Il Riformista, 30 aprile 2008 – IL RISCHIO DELLA VOCAZIONE MINORITARIA – di Roberto Gualtieri
Come era prevedibile, la linea scelta dal gruppo dirigente del Pd di rinviare una seria analisi del risultato delle elezioni politiche negando la sconfitta subita il 13 e 14 aprile o minimizzandone la portata non si è rivelata particolarmente felice di fronte alla sfida di un ballottaggio imprevisto e insidioso come quello di Roma. Non
solo per evidenti ragioni di ordine generale (è in generale assai difficile far scattare nel proprio elettorato e nei propri militanti la volontà di riscossa se si continua a parlare di «successo» del Pd).
Ma soprattutto perché, dopo che il risultato del primo turno
aveva mostrato in maniera inequivocabile la presenza di un diffuso
giudizio negativo dei romani sulla qualità dell'amministrazione
capitolina e la difficoltà di arginare Alemanno in nome della
continuità con il «modello Roma» e della retorica antifascista,
quella linea ha precluso a Rutelli (che già scontava l'handicap forse
insormontabile di una forte identificazione con quella vicenda) la
strada di tentare di interpretare una forte discontinuità
programmatica e politica con l'esperienza degli ultimi anni del
governo della città: ad esempio facendo proprio con maggiore
determinazione il tema del disagio dei cittadini (anche per evitare
di doversi misurare con esso sul terreno proposto dalla destra e ad
essa più congeniale, cioè quello della sicurezza), e perseguendo fino
in fondo l'ipotesi di un allargamento al centro della maggioranza. Di
fronte alla portata della sconfitta e alla necessità di indagarne le
ragioni di fondo è però del tutto inutile attardarsi in
recriminazioni di questo tipo, almeno altrettanto quanto lo sarebbe
proseguire il singolare dibattito sulla necessità e le virtù
del «tenere botta». La doppia sconfitta nazionale e romana subita dal
Pd chiude infatti con ogni evidenza un lungo ciclo apertosi
all'inizio degli anni novanta, e mostra tutti i limiti della cultura
politica prevalente nella generazione politica che si è formata negli
anni del tramonto della prima repubblica e dei suoi partiti. Sono
limiti che hanno segnato pesantemente le vicende dell'intero
quindicennio, ma che lungi dall'essere superati con la formazione del
Partito democratico sono apparsi anzi ulteriormente enfatizzati in
modo a volte parossistico nei suoi primi mesi di vita.
La difficoltà ad emanciparsi da quella visione neoliberale fondata
sul dogma della separazione tra economia e politica affermatasi alla
fine degli anni ottanta ed ormai definitivamente tramontata in tutto
il mondo, che ha segnato così pesantemente l'impianto della proposta
programmatica del Pd rendendolo disarmato di fronte alla speculare
conversione «centrista» operata dal Pdl. Il crescente peso di una
visione negativa del lavoro e del mito della sua «fine» (che risale
alla stagione degli anni settanta), che ha ostacolato o reso
marginale ogni tentativo di rifondare su un terreno non classista i
rapporti con quel mondo che rappresenta ovunque il principale
referente sociale di una forza riformista. Un'idea atomistica della
società (simboleggiata dalla «società liquida») che elude il problema
dello spessore dei suoi corpi intermedi spingendo a privilegiare
l'idea di un rapporto indifferenziato con l'opinione pubblica
ispirato alle modalità della comunicazione commerciale e a confondere
così il concetto di «rappresentanza» con quello
di «rappresentazione». Una concezione della politica fondata su una
diffidenza di matrice «movimentista» per i partiti politici, che
determina da un lato la persistente incapacità ad affidare la
selezione della classe dirigente a procedure democratiche certe e
dall'altra la tendenza a sottovalutare il problema delle alleanze
politiche. Una visione negativa dell'impianto parlamentare della
nostra Costituzione fortemente condizionata dalle critiche che ad
essa sono sempre venute dalle correnti culturali e politiche di
ispirazione presidenzialista.
Sono solo alcuni esempi di quel peculiare impasto tra «vecchio»
e «nuovo» che ha fortemente condizionato la lunga transizione
italiana impedendo finora un vero ricambio di classi dirigenti e
determinando la strutturale egemonia della destra. Liberare il Pd da
questa ipoteca e consentirgli finalmente di dispiegare le sue
potenzialità evitando il rischio di assumere stabilmente i connotati
di un «partito a vocazione minoritaria» sarà un'impresa lunga e
difficile, perché essa richiede la formazione di una nuova classe
dirigente la cui crescita è stata pesantemente (e speriamo non
irrimediabilmente) ostacolata dalle modalità alle quali è stata
finora affidata la sua selezione e la sua promozione. Qualsiasi sarà
il percorso scelto dal Pd per misurarsi con la sconfitta, sarà
indispensabile gettarsi alle spalle ogni tentazione a «contenere» il
libero dispiegamento di un dibattito vero e di una reale dialettica
democratica entro le logiche di vecchie appartenenze e
dell'autotutela di un ceto politico che se non vuole scomparire deve
imparare finalmente a confrontarsi senza rete.