IL PD E LA SCELTA DI ANDARE SOLO – Corriere della Sera – Paolo Mieli
La scelta del Partito democratico di presentarsi da solo alle prossime elezioni politiche non va tenuta nel conto di un espediente. È un fatto, certo, che se la coalizione di centrosinistra si fosse riproposta tal quale si era presentata nel 2006, l'esito sarebbe stato per lei disastroso. E questa catastrofe, va detto, si sarebbe avuta non già per la prova del governo Prodi che, anzi, nelle condizioni date ha offerto una prestazione di tutto rispetto. L'esito per il centrosinistra sarebbe stato molto negativo proprio per le «condizioni date» e cioè per la conclamata indisponibilità di micropartiti e piccole correnti a farsi carico della logica di coalizione, ovvero del rispetto del principio di maggioranza all'interno della coalizione stessa. Walter Veltroni, dunque, non poteva presentarsi alla guida di un partito legato a soci indisciplinati oltreché inaffidabili ed è costretto, sì costretto a correre in solitudine.
Ma, a questo punto della storia della sinistra italiana, si tratta di una costrizione provvidenziale che lo obbliga a tagliare con un colpo netto un nodo che altrimenti sarebbe rimasto ancora a lungo aggrovigliato. Di che cosa stiamo parlando? Dal 1861, dalla formazione del nostro Stato unitario, anche prima della nascita e dell'affermazione del Partito socialista, in Italia la sinistra di governo fu quella di ex adepti del movimento garibaldino e mazziniano (adepti di rango: Agostino Depretis, Giovanni Nicotera, Francesco Crispi) che lasciavano dietro di sé nel territorio di provenienza, un campo antisistema, parte consistente della loro legittimazione. L'identità forte restava appannaggio dei loro compagni rimasti sul terreno della radicalità: ai transfughi rimaneva un' identità dimidiata, la necessità di attestare di continuo una qualche fedeltà agli ideali di un tempo, l'obbligo morale di proporre misure in cui credevano poco, solo per dimostrare al loro elettorato potenziale rimasto fuori dal sistema di appartenere ancora a una stessa famiglia. E per avere libertà di manovra nella complicata arte del governo toccò loro, alla sinistra storica, persino di elevare a dottrina il trasformismo (1882).
Le questioni legate alla figura del transfuga che si stacca dal ceppo d'origine si proposero anche fuori dai nostri confini, ad esempio per Alexandre Millerand, il primo socialista francese che nel 1899 entrò nel governo di difesa repubblicana presieduto da Waldeck-Rousseau. Ma presto i socialisti di Francia vennero a capo di questo problema, dopo appena quindici anni, allorché nel corso della prima guerra mondiale — con Jules Guesde e Marcel Sebat in rappresentanza dell'intero partito — entrarono nel governo (di grande coalizione) presieduto da Viviani. In quegli stessi giorni i laburisti inglesi facevano il loro ingresso nei gabinetti (anche questi di coalizione) di Asquith e Lloyd George. E subito dopo la Grande guerra i socialdemocratici tedeschi Ebert e Scheidemann guidarono i primi governi della Repubblica di Weimar. In altre parole i socialisti dell'Europa più avanzata già all'inizio del Novecento, prima o a ridosso della Rivoluzione d'ottobre, si addossarono responsabilità ministeriali dandosi — in conformità all'occasione — una salda identità via via sempre più riformista.
Da noi le cose andarono diversamente. I primi socialisti che andarono al governo, Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi nel 1916, lo fecero anche loro da transfughi alla guida di una piccola formazione scissionista che si era staccata dal Psi quattro anni prima. E dopo il conflitto Filippo Turati, pur avendo capito fino in fondo che cosa si dovesse fare, non riuscì a divincolarsi per portare il suo partito in un gabinetto che grazie alla forza dei socialisti avrebbe potuto sbarrare la strada al movimento mussoliniano. Poi fu il ventennio dei fascismi e della stringente logica per cui i socialisti europei furono costretti ad aderire ai fronti popolari, cioè all'alleanza con i comunisti. Ma, finita la seconda guerra mondiale, i laburisti inglesi di Attlee, i socialisti francesi di Guy Mollet e Ramadier, quelli tedeschi di Schumacher ruppero subito con i comunisti staliniani riprendendo con ciò la loro identità originaria e con essa la via del governo. In Italia no. I socialisti nostrani ancorché (particolare non irrilevante) nel 1946 fossero il primo partito della sinistra italiana restarono, unici nell’Europa democratica, avvinghiati al Pci in un legame frontista. Si staccò, è vero, nel 1947 Giuseppe Saragat ma il suo piccolo partito socialdemocratico, come già era stato per Bonomi e Bissolati, portò con sé una parte infinitesimale della sinistra che pressoché al completo rimase egemonizzata dal Pci nel campo della radicalità antisistema. E quando negli Anni Sessanta i socialisti di Pietro Nenni andarono finalmente al governo, il grosso dell’elettorato (con annessa l’identità vera della sinistra italiana) restò con il Pci all’opposizione. Insomma qui in Italia non è mai accaduto che il principale partito della sinistra si mettesse nelle condizioni di candidarsi davvero a governare— con un programma coerente di riforme coraggiose sì ma compatibili —al riparo da veti e intrusioni da parte di entità politiche collocate su posizioni estreme. Mai.
L’unità nazionale (1976-1979) fu altra cosa e neanche l’Ulivo prodiano — che pure è stato il progenitore del Partito democratico — può essere considerato qualcosa di simile ai confratelli socialisti europei che dall’inizio del secolo scorso hanno avuto (ed esercitato in prima persona) responsabilità di governo. Se non altro perché l’Ulivo non si è mai candidato a governare libero da ipoteche di sinistra. Oggi, per la prima volta dopo centoquarantasette anni, questo accade anche da noi. E grazie al fatto che Rifondazione mostra di aver ben compreso — pur non facendolo proprio — il senso di questa evoluzione, il divorzio della sinistra riformista da quella massimalista e rivoluzionaria avviene in un clima che si può definire di separazione consensuale.
Quello che sta accadendo al Partito democratico (sempre che Veltroni riesca a tenere duro al cospetto delle irragionevoli obiezioni di alcuni dei suoi) è qualcosa che va al di là di ciò che si deciderà il 13 e 14 aprile. Se il suo partito uscirà consacrato da un risultato abbondantemente superiore al 30 per cento, anche in caso di sconfitta potrà dispiegare una politica potente in grado di dare frutti molto prima di quanto si pensi. È vero che la Casa delle libertà al nastro di partenza per la corsa del 13 aprile ha maggiori e non immeritate chances di vittoria ma è vero altresì che la coalizione berlusconiana è in grande ritardo sulla via della formazione di un partito unico. E questo, agli occhi di chi come noi ha a cuore la stabilità e la funzionalità del sistema politico italiano, peserà. Silvio Berlusconi è ancora in tempo per dare un’accelerazione a questo progetto che ha sempre dichiarato essere il suo. Se lo facesse questa sarebbe una seconda positiva sorpresa che darebbe un carattere storico a questa campagna elettorale.
08 febbraio 2008