronto serrato con la maggioranza. Del capitolo riforme discuteremo approfonditamente nella Conferenza programmatica di marzo e prima ancora nel convegno su Piero Calamandrei che terremo a febbraio. Cominciamo qui da almeno due tracce di riforma. Primo: la riduzione dei costi della politica. La politica deve costare di meno. Costano troppo le campagne elettorali, costano troppo gli apparati istituzionali, costa troppo il personale politico. Costa troppo il sistema delle imprese pubbliche, a cavallo tra politica ed economia, sia a livello nazionale, sia soprattutto a livello regionale e locale. Su questo siamo pronti a un confronto trasparente e di merito col Governo, al quale chiediamo, se ne è capace, di uscire dall'attuale, colpevole inerzia. Noi siamo favorevoli a interventi incisivi: da una significativa riduzione del numero dei parlamentari, alla trasformazione del Senato in sede del confronto sulle decisioni legislative che attengono all’equilibrio tra istituzioni centrali e autonomie regionali. Fino all’abolizione dei consigli d’amministrazione nelle società pubbliche che gestiscono i servizi locali e alla loro sostituzione con amministratori unici e collegi di revisori. Secondo: il nodo delle leggi elettorali, che non si può considerare risolto solo in virtù delle scelte adottate dal Partito democratico nelle elezioni di aprile. Con le leggi attuali, il ritorno a un sistema frammentato è sempre dietro l’angolo. Ed è evidente che il livello di sfiducia dei cittadini verso la politica è destinato a crescere se si insiste sulla strada dei listoni bloccati. Dal nostro punto di vista, le preferenze non sono la soluzione ideale, anche se è preferibile che siano mantenute laddove, come per le elezioni europee, altre soluzioni sono di fatto precluse. In tema di europee, continuo a pensare che si debba trovare un equilibrio nel senso della difesa delle preferenze e dell’introduzione di una soglia di sbarramento per evitare la frammentazione. La strada maestra, almeno per quanto riguarda l’elezione del Parlamento, è comunque il ritorno al collegio uninominale, nel quadro di un sistema che, come avviene nell’esperienza francese, spinga ad aggregazioni tra forze omogenee e consenta agli elettori di scegliere da chi vogliono essere governati. Non abbiamo preclusioni di principio, qualora si dovesse realmente avviare una discussione nel merito, alla luce del sole, per migliorare la legge vigente, a prendere in esame soluzioni subordinate. Dovrebbe tuttavia trattarsi di subordinate che abbiano virtù simili alla principale, che cioè consentano ai cittadini al tempo stesso di scegliere i candidati al Parlamento e di decidere la maggioranza di governo. Continuiamo a ritenere che la legge elettorale attualmente in vigore per il Parlamento sia una mostruosità da superare ed anche in questo caso dobbiamo sfidare la destra sul terreno dell’innovazione. Il Paese deve poter uscire da una eterna e logorante campagna elettorale. Può servire anche un’altra radicale innovazione: una sola tornata elettorale amministrativa, comuni, province e regioni insieme. Magari a metà legislatura, una sorta di elezioni di mid-term. Per quanto riguarda la riforma della giustizia, quello che sta accadendo con le inchieste della magistratura sulla politica, lo ripeto, non fa cambiare la nostra posizione, né in un senso né nell’altro. Il ministro ombra Tenaglia ha presentato al governo un pacchetto di proposte elaborato nel corso di una riuscita conferenza nazionale del PD. Sono proposte ispirate ad una maggiore efficienza della macchina processuale, soprattutto nei confronti dei cittadini e delle imprese. Proposte concrete e innovative. Penso solo al problema della lentezza della giustizia. Abbiamo detto: valutazione sistematica, benchmark, responsabilità. Quanto guadagnerebbe, in civiltà e in crescita economica, il nostro sistema economico e sociale, se tutti ti tribunali d’Italia funzionassero coi tempi del Tribunale di Torino? Se si è riusciti a Torino, perché non si può riuscire altrove? Proposte concrete e innovative. Come quando in campagna elettorale presentammo una proposta sulle intercettazioni telefoniche che prevedeva che i magistrati possano avvalersi delle intercettazioni per tutti i reati ma che nulla di questo possa finire sui giornali, violando fondamentali diritti. E questa proposta, lo voglio ricordare, fu allora sottoscritta anche dall’Italia dei Valori. Insieme al merito delle questioni, abbiamo indicato una metodologia innovativa: le riforme della giustizia non si fanno contro i magistrati, come vorrebbe il governo, o contro gli avvocati. Si fanno ascoltando, si fanno con un confronto di merito, basato non su dei pregiudiziali sì o no, ma su soluzioni concrete. Se si riuniscono le parti sociali per discutere delle pensioni, non si vede perché non debbano essere coinvolti i protagonisti di un settore fondamentale come la giustizia quando è della sua riforma che si deve decidere. Un tavolo che duri sessanta giorni, al termine del quale il governo decida, ma dopo aver lavorato insieme al mondo della giustizia e se lo riterrà anche con l’opposizione. E’ la nostra proposta, che si muove nel solco tracciato dal Presidente Napolitano che noi vogliamo seguire: distinzione tra governo e opposizione nel confronto politico, e ricerca della possibile convergenza sui grandi temi di interesse nazionale. L’innovazione politica e programmatica è una condizione necessaria per modificare in profondità i rapporti politici nella società italiana e corrispondere alla nostra vocazione maggioritaria. Ma non è condizione di per sé sufficiente. Le idee migliori appariranno scritte sull’acqua, se non potranno disporre di un soggetto politico collettivo in grado di dar loro gambe per camminare nella società, nella politica, nelle istituzioni. Anzi, quanto più ambiziosa è la portata innovativa del nostro programma, tanto più diventa cruciale la capacità del partito di rappresentare, suscitare, organizzare attorno ad essa un consenso largo nella società, attraverso la forza della sua organizzazione, la credibilità dei suoi gruppi dirigenti, lo spessore democratico della sua vita interna. Un partito affidabile è un’organizzazione abitata e guidata da persone credibili, che ispirano fiducia: per la loro trasparenza e onestà, per la sobrietà del loro stile di vita, per la loro competenza, per il loro impegno appassionato. La credibilità morale di un partito è un bene inestimabile, che è facilissimo perdere e faticosissimo riconquistare. Dar vita ad un partito nuovo non è facile, non è mai stato facile, tanto meno quando si tratta di unire forze diverse. Ma oggi siamo ad un passaggio critico, che può essere decisivo per il Partito Democratico. L’urgenza immediata, in questo momento, è quella di recuperare fiducia, la fiducia dei nostri elettori nei riguardi del Partito Democratico. Cominciamo con l’applicare con ferma intransigenza il nostro Codice etico, che prevede un robusto elenco di incompatibilità, di conflitti d’interesse, di garanzie, che possono anche essere rafforzate, prevedendo ad esempio la non candidabilità di persone che, a giudizio di una magistratura interna, abbiano compiuto atti che pur non essendo penalmente rilevanti, recano pregiudizio alla credibilità morale del partito. Un’altra buona regola è quella del ricambio dei gruppi dirigenti, che deve essere frequente e continuo. Oggi è una vera e propria urgenza. Se vogliamo consolidare il PD, dobbiamo lavorare in modo impegnato, corale e convinto, per creare le condizioni per un forte avvicendamento con una nuova generazione di dirigenti. Il successo delle nostre iniziative di formazione politica, a cominciare dalla scuola estiva di Cortona, che ha visto la partecipazione impegnata ed entusiasta di mille ragazze e ragazzi, sta generando non solo un sistema di formazione diffuso, quale non si ricordava da decenni nella politica italiana, ma un vero e proprio movimento di rinnovamento culturale e anche generazionale del partito, fondato non più sull’incontro tra ex, ma sul comune riconoscersi come “democratici”. Ho chiesto a Giorgio Tonini e ad Annamaria Parente di organizzare una scuola di formazione nel Mezzogiorno, per una nuova leva di amministratori, per i giovani, che abbia al centro i temi della legalità. E ho chiesto a Roberto Saviano, che ha accettato, di prendere parte a questo nostro progetto. Sono segni di speranza, che dobbiamo incoraggiare. E dai quali dobbiamo attingere energie. Il malcostume e la degenerazione politica sono stati alimentati in questi anni più per la debolezza dei partiti che per la loro forza. Un Partito democratico forte, perché radicato, aperto, unito è la via maestra per far prevalere la buona politica. Un partito forte è un organismo vivo, profondamente radicato nel territorio, capace di rappresentarne gli interessi e di viverne i valori. Un partito che sta dove vive la gente: negli ambienti di vita, di studio, di lavoro, come nel mondo virtuale della rete, oggi diventato abitazione principale delle giovani generazioni. E’ questo l’obiettivo che non siamo ancora riusciti a raggiungere. Lo sento come un limite del mio e del nostro lavoro, da superare insieme. Alle insufficienze dei partiti preesistenti non siamo ancora riusciti a sostituire un modello compiuto e convincente. Deve essere considerata una priorità del nostro impegno comune. Un partito di circoli, fatti di persone in carne e ossa, che si incontrano per aiutarsi a capire la realtà in cui sono immersi, da quella globale a quella locale, e per lavorare insieme a cambiarla, a migliorarla, a riformarla. I circoli devono diventare il lievito democratico e civile dei territori: un fermento che fa crescere intorno a sé una moderna cultura della cittadinanza, della responsabilità e della partecipazione civile, dell’impegno per i diritti e per l’uguaglianza sociale. E i segretari di circolo hanno una funzione essenziale, che va riconosciuta e promossa: sono gli animatori della democrazia di base, una risorsa straordinaria di presenza, di promozione del partito, di coltivazione civile della società. Dobbiamo dedicare più impegno, più risorse, più attenzione alla promozione dei circoli, se vogliamo che il Partito Democratico cresca, si rafforzi, si radichi nel Paese. Voglio dirlo con forza: è il territorio la frontiera sulla quale si costruirà il nuovo PD. Penso che dal territorio, dai segretari regionali e dai sindaci, possa venire un utile apporto permanente alle decisioni che il gruppo dirigente nazionale dovrà prendere. Si tratta di aprire una fase nuova e darsi strumenti di direzione all’altezza dei problemi che dobbiamo affrontare. Un partito affidabile è un’organizzazione forte e unita, in grado di prendere decisioni impegnative per tutti coloro che ne fanno parte, a cominciare dai dirigenti; di darsi una linea chiara e di portarla avanti con unità d’intenti, spirito di squadra, solidarietà, quando necessario anche rinunciando a quelle quotidiane differenziazioni che piacciono ai giornali e dispiacciono alla nostra gente. E’ impressionante vedere, dai sondaggi, come ci fosse stato, a partire dalle feste, alle quali hanno partecipato sette milioni di persone, per continuare con la Summer School e la straordinaria manifestazione del 25 ottobre, con le elezioni Trentino e in Alto Adige, un forte recupero di consensi del PD, tornato ai livelli del risultato elettorale. Dal caso Villari in poi, prima le divisioni interne e poi le vicende di questi giorni hanno fatto ridiscendere quella curva che stava salendo. L’opinione pubblica moderna vuole partiti uniti e forti, talvolta è perfino disinteressata dalla qualità della loro vita democratica. Noi dobbiamo saper affermare, tra il cesarismo e l’anarchia, il modello di un partito democratico, con una leadership decisa dagli elettori, capace di vivere con un reale pluralismo interno, che a noi certo non manca, e con una solidarietà umana e politica che è un dovere per tutti noi. A cominciare da me. C’è un disagio diffuso, tra i nostri iscritti, i nostri militanti, riguardo alla nostra unità interna. La sgradevole sensazione che provano è che stiamo rischiando seriamente di diventare come l’Unione: la difficile convivenza di punti di vista diversi, che finiscono per paralizzarsi a vicenda. Quel segare l’albero sul quale tutti si è seduti, che è stato il terribile male del centrosinistra in tutti questi anni. La responsabilità di promuovere l’unità interna spetta, certamente, innanzi tutto a chi esercita la leadership. Ma deve vedere la collaborazione, altrettanto responsabile, da parte di ciascuno di noi. L’unità interna non può e non deve essere compressione della discussione o mortificazione delle diversità. Ma c’è un tempo per la discussione e uno per la decisione. La discussione deve essere libera, chiara, aperta. La decisione deve essere democratica e poi impegnativa per tutti. Solo così può funzionare un partito democratico. Vale per i partiti lo stesso principio che vale per le istituzioni. Se si dimostrano incapaci di decisione nella democrazia, vinceranno modelli di decisione senza la democrazia. Per essere all’altezza della sfida sulla democrazia che è drammaticamente aperta nel nostro Paese, noi abbiamo deciso di costruire un partito nuovo, quale quello delineato in modo netto e coraggioso dal nostro Statuto, che abbiamo appena scritto e che ora dobbiamo attuare e applicare con fermezza e decisione. Un partito che riconosce e attribuisce alle persone, nella loro responsabilità individuale, una vera cittadinanza democratica, la possibilità di esercitare un potere, di partecipare alla decisione. Un partito che riconosce ai suoi elettori un ruolo importante nelle decisioni da prendere, in modo da ridurre al minimo il rischio della chiusura autoreferenziale. E ai suoi iscritti il ruolo di ossatura portante di una presenza stabile nella società, una presenza che si possa incontrare quotidianamente sul territorio e negli ambienti di vita e di lavoro, una presenza che sappia farsi, a confronto con la società, proposta aperta, da avanzare alla platea più vasta dei nostri elettori. Insieme, dobbiamo costruire un’organizzazione aperta, abitabile, nella quale si possa incontrarsi, discutere, confrontarsi, partecipare alle decisioni. Una organizzazione nella quale gli incarichi di responsabilità siano attribuiti in modo competitivo e restino sempre contendibili. Il PD è oggi l’unico, vero, grande laboratorio sperimentale di democrazia di partito esistente in Italia. Quando si sperimenta si va incontro a limiti ed errori e si scoprono nuovi problemi. Ma è solo così che si impara, si migliora, si progredisce. In queste settimane, stiamo sperimentando la più vasta e capillare tornata di elezioni primarie per la selezione di candidati sindaci e presidenti di provincia che si sia mai vista nella storia d’Italia. Molte si sono rivelate quello che speravamo: una straordinaria pagina di vita democratica. Altre hanno messo in luce difficoltà e nodi critici, che andranno sciolti per il futuro da una riflessione comune. Bisognerà riflettere meglio, ad esempio, sul rapporto tra primarie di partito e primarie di coalizione. Sull’opportunità, probabilmente discutibile, di primarie per le candidature in liste con le preferenze. Così come sulle primarie per le cariche di partito. Le primarie sono uno strumento prezioso, una scommessa irrinunciabile. Non devono diventare un’ideologia. Soprattutto, non devono diventare l’occupazione principale, se non esclusiva, del partito. Sarebbe tragico se il PD si riducesse ad un luogo nel quale si discute solo di regole di vita interna. Il Paese ci chiede di sperimentare democrazia, non di trasformarci in una macchina di produzione di procedure interne. Un partito a vocazione maggioritaria, un partito che voglia cambiare i rapporti di forza nella società, deve essere un partito utile alle persone, non solo a se stesso. Siamo all’inizio di un percorso che vogliamo diventi costume democratico del Paese. Possiamo perdonarci qualche errore. Attorno a noi nessuno sbaglia, perché nessuno sperimenta democrazia. E il paradosso è che i media spesso si accaniscono sui nostri limiti, mentre nessuno parla dell’assoluta mancanza di democrazia negli altri partiti. A noi si rimprovera di fare primarie finte, quando c’è una leadership naturale. O al contrario di mettere in scena primarie-rissa, quando il risultato è aperto. Sarebbe già un piccolo passo avanti, se ci criticassero da un solo angolo visuale. Sarebbe un grande passo avanti, se qualcuno aprisse almeno un occhio sulla totale mancanza di democrazia di partito attorno a noi. Il nostro principale avversario, il “Popolo della libertà”, come dice il nome stesso, è una formazione politica tipicamente “populista”: l’unica democrazia che conosce è quella dell’applauso al leader. Un applauso ha accolto l’annuncio, a San Babila, dal predellino di un auto, che nasceva il Pdl. Un applauso ha segnato lo scioglimento di Forza Italia: una formazione politica che in quattordici anni di vita non ha mai tenuto un vero Congresso, non ha mai votato i suoi dirigenti. D’altra parte, qualcuno ha mai visto la Lega, o l’Italia dei Valori, fare un vero Congresso? O designare i suoi candidati con le primarie? Il modello populista è la regola della politica italiana, noi siamo la sola eccezione. Berlusconi ha definito il Pdl un baluardo della democrazia. Ma come può difendere, promuovere la democrazia un partito che non la pratica, non la vive al suo interno? Non è un caso se un giorno si e un giorno no gli scappa detto qualcosa che poi deve correggere, smussare, smentire, ma che in effetti tradisce il suo vero pensiero: come sarebbe bello se la Repubblica funzionasse come il Pdl, un uomo solo al comando, nelle sue mani tutti i poteri e tutto il potere – politico, economico, mediatico – niente contropoteri, niente parlamenti con le loro lentezze, niente opposizioni con le loro critiche depressive, niente magistrature indipendenti, niente libera stampa e giornalisti scomodi. E’ proprio la cupa potenza del populismo, di ogni populismo, di maggioranza e di opposizione, a definire la grandezza della sfida che abbiamo posto a noi stessi: scommettere sulla forza della democrazia, sulla chance del riformismo, sulla sua capacità di prevalere, anche in questo nostro Paese. Già le sento le dichiarazioni indignate di qualche esponente della destra. Tra qualche minuto ci risponderanno che non è vero, che il nostro è il solito antiberlusconismo ideologico. Rispondano, se credono, anche alla sfida che da qui vogliamo lanciare ai nostri avversari. E’ ora e tempo che si fissino per legge gli architravi della democrazia di partito, in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione: statuti, bilanci, scadenze e modalità dei congressi, codici etici, primarie o altre procedure per la selezione dei candidati. E queste norme diventino condizione almeno per l’accesso al finanziamento pubblico. Noi siamo pronti a fare insieme questa riforma decisiva per la democrazia italiana. Il partito che siamo e vogliamo essere è un partito pluralista, fondato sul confronto delle idee e ricco di fondazioni, associazioni, centri di ricerca. Non dobbiamo, non vogliamo diventare invece un partito a canne d’organo, con catene di comando verticalizzate e correnti cristallizzate. Non esistono in democrazia grandi partiti che non siano pluralisti, sul piano politico e culturale. Ma il confine tra pluralismo, che è un valore di libertà, e degenerazione correntizia, che è invece una malattia mortale, va presidiato con grande attenzione. Vorrei che tutti lavorassimo per evitare, contrastare, limitare i rischi insiti nel correntismo: il prolungamento, nel nuovo partito, delle appartenenze e identità del passato, saltando l’esigenza e l’opportunità di mescolare le storie e di dar vita a nuove sintesi culturali e politiche; la riduzione del partito ad una federazione leggera di correnti rigide, strutturate organizzativamente; la riduzione della democrazia interna ad una spartizione correntizia, con la logica conseguenza che la solidarietà verticale con la corrente diventa l’unica via di partecipazione e di affermazione nella vita del partito. Dopo un anno di lavoro, inevitabilmente il modello di un partito nuovo deve essere oggetto di una riflessione sulla base dell’esperienza. Ci sono nodi che dobbiamo affrontare, in modo sereno, ma rigoroso e severo. Sul piano politico e anche sul piano statutario: mettendo al lavoro un gruppo, in seno alla Direzione, che avanzi proposte, da portare in Assemblea, sulle primarie e sul rapporto tra democrazia degli iscritti e democrazia degli elettori, sul rapporto tra pluralismo politico interno e unità del partito, sul ricambio dei gruppi dirigenti, e sul rapporto tra partito federale e poteri sostitutivi centrali. Dopo averne discusso con il Coordinamento e con i segretari regionali, chiedo che in questa fase particolare venga attribuito al Segretario il potere previsto dallo Statuto di intervenire in situazioni nelle quali sia necessario introdurre, anche attraverso commissariamenti, le indispensabili innovazioni. I prossimi mesi e il prossimo Congresso, che svolgeremo dopo le elezioni, saranno l’occasione per l’affermazione definitiva di una nuova generazione di dirigenti alla guida del partito. Dobbiamo far emergere le forze migliori, più coraggiose e innovative. Forze che abbiano dentro di sé l’identità democratica già compiuta. Per quanto mi riguarda, posso dire solo una cosa. Considero mio compito quello di riuscire nella realizzazione dell’impresa politica che ha costituito il sogno e la ragione del mio impegno: far nascere e radicare in Italia un grande partito riformista di massa, una forza democratica del nostro tempo. Sono al servizio di questo progetto, non il contrario. Abbiamo fondato il Partito Democratico nel fuoco di una tremenda battaglia politica. Un’operazione tanto più difficile da portare a termine nel pieno della crisi dell’Unione di centrosinistra, con una campagna elettorale anticipata, già molto segnata nel suo risultato finale. E’ la prima volta, nella storia d’Italia, che si dà vita ad un nuovo partito attraverso l’incontro di due forze politiche radicate nella storia del Paese. Stiamo realizzando il sogno di dar vita ad una casa comune di tutti i riformisti, ad un grande Partito Democratico. Dobbiamo essere tutti consapevoli del valore di questa nostra impresa e tutti insieme dobbiamo averne cura, dando prova di saggezza, generosità e responsabilità. A fronte dei pericoli presenti per il Paese, noi abbiamo oggi nelle nostre mani la possibilità e il dovere di sperimentare vie nuove, risposte utili e inedite, non solo per noi stessi, ma per la democrazia italiana. Perché non possiamo pensare la nostra forma-partito, se non nel quadro di questa fase drammatica della vita istituzionale e democratica della Repubblica. I vecchi partiti, in tutta una fase della storia italiana dopo la Liberazione, sono stati grandi costruttori di democrazia. Lo hanno fatto promuovendo, incivilendo, organizzando immensi ceti popolari ed anche plebi ignoranti ed escluse. Poi, dinanzi alla società nuova, più ricca, colta, emancipata, adulta, la società che è comparsa sulla scena nel ’68 e nel ‘69, i partiti storici, da elementi propulsori di sviluppo e di progresso, hanno cominciato a diventare e ad apparire “intercapedini” tra le istituzioni e i cittadini. Fu Aldo Moro il primo ad accorgersene, proprio nel ’68, quaranta anni fa, dieci prima della sua tragica e barbara uccisione: “Tempi nuovi s’annunciano”, aveva detto in un celebre discorso al suo partito. Tempi nei quali dovremo avere il coraggio di cambiare noi stessi, se vorremo essere ancora all’altezza del nostro compito. Ma i partiti italiani non furono in grado di cambiare se stessi, prigionieri com’erano di una contraddizione troppo grande, tra le ideologie che li dividevano, ricalcate sullo schema della guerra fredda, e i nuovi termini della questione italiana, che li avrebbe dovuti scomporre e ricomporre, lungo nuove frontiere. I partiti della Prima Repubblica entrarono così in una crisi irreversibile. Alcuni distruggendosi nel dilagare del malaffare, alla disperata ricerca di puntelli di potere, dopo che avevano avvertito come perduta la loro legittimazione storica. Altri estenuandosi in una infinita e sempre troppo lenta transizione. Dalla crisi dei vecchi partiti, dal 1992 in poi, il centrosinistra non ha mai più davvero tentato la costruzione di soggetti politici veramente nuovi. Da allora, ci siamo affidati prima al riformismo istituzionale, per ridefinire modi e forme della rappresentanza politica. Poi ci siamo affidati all’azione di governo, nazionale ma anche locale, per interpretare e cambiare gli orientamenti della società. Una sorta di “riformismo dall’alto”, come lo abbiamo definito autocriticamente, fragile perché non supportato da un consenso vasto, preparato negli anni dell’opposizione, spesi invece prevalentemente nella costruzione di larghe alleanze “contro” gli avversari. Nel frattempo sono nati e hanno dignitosamente vissuto soggetti politici sostanzialmente tradizionali, buoni ad accompagnare il lavoro istituzionale, ma che tutti insieme abbiamo giudicato insufficienti, inadeguati al compito di suscitare una nuova fase di riformismo e di democrazia. Oggi la sfida è quella di riprendere un percorso innovativo, da decenni interrotto. E non abbiamo molto tempo. Dando vita al Partito Democratico, abbiamo alimentato grandi aspettative, abbiamo suscitato una speranza nuova. Ora, abbiamo il dovere di non deludere.
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