Il riformista, 24 ottobre 2007 – Fino a prova contraria, c'è ancora la Costituzione – Paolo Franchi
Io non so da dove Silvio Berlusconi tragga la matematica certezza che il governo Prodi ci lascerà attorno al 14 novembre. Anzi, se fossi in lui coltiverei in materia parecchi dubbi, e non solo sulla data dell'ipotetica caduta, perché il Professore, con tutti suoi guai, è uomo politico più resistente e abile di quanto gli avversari (e pure certi amici) si vogliono convincere che sia. Ma Berlusconi il dubbio, come è noto, per scelta di vita non lo coltiva. E, in ogni caso, non è questo il punto che mi sta a cuore segnalare.
Colpisce (o dovrebbe colpire) molto di più il fatto che il leader della Casa delle Libertà, fissato per la metà del mese prossimo il momento della crisi, si preoccupi pure di rendere nota la decisione di anticipare la manifestazione nazionale, a Roma, del centrodestra. Non più in dicembre, come da calendario previsto, ma il 17 novembre. Tre giorni dopo, cioè, il presunto addio di Romano Prodi.
Può darsi, naturalmente, che Berlusconi sia convinto di dover dare pronto e libero sfogo, a quel punto, alla gioia del suo popolo, così grande e incontenibile da non poter essere contenuta per qualche settimana ancora. Può darsi, ma non ne sono tanto convinto. Corali (e comprensibili) espressioni di giubilo a parte, la piazza (insistiamo: ipotetica) del 17 novembre non avrebbe che una parola d'ordine da levare al cielo della capitale, la stessa, si capisce, che Berlusconi ripete un giorno sì e l'altro pure, sin da quando, all'indomani delle elezioni politiche, denunciava brogli in suo danno e rivendicava l'immediato riconteggio delle schede.
(Continua..)
La richiesta, cioè, di un immediato scioglimento delle Camere e di
elezioni anticipate. Una richiesta più che legittima, si dirà, e
giustamente, visto che avanzarla è nel pieno diritto di un leader,
di un partito o, come nel nostro caso, di una coalizione, tanto più
se quest'ultima è convinta, e certo non senza le sue buone ragioni,
che le elezioni in questione le vincerebbe a man bassa. E nulla
vieta, ci mancherebbe, che una simile richiesta sia sostenuta da
un'ampia mobilitazione popolare. Tutto vero. Si dà il caso, però,
che nel nostro ordinamento la decisione di sciogliere le Camere
spetti al capo dello Stato, e solo a lui. E si dà anche il caso che
Giorgio Napolitano non abbia mai fatto mistero di una sua
convinzione ferma e radicata. Secondo la quale riportare gli
italiani alle urne con questa legge elettorale sarebbe rendere un
pessimo servizio alla democrazia e al paese: un pessimo servizio dal
quale, per quanto è nelle sue prerogative costituzionali, farà tutto
il possibile per sottrarsi.
Per conto mio, penso che il presidente della Repubblica abbia
perfettamente ragione, e che gli italiani, di sinistra di centro e
di destra, dovrebbero essergli sin d'ora grati per quanto riuscirà a
fare per sostenere, crisi o non crisi, questa posizione, e cercare,
per quanto gli compete, una soluzione che renda possibili le
riforme. Questo è, si capisce, un punto di vista personale, anche se
certamente non solitario. Un problema serio, però, si pone o si
dovrebbe porre anche per chi la vede diversamente. Lo pongo in forma
di interrogativo, lasciando perdere le sciocchezze sulla «marcia su
Roma» che, abbiamo letto, sarebbe nei piani di Berlusconi. Rientra o
no in una concezione condivisa e condivisibile della democrazia
l'idea di mobilitare la piazza (anche questo abbiamo letto) per
cercare di dissuadere il capo dello Stato dal libero esercizio delle
proprie prerogative costituzionali? Capisco che nel linguaggio e
nella cultura politica di una parte della destra italiana questo
esercizio sia rappresentato come intrigo, manfrina o, peggio,
tentativo di rendere tutti i possibili servigi alla propria parte
politica di provenienza in difficoltà. Ma nonostante questo, o forse
proprio per questo, la mia risposta è un no rotondissimo. E il solo
fatto che una simile possibilità possa essere considerata
nell'ordine delle "normali" cose della lotta politica dovrebbe
essere, mi pare, motivo di serissima preoccupazione.