Le proposte del Pdl trasudano troppa nostalgia per il 2001.
Caro direttore, «il Partito democratico lavora per rilanciare il processo di integrazione politica dell'Europa e crede nell'Europa massima possibile, non in quella minima indispensabile, nell'Europa come risposta a chi crede che la globalizzazione sia ingovernabile».
Questa breve frase del programma del Pd, dimostra nell'ordine che:
a) il Pd è perfettamente consapevole dell'ambivalenza della globalizzazione: «migliorano le condizioni di vita e di reddito di milioni di uomini […], ma le disuguaglianze tendono ad accentuarsi, mentre le turbolenze dei mercati finanziari ripropongono rischi di recessione e sollecitano una nuova regolazione» (pag. 1);
b) il Pd non intende rassegnarsi affatto alla logica «mercatista», ma sostiene l'esigenza (e la possibilità) di nuove politiche e nuovi strumenti di governo globale;
c) il Pd individua nella costruzione dell'Europa politica – l'Europa massima possibile, ben al di là di quella minima indispensabile dell'attuale assetto istituzionale – l'unico strumento capace di «governare» la globalizzazione. «L'agenda immaginaria» di Giulio Tremonti (pag. 102 di La forza e la speranza ) si apre esattamente così: attribuire al Parlamento europeo l'iniziativa legislativa e dunque competenza legislativa piena nelle materie che sono già di competenza europea. Ecco un buon esempio – aggiungo io – di «Europa massima possibile», agli antipodi rispetto ad ogni minimalismo ed euroscetticismo. Il programma del Pd ne propone anche altri: «…le nostre priorità saranno una solida politica di sicurezza comune, una politica dell'energia coerente con la strategia del 20/20/20 e con una rappresentanza unitaria sui mercati esterni, una politica della ricerca e delle reti europee da finanziarsi anche mediante l'emissione di euro-bond». A quest'ultimo proposito, Tremonti a pag. 108 scrive: h) emissione di euro-bond. Possiamo (e dobbiamo) incassare il dividendo di Maastricht…Basta l'Europa politica vera – quella proposta dal programma del Pd ed auspicata dal libro di Tremonti – per governare la globalizzazione, sfruttandone le potenzialità e riducendone gli spaventosi costi ambientali e sociali?
Secondo il programma del Pd, non basta: «Il Pd è per il rafforzamento dell'amicizia e della collaborazione nazionale e europea con gli Stati Uniti. Siamo favorevoli alla proposta di costruire uno spazio comune transatlantico in campo economico oltre che politico, che rafforzi il nucleo di base per il governo della globalizzazione. […] La partnership atlantica è la base migliore per […] un approccio positivo nei confronti delle nuove potenze emergenti». Chi ha letto il libro di Tremonti sa che, a pag. 106, prospetta «un'estensione transatlantica dall'Europa agli Usa di un trattato di unione commerciale […] così da creare un nuovo grande spazio atlantico».
A scanso di nuovi equivoci sulle date: il programma del Pd è stato presentato alla stampa il 25 febbraio scorso; la prima edizione del libro di Tremonti è del marzo 2008. Ma torniamo alle cose serie. Né una forte Europa politica, né un rinnovato spirito transatlantico potranno granché, se non muterà l'approccio di base ai problemi del mondo globalizzato: «Il Pd opera per il multilateralismo efficace, per il rafforzamento delle istituzioni internazionali e per la loro riforma». E qualche riga dopo: «…per la tutela dei diritti umani, anche mediante gli accordi condizionati di cooperazione…». La brevità della frase non deve trarre in inganno: il nuovo mondo – nuovo rispetto alla breve fase successiva al 1989, dominata da un'unica potenza globale – è e sarà sempre più multipolare. Fu dunque in aperto contrasto con le tendenze della realtà ed esiziale per qualunque, serio tentativo di governo delle contraddizioni globali l'approccio unilaterale dell'amministrazione Bush, cui il governo italiano si accodò supinamente, senza preoccuparsi dei suoi devastanti effetti sia nella lotta al terrorismo jihadista, sia nell'esasperazione dei conflitti economici e religiosi. Ed è davvero curioso – anche se politicamente comprensibile – che il libro di Tremonti, dedicato all'analisi della crisi globale in tutte le sue componenti, non gli dedichi neppure un cenno fugace.
Credo di non dover proseguire oltre per dimostrare che – con la rilevantissima eccezione segnalata proprio in ultimo – tra le fondamentali scelte programmatiche del Pd in tema di «posizionamento» della sua Italia nel nuovo contesto globale e molte delle indicazioni fornite dall'ultimo capitolo del libro di Tremonti la distanza non è enorme. Esisterebbero dunque condizioni favorevoli al conseguimento dell'obiettivo puntualmente indicato a pag. 3 del programma del Partito democratico: «far convergere su queste scelte le principali forze politiche del paese, per approdare finalmente a un'idea condivisa di interesse nazionale italiano nelle scelte internazionali».
Esisterebbero, se l'ultimo capitolo del libro di Tremonti fosse il programma del Pdl e se quest'ultimo fosse disponibile ad aggiungervi un'esplicita indicazione per l'abbandono dell'approccio unilaterale della fase 2001-2006. Ma è proprio qui
che casca l'asino: di tutto questo, nel programma del Pdl, non si rintraccia segno alcuno (con l'eccezione di dazi e quote, che affronterò in ultimo). C'è chi suggerisce al leader del Pdl di cavarsela così: l'indicazione di Tremonti come candidato al ministero dell'Economia è la scelta che conta e riduce il programma ufficialmente presentato dal Pdl stesso al rango di mero esercizio di stile. Espediente troppo facile, per essere preso sul serio, anche se non fosse truffaldino. Il programma del Pdl non contiene una sola parola in tema di maggiore unità politica europea, di rapporto con gli Usa, di istituzioni del governo globale, di alternativa tra approccio unilaterale e approccio multilaterale, per due precisi ordini di ragioni: in primis, perché tutto il programma trasuda nostalgia per il 2001, chiudendo ogni accesso a ipotesi di «svolta» rispetto alla politica internazionale praticata da quel governo.
Ma di svolta c'è bisogno, per poter prendere sul serio il tema del difficile governo della globalizzazione. In secondo luogo, perché nella coalizione rimessa in piedi dal Pdl si è sviluppato e permane – anzi, si aggrava, come dimostra l'atteggiamento della Lega Nord sulla recentissima crisi del Kosovo – un durissimo contrasto proprio sul nodo centrale, che va sciolto per primo: l'Europa massima possibile o quella minima indispensabile? Un chiarimento, da parte del leader del Pdl, sarebbe necessario.
E l'esperienza del passato non dimostra affatto che questo chiarimento – ove ci fosse – si determinerebbe a favore di Tremonti: tutti ricordiamo come si risolse, in ultimo, il conflitto interno alla Casa delle Libertà sulla politica del credito e sul rapporto con l'allora governatore Fazio.Infine, qualche riga su dazi e quote. Nel programma del Pdl sta scritto: «interventi sull'Unione Europea per ridurre la regolamentazione comunitaria, e difendere la nostra produzione, contro la concorrenza asimmetrica che viene dall'Asia (dazi e quote)». Almeno su questo, programma Pdl e Tremonti convergono. Premesso che profonde riforme strutturali per portare concorrenza dove non c'è (o non ce n'è a sufficienza) dovrebbero apparire necessarie – come ha scritto Mario Monti – anche a chi è favorevole al protezionismo. Premesso che quello della concorrenza «sleale» non è certo un problema inventato dai protezionisti di destra, ché anche i liberali di sinistra non possono e non vogliono assistere, senza reagirvi con determinazione e durezza, a un totale disallineamento tra circolazione delle merci e tutela dei diritti umani universali.
E premesso che, non a caso, l'unico efficace scudo contro il disordine della globalizzazione è oggi costituito dall'euro,
fortissimamente voluto contro gli euroscettici di allora e di oggi, il mio argomento torna là dove ho iniziato: se il programma del Pdl non ci propone più e diversa Europa politica; non ci propone più e diversa Onu; non ci propone credibilmente la creazione di uno spazio euroatlantico, come e dove l'Italia del Pdl lavorerà per meglio affermare l'interesse nazionale (sia esso quello dei lavoratori o quello delle imprese vittime della concorrenza sleale)? Non parlarne è frutto di mera dimenticanza, cui ha messo rimedio Tremonti? Non sono napoletano, ma qui ci vuole Totò: Ma facitece 'o piacere!