Europa, 6 settembre 2007 – INTERVISTA CON FRANCESCO GIAVAZZI – «Il liberismo è di sinistra» -GIOVANNI COCCONI
Con il centrodestra italiano è una partita persa. Fiato sprecato. Il titolo del suo nuovo libro, così, finisce per suonare come un ossimoro. Il liberismo è di sinistra. Avete letto bene. Perché per Francesco Giavazzi, economista bocconiano e firma del Corriere della Sera, autore con Alberto Alesina del saggio che uscirà oggi nelle librerie, «essere liberisti significa aiutare soprattutto i più deboli.
I più deboli non sono aiutati in una società in cui le decisioni vengono prese da corporazioni o gruppi organizzati che difendono gli interessi di pochi. Una società liberista, invece, è una società con più concorrenza». Liberista, non liberale. Giavazzi sa di rovesciare un paradigma, di mandare gambe all'aria decenni di discorsi sul darwinismo sociale e la legge del più forte.
Ma l'intervista non è l'unica sorpresa. Si scopre che ha fatto pace con il ministro Padoa-Schioppa, «anche se le differenze di idee rimangono». E poi che gli Stati Uniti non sono più un modello, forse non lo sono mai stato, e l'economista che l'anno scorso ha scritto Goodbye Europa oggi all'America preferisce decisamente la flexsecurity dei paesi scandinavi. Professore, il liberismo è di sinistra perché la destra l'ha delusa? Nel libro lo scriviamo: in questo paese quel poco di liberismo che c'è stato è venuto dallo schieramento di centrosinistra, a partire dalle autorità indipendenti che sono uno strumento fondamentale di un'economia in concorrenza.
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Ma anche nel centrosinistra c'è ancora tanto da fare. Per esempio? Quali famiglie riceveranno i benefici dell'aumento delle pensioni minime? I benefici maggiori vanno al 50 per cento meno ricco della società italiana ma all'interno di quel 50 per cento non è il 10 per cento più povero a ricevere i maggiori benefici ma i decili 2, 3 e 4 che sono quelli dei lavoratori dell'industria protetti dai sindacati. Sulla carta doveva essere una misura per i più deboli ma nei fatti non li ha aiutati. Altro esempio, il protocollo sul welfare. Non mi piace perché non aiuta i precari, quel 15-20 per cento del mercato del lavoro che resterà senza reti di protezione e senza la speranza di acquisirle. Il protocollo sul welfare parte dal presupposto che i contratti a tempo indeterminato non si toccano. In Francia, invece, si sta discutendo di unico contratto di lavoro con garanzie che crescono nel tempo. Però Sarkozy è tanto liberista sul lavoro quanto protezionista sul capitale. È vero. Sarkozy non ha ancora fatto quasi nulla, però ha promesso di fare molto sul mercato del lavoro, compresa una cosa importante come l'idea che quando un'azienda licenzia un lavoratore si faccia carico anche di una parte del sussidio di disoccupazione. Ma sul capitalismo di stato e sui campioni nazionali è un francese tradizionale. Non è la Thatcher… E la Francia non è la Gran Bretagna. In questo senso lui ha fatto l'opposto del ministro Bersani. Bersani ha annunciato la terza lenzuolata. Se fosse per lei dove si dovrebbe intervenire? Lo dico con una battuta perché mi ritengo un suo amico. Lui è come uno scolaro al quale si consegna un libro su come creare un'economia liberista. Incomincia dal capitolo 1 e fa cose giuste, poi arriva al capitolo 4 che è il mercato del lavoro e dice: no, questo non mi piace, passo al capitolo 5. E invece il capitolo del lavoro è cruciale. Se non si affronta quello non si arriva al cuore del problema. Pensa al mercato americano? Io e Alesina pensiamo che nel mondo occidentale ci siano sostanzialmente tre tipi di società. Quella americana, molto liberista e dinamica in economia ma senza reti di protezione: se uno per sventura cade, si fa molto male. Poi ci sono le società nordiche (noi guardiamo in particolare alla Svezia e alla Danimarca), molto liberiste in tutti i mercati incluso quello del lavoro, però con vere reti di protezione. E poi ci sono società come la nostra, poco dinamiche, perché poco liberiste e poco aperte, e senza reti di protezione. Lei ha dato un nome a un'agenda, l'agenda Giavazzi appunto. Le fa piacere? Mi ha fatto piacere l'editoriale di Alfonso Gianni di Rifondazione il quale ha capito che mi stanno a cuore i deboli e i precari. E poi mi fa piacere che certe idee siano passate, entrate nell'agenda del nostro paese, forse per il lavoro che Mario Monti ha fatto a Bruxelles. Se lei va in Francia, in Germania o in Spagna certi temi non fanno parte del dibattito comune. Noi almeno sulla discussione siamo più avanti. Mario Monti, in un'intervista con Dario Di Vico, ha parlato di una certa tradizione di pensiero milanese in economia che ha fatto propria la lezione di Luigi Einaudi. Esiste una scuola milanese? A me non piace l'idea della scuola milanese perché sembra essere in contrapposizione con altre, come quella bolognese di Nino Andreatta. Non c'è uno specifico milanese, però c'è un gruppo di economisti e giuristi che sono riusciti a far passare qualche messaggio. Un contributo importante l'hanno dato anche i giovani economisti italiani, da Alesina a Zingales, che pur essendo emigrati negli Stati Uniti hanno continuato a occuparsi dell'Italia con passione, senza snobbarla. In fondo è quello che fece Franco Modigliani quando, trent'anni fa, fu il primo ad accorgersi del disastro del punto unico di contingenza. Curiosità: ha fatto pace con Padoa-Schioppa? Siamo amici da trent'anni. Continuo ad avere idee molto diverse dalle sue su spesa pubblica e privatizzazioni, ma le idee sono una cosa diversa dall'amicizia.