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Il rifiuto del liberismo -Panebianco sul Corriere

By 08/09/2007Politica

Corriere della Sera, 8 settembre 2007

Destra, sinistra e il libro di Alesina e Giavazzi – IL RIFIUTO DEL LIBERISMO – di ANGELO PANEBIANCO

Il liberismo è di sinistra? Certamente sì, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che hanno scritto un pamphlet con quel titolo ma senza il punto interrogativo. In cento pagine, con un linguaggio semplice e efficace, i due economisti raggiungono l'obiettivo che si proponevano: fornire munizioni, sotto forma di eccellenti argomenti, ai riformatori presenti nella coalizione di centrosinistra e impegnati (con pochi successi) in un braccio di ferro con le componenti dirigiste della maggioranza. Il libro di Alesina e Giavazzi è destinato a influenzare il dibattito politico-culturale nella sinistra italiana con riflessi possibili (auspicabili) anche sulle scelte politiche di governo.
Nella peggiore delle ipotesi, i loro argomenti serviranno almeno a indebolire pregiudizi (contro il mercato e la concorrenza) e idee ammuffite che, per forza d'inerzia, continuano a circolare nella sinistra italiana, anche in quella ufficialmente non massimalista. La tesi di partenza di Alesina e Giavazzi è semplice.

Ciò che, in omaggio a una tradizione italiana, essi chiamano «liberismo» (ma, come Piero Ostellino, anch'io preferisco, per ragioni che dirò poi, la dizione «liberalismo economico») è in grado di realizzare gli obiettivi di equità e di uguaglianza delle opportunità che sono storicamente ideali di sinistra mentre le politiche interventiste e dirigiste praticate dalla sinistra italiana calpestano il principio di equità e finiscono per accrescere disuguaglianze e ingiustizie. Si tratti di meritocrazia nell'istruzione, di riforme del mercato del lavoro, di liberalizzazione delle professioni, di privatizzazione delle industrie di Stato, è possibile dimostrare, secondo Alesina e Giavazzi, che la concorrenza e l'equità non sono in antitesi, che le politiche liberiste, colpendo privilegi e rendite monopolistiche dei pochi, avvantaggiano i più, rendono la società più giusta e più efficiente al tempo stesso. Condivido totalmente. E guardo con simpatia al loro tentativo di fornire munizioni ai deboli, minoritari, e un po' spauriti, «liberisti» del centrosinistra. Non mi convince però la tesi secondo cui dovremmo considerare «di sinistra» il liberalismo economico/liberismo. Penso piuttosto che il liberalismo economico sia tale da non lasciarsi facilmente assorbire nella tradizionale classificazione destra/sinistra. Non è questione di etichette ma di sostanza. Non c'è solo il fatto (non proprio marginale) che se consideriamo di sinistra il liberalismo economico, ne consegue, per il principio di non contraddizione, che i (pochissimi) liberal-liberisti italiani, fra i quali includo anche me stesso, dovrebbero essere considerati tutti di sinistra (il che forse provocherebbe in alcuni di loro una crisi di identità). È soprattutto che il liberalismo economico, benché tradizionalmente considerato di destra, non «quaglia» né con la destra né con la sinistra. Non con la destra perché la destra è prevalentemente corporativa. E non con la sinistra perché la sinistra è prevalentemente classista e redistributiva. Non parlo di destre e di sinistre «ideali» ma della destra e della sinistra così come sono state confezionate dalla storia. Non soltanto in Italia. Prendiamo un caso in cui il liberalismo economico ha conseguito grandi successi alla fine del XX secolo: la Gran Bretagna. La sua affermazione incontrò formidabili resistenze sia a destra che a sinistra. A destra, la Thatcher conquistò, con un programma liberista, il partito conservatore nel 1975 (portandolo poi alla vittoria elettorale nel 1979). Ci riuscì perché il partito era stremato e in crisi. I conservatori tradizionali furono costretti a subire la Thatcher pur odiandola e disprezzandola e a subire un programma di governo liberista che contraddiceva la tradizione conservatrice. Lo stesso vale per Blair. Riuscì a impadronirsi del Labour Party perché il partito era agonizzante dopo tanti anni di opposizione senza prospettive e perché i sindacati erano stati fortemente indeboliti dalla «cura Thatcher». Fu così che Blair, facendo leva sull'eredità di successo del thatcherismo, potè infondere nel Labour, e ispirare ad esso la sua azione di governo, un liberalismo alla Gladstone (il grande leader liberale del diciannovesimo secolo) che non aveva molto a che spartire con la tradizione laburista. Destra e sinistra, non solo in Italia, tendono spesso a rifiutare le ricette del liberalismo economico, a cominciare dalla concorrenza, anche se per ragioni diverse. La destra perché la concorrenza può sconvolgere gli equilibri interni a quei ceti (per esempio, professionali) di cui essa si fa per lo più garante. La sinistra perché essa è storicamente interessata a ridistribuire la torta (attraverso tasse e spesa pubblica) a favore di alcuni gruppi di lavoratori dipendenti: anche se ciò comporta, come rilevano Alesina e Giavazzi, andare contro gli interessi dei giovani, dei consumatori, o dei veri poveri. Più calzante della distinzione destra/sinistra mi sembra quella che lega la questione del liberalismo economico alla opposizione fra i fautori della società aperta e i fautori (di destra e di sinistra) della società chiusa. Solo i primi, indipendentemente dalle loro contingenti scelte politiche, apprezzano meritocrazia e concorrenza, pensano che lo Stato debba limitarsi a fornire alcuni essenziali «beni pubblici» (compreso il bene pubblico rappresentato da regole certe e trasparenti per il mercato) lasciando per il resto il massimo spazio possibile alla libera iniziativa dei singoli. Nella convinzione che ciò porti, proprio come pensano Alesina e Giavazzi, più efficienza, più libertà e più equità. Non credo che parole abusate, e usurate dalla storia, come sinistra e destra servano per afferrare il punto. Il problema non è stabilire se il «liberismo» sia una bandiera che tocca alla sinistra o alla destra sventolare. Il problema è cosa fare per rafforzare, negli attuali schieramenti, la posizione dei fautori della società aperta a scapito di quella (storicamente molto più forte) dei fautori della società chiusa. Una parola conclusiva sul perché non mi piace il termine «liberismo». Fu inventato in Italia nel diciannovesimo secolo da nemici delle idee liberali. Presuppone che la libertà possa essere fatta a fette: che si possa separare nettamente la libertà economica da quella politica e civile. Il passo successivo consiste spesso nel sostenere che sia possibile avere piena libertà politica, civile, culturale, eccetera, anche in un regime di oppressivo dirigismo economico, in assenza di libertà economiche. Una tesi che a me pare falsificata dall'esperienza storica.

 

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