Stefano Ceccanti scrive, fornendo validi argomenti alle sue tesi:
Il resoconto stenografico della Camera del 16 marzo 2000 riprodotto qui sotto dimostra che l'analisi è corretta: il sottosegretario alla Giustizia del Governo Amato chiarisce la vicenda Scalfaro-Sisde mettendo solennemente agli atti del Parlamento che secondo l'interpretazione prevalente applicata in quel caso (anche se oggetto di contestazioni) per il solo Capo dello Stato lo scudo c'è già da anni, senza che questo ne abbia mai giustificato l'estensione ad altri.
Su questioni di opportunità il giudizio può essere diverso, anche a seconda della cultura politica di ciascuno. Nella mia viene prima il criterio della responsabilità che mi porta a considerare l' omissione l'errore più grave in assoluto. Anche se qualcuno può ritenerla la secolarizzazione di una teologia non appropriata all'ambito politico.
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Il resoconto stenografico della Camera del 16 marzo 2000 riprodotto qui sotto dimostra che l'analisi è corretta: il sottosegretario alla Giustizia del Governo Amato chiarisce la vicenda Scalfaro-Sisde mettendo solennemente agli atti del Parlamento che secondo l'interpretazione prevalente applicata in quel caso (anche se oggetto di contestazioni) per il solo Capo dello Stato lo scudo c'è già da anni, senza che questo ne abbia mai giustificato l'estensione ad altri.
Su questioni di opportunità il giudizio può essere diverso, anche a seconda della cultura politica di ciascuno. Nella mia viene prima il criterio della responsabilità che mi porta a considerare l' omissione l'errore più grave in assoluto. Anche se qualcuno può ritenerla la secolarizzazione di una teologia non appropriata all'ambito politico.
Cari saluti
RESIDENTE. Passiamo all'interpellanza Garra n. 2-02292 (vedi l'allegato A – Interpellanze urgenti sezione 5 ) .
L'onorevole Garra ha facoltà di illustrarla.
GIACOMO GARRA. La mia interpellanza muove dalle rivelazioni che il sostituto procuratore Francesco Misiani – non certo sospettabile di simpatie berlusconiane – ha fatto nel libro La toga rossa , del quale è coautore Carlo Bonini; un libro non solo autobiografico e autocritico, ma volto anche a far luce su episodi della notte della Repubblica.
È bene prendere l'avvio dal contesto nel quale la procura di Roma si trovò ad operare nell'autunno 1993 all'esplodere del caso SISDE, per evidenziare i pericoli di «doppiopesismo» dai quali la giustizia italiana deve rimanere al riparo.
La premessa è che il vertice della procura del tempo aveva una posizione non certo serena ed imparziale, vuoi nei confronti del SISDE, vuoi nei confronti del Viminale. Cos'era accaduto in precedenza? L'architetto Salabé era stato ed era di casa al SISDE per la sua attività professionale. Lo stesso Salabé era amico della signorina Marianna Scalfaro, figlia unica dell'ex ministro dell'interno Scalfaro, poi assurto al colle più alto.
In Italia, tutti «teniamo famiglia», non esclusi i procuratori capo della Repubblica. Immagino che anche il dottor Mele, com'è accaduto a tutti coloro che abbiano avuto la sorte di essere destinati nella capitale dopo diversi anni di servizio in sedi periferiche, si fosse trovato in grande difficoltà per la soluzione del problema casa, non appena nominato al vertice della procura della Repubblica della capitale. Per sua fortuna era accaduto al dottor Mele di trovare subito chi gli veniva incontro: l'architetto Salabé.
Scrive al riguardo Misiani (pagina 192): «Nel cuore di Roma, in via della Croce 81… abita il procuratore capo Vittorio Mele, in un pied-à-terre di proprietà di un uomo dal cognome in quel momento impronunciabile: architetto Adolfo Salabé, l'uomo di fiducia del SISDE… Ebbene, il pomeriggio del 12 novembre, un camion si ferma davanti al civico 81 e carica in fretta e furia i mobili di un trasloco deciso all'ultimo istante, ma che non sfugge a un gruppo di cronisti. Mele si giustifica: \`Venivo da Napoli, avevo bisogno di una casa. Mi rivolsi alla polizia e mi mandarono l'architetto Salabé, spiegandomi che era una persona di fiducia'…».
Lo stesso Salabé, tanto zelante nei confronti di colui che approdava ai vertici della procura della Repubblica di Roma, non lo è stato – o sbaglio? – nei confronti della generalità di magistrati e avvocati dello Stato, ma a maggior ragione di funzionari ed impiegati destinati agli uffici ministeriali e non della capitale.
Ecco perché, al momento dell'esplodere delle accuse nei confronti di ben quattro ministri dell'interno (tre ex e uno all'epoca in carica), ai vertici della procura della Repubblica di Roma lo scoramento fu grande. Scrive al riguardo Misiani: «Il pomeriggio del 3 novembre la notizia delle accuse rivolte a Scalfaro e Mancino è battuta dalle agenzie di stampa. Quella sera stessa, gli italiani ascoltano il messaggio del Capo dello Stato. E il giorno successivo, il suo effetto dirompente si traduce nei toni foschi che assumono le prime pagine» (pagina 186). Da qui la precipitosa fuga del dottor Mele dall'alloggio fruito grazie a Salabé, alias al SISDE. Peccato che lo sgombero dell'alloggio fruito dal dottor Mele non sia passato inosservato. Mi chiedo e vi chiedo: può essere sereno un magistrato in tal modo beneficato nei confronti dei suoi benefattori? Rivela sempre il libro La toga rossa di Misiani che nei confronti del ministro dell'interno, senatore Nicola
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Mancino, in carica nel 1993, si pervenne all'archiviazione dell'accusa (di peculato o concorso in peculato, non ricordo bene) per non aver commesso il fatto.
Sinceramente, mi fa piacere che per la seconda carica dello Stato, ossia per il senatore Mancino, vi sia stata l'archiviazione. Nei confronti degli ex ministri Gava e Scotti, secondo quanto rivela lo stesso Francesco Misiani, ebbe luogo, invece, la trasmissione degli atti al tribunale dei ministri; rimaneva un quarto inquisito eccellente, ossia l'ex ministro dell'interno Oscar Luigi Scalfaro, che dall'epoca della sua gestione al Viminale e dopo aveva sponsorizzato l'architetto Salabé al SISDE.
Cosa farne? Le vie percorribili potevano essere due: archiviare le accuse, come è avvenuto nei confronti del Presidente Mancino, oppure congelare il tutto per la posizione rivestita dall'ex ministro dell'interno, che come è noto nel maggio 1992 fu eletto Presidente della Repubblica. La satira politica del tempo disse allora che non i mille voti delle Camere riunite avevano eletto Scalfaro, ma che ad eleggerlo erano stati i mille chili di tritolo che avevano dilaniato i corpi di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta, allorché Giovanni Brusca (di recente vergognosamente assurto al ruolo di collaborante di giustizia) aveva pigiato il pulsante della terrificante esplosione, che attendeva Falcone ed il suo seguito nel tragitto dall'aeroporto di Punta Raisi a Palermo città. Il carnefice, adesso, viene riconosciuto collaborante di giustizia! Diciamo con il Manzoni che «talvolta così vanno le cose del mondo».
Rivela Misiani che il più grave dilemma che si impose drammaticamente a coloro che all'epoca stavano ai vertici della procura della Repubblica di Roma era costituito dalle accuse che, a getto continuo, si rovesciavano nei confronti del Presidente della Repubblica per i suoi trascorsi di ex ministro dell'interno e per il suo rapporto con il SISDE. Vi era stata, o non vi era stata la dazione di 100 milioni mensili, come da accuse nei confronti di Gava e Scotti? Ove la dazione non fosse esistita, l'archiviazione fruita dal senatore Mancino all'evidenza avrebbe potuto essere disposta a fortiori nei confronti dell'onorevole Scalfaro, ma ciò non avvenne. Né bastava il monito scalfariano «non ci sto!» a chiudere la bocca degli accusatori.
Fu così, rivela Misiani, che all'epoca scattò l'operazione che a me piace definire «cuciamo le bocche». E qui vale la pena che io ripeta le parole del libro poc'anzi citato e che, alle pagine da 189 a 192, reca le rivelazioni dell'allora sostituto procuratore della Repubblica di Roma, Misiani (un teste più qualificato non è possibile immaginarlo): «Restava intatto il problema di come intervenire alla fonte del torrente delle rivelazioni che, in ipotesi, avrebbe potuto riprendere a scorrere, travolgendo ogni tipo di decisione fin lì assunta. Il timore condiviso da Mele e Coiro era… che la procura fosse costretta a inseguire la strategia di rivelazioni a orologeria degli indagati. E fu allora che arrivò in soccorso la trovata di Saviotti» – scrive Misiani – «giovane, di sinistra, Pietro Saviotti faceva parte del cosiddetto pool antieversione. Spiegò che un modo per imbrigliare i cinque del SISDE esisteva. Lo si poteva trovare nel codice penale, all'articolo 289, attentato agli organi costituzionali… Contestare il 289 agli indagati» – scrive ancora Misiani – «significava porli in una condizione senza via d'uscita. Ogni ulteriore chiamata in correità nei confronti di uomini politici in carica… li avrebbe precipitati nella condizione di indagati per un reato gravissimo, da cui sarebbero usciti con condanne pesantissime».
Misiani decise di parlarne con Mele. «Ipotizzare un reato di quel genere mi sembrava francamente eccessivo» – scrive Misiani – «la configurazione di un reato di quel tipo, che già teneva a stento sotto il profilo giuridico, risultava del tutto artificiosa sotto il profilo fattuale. Era evidente che i cinque del SISDE non stavano progettando un golpe… Con quella scelta sul 289 è indubbio che una parte di Magistratura democratica e Michele in primis ottennero una legittimazione politica forte da parte delle istituzioni» – lo
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scrive ancora Misiani – «Ne parlai con Coiro più di una volta anche perché tra di noi non riuscivamo a fingere. Lui mi disse che non c'era nulla da vergognarsi… Ricordo che mi disse con una punta di sarcasmo «Mi stupisco di te. In certi momenti mi sembra che tu sia rimasto agli anni settanta, allo slogan «lo Stato non si riforma, si abbatte». Aggiunse che si trattava di un'operazione di sinistra forse tecnicamente discutibile, ma politicamente dignitosa. Nel dirmi tutto ciò mi accorsi di come Coiro stesse vivendo le contraddizioni del «giudice rosso». Fin qui Misiani.
Dagli eventi narrati da Misiani, credo di poter desumere che, in effetti, la procura di Roma operò non imparzialmente, ma come instrumentum regni. Desumo altresì che Coiro, in fondo, cadde travolto dalla stessa sua corrente di Magistratura democratica, diciamo di rito ambrosiano.
Quali saranno le risposte del Governo all'interpellanza che ha trovato prontamente l'adesione di altri 60 parlamentari del Polo?
Spero che, intanto, l'opinione pubblica sappia, come io chiedo di sapere, l'esito dei processi avanti al tribunale dei ministri nei confronti degli ex ministri dell'interno Gava e Scotti. Spero, inoltre, che si faccia chiarezza sulle accuse rivolte al senatore Scalfaro e non mi riferisco alla vicenda degli 8 miliardi, di cui all'interpellanza del collega Mancuso, discussa in quest'aula nella seduta del 7 ottobre 1999. Mi riferisco alle accuse risalenti all'autunno del 1993, allorché, come dice Francesco Misiani, la procura della Repubblica di Roma ritenne di congelare le indagini per il rispetto dovuto alle prerogative del Capo dello Stato che, ai sensi dell'articolo 90 della Costituzione, può essere posto sotto accusa dalle Camere riunite solamente per atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni di Presidente e unicamente se si configurino come alto tradimento o attentato alla Costituzione. Ma l'insindacabilità e non punibilità degli atti presidenziali non copre, all'evidenza, eventuali illeciti o reati compiuti dal titolare del Quirinale prima ancora che egli assurgesse alla più alta magistratura. Un ex Capo dello Stato risponde pienamente degli atti criminali compiuti nella veste di ministro, ma solo dopo che sia cessato dalla carica di Presidente della Repubblica. Nella fattispecie il senatore Scalfaro, non più Capo dello Stato, mi sembra debba rispondere delle stesse accuse per le quali i suoi colleghi Gava e Scotti furono deferiti al tribunale dei ministri.
Ove l'ex ministro Scalfaro dovesse essere processato solo per abuso d'ufficio (così come qualcuno sussurra) diventerebbe incomprensibile come per gli ex ministri dell'interno Gava e Scotti le accuse siano state ben più gravi rispetto alla banalità della fattispecie «abuso d'ufficio».
Gli ex ministri Gava e Scotti sono stati, per ipotesi, prosciolti dopo regolare processo? Sono garantista e mi starebbe bene; analogo processo deve però avere luogo per l'ex ministro, nei cui confronti non sarebbe esaustivo, tuttavia, un processo per semplice abuso d'ufficio, accusa che con la ipotizzata dazione di 100 milioni mensili non avrebbe nulla a che vedere. Se solo per l'ex Presidente Scalfaro dovesse banalizzarsi il peculato in abuso d'ufficio, parafrasando il verso dantesco, si potrà dire «mani vi son, ma chi pon legge ad elle». Attendo una risposta del Governo.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la giustizia ha facoltà di rispondere.
ROCCO MAGGI, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, la diffusa illustrazione dell'onorevole Garra dell'interpellanza urgente reca, naturalmente, una risposta molto più sintetica da parte del Ministero della giustizia a mio mezzo. Il quesito finale, infatti, se la procura della Repubblica di Roma, all'avvenuta cessazione dell'ex Presidente Scalfaro dalla carica, abbia scongelato, per così dire, le indagini relative al procedimento di cui ci occupiamo. Sotto questo profilo vi è da rilevare che, già nella
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risposta resa in data 2 giugno 1999 all'interpellanza n. 2-01819, presentata, fra gli altri, dall'onorevole Mancuso, si era avuto modo di ricordare che la decisione di non procedere a carico dell'ex Presidente della Repubblica senatore Scalfaro fu assunta dal procuratore della Repubblica di Roma, il quale ritenne che non potessero essere avviate indagini preliminari nei confronti dello stesso Capo dello Stato allora in carica, a ciò ostando il sistema costituzionale e, in particolare, il presupposto normativo di cui all'articolo 90 della Costituzione. Nell'occasione si segnalò, al riguardo, che l'ampiezza del dibattito dottrinario sulla questione a suo tempo sollevata, testimoniava di per sé l'estrema delicatezza e complessità del problema.
Tuttavia, la prevalenza delle opinioni, in linea con la posizione assunta dal procuratore della Repubblica, consentì di ritenere la piena correttezza sul piano teorico della soluzione adottata, pur conservando, come è ovvio, dignità scientifica anche le altre possibili diverse soluzioni.
Nella stessa risposta si ricordò ancora che la percezione da parte del ministro dell'interno di fondi riservati del SISDE per fini istituzionali non era stata ritenuta penalmente rilevante dal tribunale dei ministri: si tratta del procedimento 57/93 del collegio e del provvedimento di archiviazione reso in data 16 aprile 1996. Il tribunale in questione dispose, infatti, su conforme richiesta della procura del 10 febbraio 1995, l'archiviazione degli atti nei confronti dei ministri Gava e Scotti, con riferimento a condotte analoghe a quelle attribuite al Presidente Scalfaro.
Si pose altresì in evidenza come, alla luce delle valutazioni dell'autorità giudiziaria, non potesse che ritenersi provvida, al di là ed indipendentemente dalla sua correttezza in punto di diritto, la scelta di non esporre il Presidente della Repubblica ad un'azione giudiziaria, il cui esito è stato poi possibile verificare dalla sorte di analoga contestazione mossa nei confronti di altri ministri.
Ad ogni modo, ed avuto riguardo allo specifico quesito posto dagli odierni interpellanti, si segnala che, a seguito di denuncia presentata dall'onorevole Filippo Mancuso e relativa agli stessi fatti, il procuratore della Repubblica di Roma, omessa ogni indagine, ha investito il tribunale per i reati ministeriali, affinché procedesse a norma degli articoli 6 e 8 della legge costituzionale n. 1 del 1989.
PRESIDENTE. L'onorevole Mancuso, cofirmatario dell'interpellanza, ha facoltà di replicare.
FILIPPO MANCUSO. Signor Presidente, signor sottosegretario, astraggo dalla sua amichevole e signorile persona per accostarmi per l'ennesima volta, che non sarà l'ultima, a questa sordida materia e, per prevenire eventuali pruriti interruttivi, ribadisco che in questo caso si tratta di condotte riferibili ad un ex ministro e non ad un ex Presidente della Repubblica o ad un Presidente in carica.
La notizia che lei ci ha dato ci era già nota, soprattutto a me che avevo promosso la denuncia nei confronti dell'onorevole Scalfaro il felice giorno in cui egli cessò dalla carica di Presidente della Repubblica. Ne ricevetti, tre giorni appresso, una comunicazione il cui contenuto costituisce il punto di arresto della sua informativa, cioè che il tribunale per i reati ministeriali era stato investito dalla procura della Repubblica di Roma, ma non ci dice per quale reato.
Proprio il richiamo alle precedenti esperienze relative ad altri ministri denota che la protezione illecita e criminale che è stata giudiziariamente predisposta intorno al capo, tutt'altro che santo, di Scalfaro prosegue.
Quei ministri, infatti, furono, sì, prosciolti, ma proprio per le condotte che lei dice analoghe a quelle di Scalfaro – torna utile ricordarlo – essi furono prosciolti dall'imputazione di peculato. Viceversa, dietro la mia denuncia, qual è stata l'imputazione mossa al signor Scalfaro? Quella di abuso d'ufficio, già largamente prescritta.
Inoltre, ulteriore contrassegno di questa criminale protezione ad un criminale…
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PRESIDENTE. Onorevole Mancuso, il diritto di replica non è diritto di offesa e lei lo sa perfettamente.
FILIPPO MANCUSO. Cerchi di non offendermi lei!
GIACOMO GARRA. Ma non è più coperto dall'immunità! Lo avete protetto per sette anni!
PRESIDENTE. Non importa, questo stato deve essere, caso mai, certificato da un tribunale, come lei sa perfettamente.
FILIPPO MANCUSO. Senta, io so perfettamente ciò che lei ignora e quindi mi lasci parlare!
PRESIDENTE. Onorevole Mancuso, è mio dovere farle rispettare il regolamento.
FILIPPO MANCUSO. Lei rispetti i propri doveri e i miei diritti! Non si permetta di interrompermi!
PRESIDENTE. E ho anche il dovere di toglierle la parola se lei non obbedisce alla Presidenza.
FILIPPO MANCUSO. Ma che Presidenza! La Presidenza…
PRESIDENTE. Allora, la parola le è tolta, onorevole Mancuso.
FILIPPO MANCUSO. No!
ELIO VITO. Non lo può fare, Presidente!
FILIPPO MANCUSO. Non si permetta di fare questo! Mascalzone! Servo! Criminale! Criminale!
PRESIDENTE. Onorevole Monaco, le chiedo se intende illustrare la sua interpellanza… (Vive proteste del deputato Mancuso) .
Onorevole Mancuso, la richiamo all'ordine.
FILIPPO MANCUSO. Zitto! Zitto, servo!
PRESIDENTE. La richiamo all'ordine, onorevole Mancuso.
FILIPPO MANCUSO. Servo! Servo!
PRESIDENTE. Onorevole Mancuso (Vive proteste del deputato Mancuso) ! Onorevole Mancuso, sono costretto ad allontanarla dall'aula, se lei insiste.
ELIO VITO. No, signor Presidente!
FILIPPO MANCUSO. Ma vada al diavolo!
PRESIDENTE. Allora onorevole Mancuso, si accomodi, per favore.
ELIO VITO. Chiedo di parlare per un richiamo al regolamento.
BENITO PAOLONE. Tolga la seduta, Presidente!
PRESIDENTE. Sospendo la seduta.