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Intervento di Emma Bonino al congresso radicale

VII CONGRESSO DEI RADICALI  – Chianciano Terme, 30 ottobre – 2 novembre 2008 – Intervento di Emma Bonino

Compagni, ieri fumavo una sigaretta fuori, di fronte allo schermo che avete messo, dove continuano a passare foto storiche o meno storiche radicali. Sono fotografie non in ordine cronologico che, anche per chi è di antica militanza come me, richiedono un certo sforzo per metterle in ordine. Però, devo dire che è così forte il vissuto radicale dentro di me, che le ho riconosciute tutte, ma proprio tutte. Forse posso sbagliare di una, se sto parlando del '79 piuttosto che del '78, però nessuna di quelle rappresentazioni, che sia sui diritti civili, sul Partito Transnazionale, sull'Europa, sui Refusnik o su Israele, che non sia impressa dentro di me e che non mi sia immediatamente familiare…

Forse è stato giusto farle così, raffazzonate, senza ordine cronologico, senza divisione per temi, perché questo dà il senso di una operosità piena. Rivedendole a distanza di tanto tempo, per nessuna mi viene da dire: “Avrei fatto diversamente; quella cosa era sbagliata; oggi non la farei più” e questo è un patrimonio che credo non molti possano vantare, specialmente chi è di lunga militanza in qualunque altro partito. E' forse per questo che, al di là di fantasie ed invenzioni elettorali, noi siamo forse il partito più antico del nostro Paese, che non ha mai avuto bisogno di cambiare, non solo nome, ma di cambiare la ragione di fondo, la ragione sociale per cui esiste e proprio perché ha questa tenuta e questa forza è stato il partito più libero di inventare, di anticipare, di ammonire, di fare e di praticare un tipo di organizzazione politica diversa ed altra, con una concezione diversa del territorio. Anche da questo punto di vista, quindi, è "altro" rispetto all’organizzazione comune di chi si fonda, si rifonda, si è rifondato o si rifonderà, giusto per rimanere sempre uguale, in modo tetragono a se stesso e al proprio modo di esistere e di interloquire.

La cosa più simpatica in termini di coincidenze è che, mentre stavo di fronte a questo schermo, leggevo anche una missiva al Congresso, di cui vi propongo qualche passaggio. E’ un saluto al Congresso, da qualcuno che si sente unito a noi "da un tratto che accomuna il mio modo di vivere la politica al vostro. Cerco di spiegare che cosa intendo dire.
In un sistema democratico il buon politico deve saper raccogliere il consenso intorno alle proprie idee e progetti.
Entro quanto tempo?

Molti considerano che la sola buona politica sia quella che produce il consenso maggioritario subito o almeno in tempi brevi.  Invece è buona politica anche quella che guarda orizzonti lontani, che dà il raccolto dopo anni o persino dopo decenni della seminagione. Quella che implica il saper accettare l’impopolarità. Quella che, dunque, richiede un sovrano disinteresse per il potere e un grande amore per le proprie idee, insomma, aggiungo io, una grande ambizione altra e alta.
Ecco, voi non avete mai avuto paura dei tempi lunghi o dell’essere minoranza. Voi avete sempre fatto politica solo per il fuoco che sentivate e sentite ardere dentro. Nessuno snobismo, beninteso, verso i politici del primo tipo: quelli che sanno fiutare il consenso e raccoglierlo subito in gran copia. Ma sono necessari pure, e assai più rari, quelli del secondo tipo, e forse sulla distanza sono quelli più utili al loro Paese.

Per quel che mi riguarda – dice questo compagno – non so se e quanto riuscirò ad essere utile al mio Paese in Parlamento, neppure sulla lunga distanza, ma una cosa è certa: ci sono venuto soltanto per le mie idee, buone o cattive che siano, e non per il potere.

E’ certamente che questo che il numero delle legislature che mi vedono in Parlamento è sempre un multiplo di otto. La prima fu l’ottava, questa è la sedicesima, la prossima sarà probabilmente la ventiquattresima, e non me ne dolgo per nulla.
Se la buona politica fosse soltanto quella del consenso immediato, la mia prima esperienza parlamentare tra il 1979 ed il 1983 non potrebbe che essere considerata disastrosa. Non soltanto appartenevo ad un partito di opposizione, ma ero eccentrico anche rispetto a quello, guardato un po’ come un marziano dal mio stesso gruppo. Lo ero forse un po’ meno, guardato come marziano, da quel gruppo di scalmanati accanto ai quali mi trovavo per caso ad avere il seggio su in piccionaia: i Franco Roccella, le Adele Faccio, i Roberto Cicciomessere.

Però, allora, forse, non fu inutile parlare, come nel deserto, di necessità di riconoscimento e promozione del part-time, dell’agenzia di lavoro temporaneo o del superamento del monopolio statale dei servizi di collocamento; dell’assurdità di una cassa integrazione erogata a vita, del danno prodotto dalla scala mobile ai salari reali e di altre cose ancora, che allora erano considerate eresie, a sinistra, come a destra. Fatto sta che nel giro di quindici anni tutte quelle eresie sono diventate dottrina ortodossa. E probabilmente era necessario che qualcuno incominciasse a gettare il seme molto prima che maturasse il frutto.

Oggi, comunque, non è come allora. Il Partito Democratico, alla cui fondazione ho dato e continuo a dare con convinzione il mio minuscolo contributo, è nato proprio perché, penso io, le idee buone non abbiano bisogno di quindici anni per maturare. Che poi, nel campo di mia competenza, io oggi porti le idee buone è tutto da dimostrare. Una cosa però è certa: sono idee in larga parte comuni alle vostre. Ed è per questo una grande gioia per me lavorare gomito a gomito con voi in Parlamento e nel Paese”. Pietro Ichino

Mi stupisce a volte, come dimostra questa lettera, come in fondo le persone con cui ci troviamo a lavorare per necessità, per caso o per virtù, abbiano la capacità di intuirci, di capirci, e come però, man mano che si va avanti nelle gerarchie, quando si arriva alla segreteria megagalattica, questa conoscenza si perde, non c’è.
Però, vedete, io capisco perfettamente perché Veltroni non sia venuto al Congresso, dal suo punto di vista.
Era difficile venire in questa bella sala e dire: “Sapete, era meglio Di Pietro”. Era proprio difficile.
Era difficile venire a dire: “Volevo andare da solo, poi sono andato un po’ meno solo e alla fine sono anche andato male accompagnato e adesso non so più che fare”.

Era veramente difficile venire a dire: “In qualche modo me l’avevate detto, non vi ho creduto. Soprattutto mi avevate detto che bisognava fare l’impossibile per non andare a elezioni. E mi avevate detto che la tenuta e la durata, pure di un governo impopolare, era comunque meglio di una consegna “armi e bagagli” a quello che oggi ci troviamo a vivere”.
Anche lì, caro Walter, non ci hai creduto ed hai scambiato la tua fretta con un’urgenza del Paese, che non c’era.
L’urgenza del Paese era quella di tenere, durare, con una politica forse impopolare, ma che aveva in sé i germi, complessi, per carità, cacofonici, per produrre altro nel nostro Paese che la produzione, innanzitutto culturale, e non solo, che ci viene invece propinata a piene mani.

Certo, era difficile per te Walter.
Solo che, prima o poi, da qualche parte lo dovrai dire. Intanto dire a te stesso, che forse è la cosa più difficile. Perché altrimenti ti troverai semplicemente a rincorrere un populismo che non porta da nessuna parte. Porta forse solo a un rafforzamento, credo, degli avversari.

Vedete, noi siamo dei referendari della prima ora, ne ha parlato Spadaccia, e abbiamo un minimo di consapevolezza di che cos’è un referendum, quando non si può fare, l’abc, insomma, sulle leggi di spesa e su quelle fiscali. La Costituzione dice infatti che non ammesso referendum per le leggi tributarie e di bilancio.

Ed allora questo referendum su cosa lo facciamo? Sul grembiule?
Lo dico perché per trent’anni ci avete raccontato che i referendum si fanno solo sulle grandi questioni di principio e che quindi non vanno bene quelli sulla giustizia, non vanno bene quelli sull’economia e neppure quelli sull’energia. Poi però ci proponete quello sul grembiule. Adesso, abbiate pazienza, ma ci sarà pure un limite. Anche perché nel frattempo ci avete messo del vostro a svuotare di efficacia, come a destra peraltro, questo istituto. Ci avete messo veramente del vostro, a volte direttamente, spesso per interposta persona, attraverso la cupola della Corte Costituzionale, altre volte chiamando all’astensionismo, altre volte fissando la data del referendum il 15 giugno, giusto perché non si può fare per legge il 15 luglio, sennò ce lo mettevate il 15 agosto, che così andavamo tutti meglio. Ci avete messo del vostro a svuotare uno strumento che era nella sua dizione letterale, nella sua interpretazione costituzionale, non uno strumento populista, come rischia di diventare, ma uno strumento, la “seconda scheda”, come noi la chiamavamo, di espressione politica dei cittadini italiani.

Questa “seconda scheda” non vi è mai piaciuta, perché in un modo o in un altro disturbava chiunque fosse, come dire, alla barra in quel momento.
Certo, viviamo tempi di grandi convulsioni, in cui si cambia idee veramente nel giro di un soffio.
A me fa impressione, per esempio, che i più grandi euroscettici, nostrani o europei, nel giro di ventiquattr’ore sono diventati degli eurofili a tutto spiano, che se non c’è l’Europa non riescono più neanche a dire: “Buongiorno”. Parlo di quelli che, fino a ieri, l’altro ieri, parlavano dell’Europa dei burocrati, l’Europa dei cattivi, mentre oggi sono quelli che, quando conviene, dicono: “lo dice l’Europa, lo fa l’Europa”.

Certo in casi di emergenza noi non siamo gente del “tanto peggio, tanto meglio”. Noi siamo gente che si assumerà delle responsabilità per far fronte ad una situazione certamente difficile. Però ci sia concesso per lo meno di dire che pur facendo fronte, partiamo da analisi e da concezioni diverse.
Se è lecito dire, in questa Italia di piaggeria totale, con grande rispetto al ministro Tremonti che c’ha rotto per otto mesi sostenendo che il problema arrivava dalla Cina e che l’invasione cinese e che la globalizzazione accelerata, eccetera, eccetera, eccetera.

Peccato. E' arrivato da un’altra parte!
E nel frattempo, meno male che la Cina c’è, e con lei alcuni altri.
Ci avete detto per mesi "meno male che la Finanziaria è stata fatta a luglio" … Peccato che fosse una Finanziaria che prevedeva un periodo di espansione economica, che puntualmente non si è avverata. Non bisognava essere proprio dei geni per capire che una crisi finanziaria avrebbe portato e avrebbe avuto conseguenze economiche. E’ una Finanziaria che prevede, salutate in pompa magna da Confindustria e quant’altri, la detassazione degli straordinari. Ma chi li fa gli straordinari in questa situazione, se il grande problema sarà che tutti andranno in cassa integrazione? E' una Finanziaria sulla “Robin Tax” ai petrolieri. Auguri. E' una Finanziaria di abolizione dell’Ici, ma io non ho mai capito perché, per esempio, gente che ha il mio reddito non debba pagare l’Ici. Mi è sempre sfuggito, così come mi sfugge perché io non debba pagare i ticket.

Ci avete detto che era una Finanziaria che prevedeva e allora, in termini di previsioni, ho l’impressione che forse sarebbero stati utili un pò meno arroganza e un pò più di attenzione a chi, con qualche cognizione di causa, diceva: “Badate, le economie non sono emergenti, sono già emerse, ed è bene che ne prendiamo atto, nel bene e nel male, perché possono evidentemente porre dei problemi, ma sono anche delle opportunità. Anzi, meno male che gli imprenditori italiani, senza ascoltare catastrofismi di tutti i tipi, in questi paesi sono andati. Meno male, perché se aspettavano Tremonti: Dio, Patria, famiglia e quant’altro, credo che non saremmo andati, né loro né noi, da nessuna parte.
Ma è così. “Siamo in declino culturale”, dice, “perché abbiamo perso le radici giudaico-cristiane”.

Ora io, con tutto il rispetto, vorrei dire che forse se guardassimo un pò di più a qualche ramo, a qualche foglia, a qualche frutto, cioè guardassimo avanti invece di far politica sempre con il retrovisore, non sarebbe male, anche se è più difficile.
Questa non è una crisi del mercato. Io vorrei che riflettessimo. Questa è una crisi nel mercato. Il mercato è una cosa seria, una cosa non solo fatta di regole e di controlli, ma fatta anche di altre cose: di lealtà, di trasparenza, di affidabilità, di credibilità. Quando queste cose vengono violate, il mercato si vendica perché, badate, sarà che non ci sono abbastanza regole, ma è anche un problema di management individuale. Com’è che con le stesse regole, con gli stessi sistemi di monitoraggio, Lehman Brothers fallisce e J.P. Morgan no? Forse perché qualche management più serio, meno scriteriato, più attento, appunto, al consumatore e al cliente, piuttosto che alla cupidigia personale, ha posto al servizio del mercato quegli elementi che altri nella loro irrequietezza hanno preferito sorvolare.
Quindi questa non è una crisi del mercato, ma nel mercato.

Invece sento improvvisamente dire che il mercato non esiste più. La competizione è diventata una parolaccia, vogliamo aiuti di Stato: le banche, le auto, i frigoriferi, i formaggini, i Danone. Tutto. In ventiquattr’ore abbiamo perso la trebisonda. Penso invece che è compito nostro, non da oggi ma da tanto tempo, tenere i nervi saldi e alcune concezioni di fondo che ci hanno guidato e salvato in questi trent’anni.
Per questo, e nonostante tutto, bisogna che continuiamo ad essere cocciutamente liberali, rigorosamente laici, convintamente europeisti.

Non sarà facile. Già essere liberali in questo Paese non è stato facile mai. C’è stato un periodo negli anni ’70 che solo dirsi liberali era a metà tra la parolaccia e l’insulto, poi c’è stato un lungo periodo più recente in cui a parole erano tutti liberali, ma a condizione di non farlo mai e di non applicarlo mai. Il merito poi, ai convegni della domenica andava alla grande. Dal lunedì al venerdì era più complicato, era meglio affidarci a sistemi che già capiamo.

Vedete, io non ne posso più del dialogo interreligioso, di quello interculturale, poi, non ne parliamo proprio.
A me interesserebbe un dialogo inter-laico, perché esistono i laici in altre religioni e quello che ci dobbiamo sforzare di fare, semmai, è di creare le sedi, le modalità, il punto di raccolta, semmai, di un dialogo inter-laico, no di un dialogo interreligioso che tranquillamente possiamo lasciare ad altri. Poi, siccome non sappiamo bene manco cosa vogliamo dire, lo chiamiamo interculturale, perché quando uno non sa bene di che parla, lo piazza sotto il titolo cultura e abbiamo fatto.
Ora, questo è il mondo che ci circonda, in cui ci si muove a razzo in una situazione confusa, contraddittoria e che diventa ansiogena. Tant’è vero che tra un G4, un G7, un G18, un bilaterale, un G20, un vertice Europa-Asia, una bilaterale Italia-Turchia, una bilaterale Europa-Russia, è diventato tutto così ansiogeno, che i mercati giorno per giorno non ci credono e continuano ad oscillare in base ad altre logiche, ma certamente non in base a vertici o a controvertici.
Scopriamo finalmente che ci vuole una nuova “Bretton Woods”.

Io mi auguro, poiché ne sono convinta, che tutti siano consapevoli delle rinunce che questo comporta, soprattutto per chi ha a cuore, e non siamo noi, bandiere nazionaliste e nazionalismi di tutti i tipi.
Per cominciare: una nuova “Bretton Woods” non potrà consentire che la Banca Mondiale sia tradizionalmente americana e il Fondo Monetario tradizionalmente europeo. Già fu. Ci saranno altri che proveranno a dire: “Scusate, non è che le regole le fate voi, poi ci mandate una e-mail”. Non funziona più così. Forse chi lo propone deve avere coscienza che, attualmente, nel Fondo Monetario la Cina conta meno del Benelux e forse non può continuare così. Persino gli Stati Uniti contano al Fondo Monetario e dettano legge perché tengono una quota di voto del 20%.

Non sarà più così e chi pensa semplicemente che il nuovo presidente americano, magari Barack Obama, risolverà tutti i nostri problemi, compresi quelli degli europei, è proprio qualcuno che vive su Marte e non ha la più vaga idea di una storia, di una cultura, ma anche di priorità, di preoccupazioni evidenti che si troverà a gestire chiunque sarà il nuovo presidente, che tutto avrà di cui occuparsi, meno che dell’Europa. E' ora che l'Europa, da adolescente e forse grazie anche a questa crisi, finisca finalmente per diventare adulta e assumersi le responsabilità che le competono.

Quindi viviamo un mondo in assoluto movimento, che molti non hanno voluto vedere, che hanno demonizzato, dagli antiglobal a quant’altro, senza porsi invece il problema che questo nuovo mondo andava forse governato e che demonizzare quello che succede francamente non porta da nessuna parte. Questo però non abbiamo lo fatto, né con la comunità delle democrazie né con altri strumenti. Ci siamo, come dire, in qualche modo fermati ad aspettare, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore abbiamo pensato che la paura poteva essere un grande strumento elettorale, solo che non è un grande strumento di governo.

Abbiamo spinto un Paese ad aver paura di tutto: della Cina, degli immigrati, dei fondi sovrani, delle prostitute. Insomma, una roba in cui sembrava che in Italia uno non può più uscire di casa perché non so, ci si vuole male tra di noi. Scopro improvvisamente che un giovane ministro che deve farsi le ossa, a cui facciamo ovviamente molti auguri, decide niente di meno che risolvere un problema millenario, che ci accompagna da sempre, che è quello della prostituzione. Vasto programma. Possiamo giusto che farle degli auguri. La soluzione c’è. Basta mettere in galera tutti: clienti, consumatori,.basta un piano per nuove carceri.

Però è una vecchia storia. Già dovevano andare in galera tutte quelle che erano costrette ad abortire clandestinamente, poi dovevano andare in galera tutti quelli che divorziavano, poi dovevano andare in galera tutti quelli che fumavano uno spinello. C’è da chiedersi chi ancora avrebbe camminato per strada, vista la situazione del nostro Paese!
Se questa è la situazione, davvero non so come andrà a finire. Devo dire che questa vicenda Alitalia è veramente l’emblema, la metafora di tutto quello che non si dovrebbe fare in questo Paese. All’insegna dell’italianità sono state dette delle bugie colossali, cioè che dobbiamo avere una compagnia italiana per attrarre turisti. Ma sé è una compagnia nazionale Roma-Milano-Roma! Soprattutto non abbiamo detto una cosa: cari cittadini avremo un’Alitalia di passaporto italiano, nel frattempo le perdite sono anche loro italiane, nel senso che sono vostre. Quindi sono di tutti gli italiani. I profitti saranno di alcuni, le perdite di tutti, perché noi siamo certamente gente, come dire, che ha un rapporto diretto con il popolo.

Oggi non so come andrà a finire e non voglio neanche più seguirne gli sviluppi. Altro fatto emblematico riguarda il terrore per i fondi. Poi scopri che siamo andati pure in Libia a chiederli, e infatti li abbiamo ottenuti. Siccome però non bastano solo per Unicredit, ora li vogliamo per Telecom. Poi andremo in Cina a cercare qualche lira, e anche lì la competizione è forte perché c’è la lista d’attesa a Pechino. Ma erano i famosi fondi sovrani che, per carità, non dovevano venire.
Persino nel mio Governo ho perso la battaglia sulla italianità, come si dice, di Autostrade. Manco se le autostrade uno le prende e le sposta in Spagna. Le autostrade lì rimangono. Magari potevamo persino sperare che con un management ed un capitale diverso potessero diventare vagamente più efficienti, magari con degli autogrill all’altezza dei tempi. Ma siamo italiani e quindi l’italianità è la nostra.

Ci sono voluti diciannove giorni di occupazione per avere il giudice della Corte Costituzionale, “x” giorni di scioperi della fame e della sete per avere quello che in un Paese normale, in fondo, non andava neanche chiesto.
Non siamo neanche a metà, perché certamente la Commissione di Vigilanza ancora è nella notte dei tempi, e a me stupisce davvero, perché dà poi il senso della differenza.

Noi abbiamo raccolto la maggioranza assoluta per una convocazione ad oltranza, e quello che mi è spiaciuto non è tanto che la destra poi non venisse, il loro non senso delle istituzioni mi è chiaro, quello che mi è spiaciuto è che ad un certo punto ci fosse un sms del mio segretario di gruppo Pd che diceva: “E’ inutile venire, non c’è l’accordo”.
Quanto sarebbe stato diverso invece aver avuto il pieno, come si dice, di un’opposizione democratica presente a fare il suo dovere in assenza totale della controparte. Io credo sarebbe stata non solo una bella fotografia, ma soprattutto un dato di identità. Quello che mi preoccupa è che il senso delle istituzioni poco ci sia a destra e magari neanche tantissimo a sinistra. Questo mi preoccupa in qualche modo di più.

Io credo che il nostro lavoro nel gruppo sia importante e credo che molti dei colleghi deputati e senatori del Pd lo apprezzano e ne apprezzano in modo congiunto la consistenza di proposta, la disciplina, il senso di lealtà. Io credo che queste cose siano apprezzate, anche perché sono apprezzabili. La nostra non è una resistenza passiva, non stiamo lì ad aspettare che passi un cadavere, di chiunque esso sia. E’ una resistenza operosa. E’ una resistenza piena. Abbiamo fatto proposte sulla giustizia, sull’energia, sul clima, sui diritti civili. Valeria ricordava la questione al femminile, che è altro portato, non è solamente la questione in sé; è quello che c’è dietro, quello che vuole dire, anzi, una parentesi, io faccio tutti i miei migliori auguri a Giulia Innocenzi, spero che vinca. Però una cosa vorrei Giulia, che se per caso vinci, la sezione giovanile la sciogli il giorno dopo, perché questo è veramente qualcosa che grida vendetta a qualunque idea. Me l’ha suggerita una compagna che parlerà dopo. Non è una battuta, ma è vero. Ancora siamo qui con le sezioni femminili, quelle giovanili, quelle maschili, quelle degli anziani, quelle dei malati, quelle dei divorziati. No, ragazzi, fermi.
Forse un partito politico è un partito dei cittadini in quanto tali, che si organizzano in modo forse un pò meno stereotipato di come ci volete proporre.

Credo che il nostro lavoro, dicevo, all’interno del Parlamento sia apprezzato, non solo dai nostri compagni, ma anche dagli avversari. Il problema nostro è che invece non c’è contatto di partito, cioè noi facciamo le nostre iniziative, piacciono, non piacciono, nessuno ci pone particolari vincoli. Ma quello che non c’è è una sinergia ed un dialogo di partito, del guardare a medio termine. Io lo dico, senza arroganza, a Walter Veltroni e ad altri. Penso che sia da parte vostra uno sciupio. Penso che siate voi a perdere un’occasione, per arroccamento vostro, non perché noi siamo degli identitari. Non è quello. Noi non abbiamo mai avuto paura di contaminazioni, proprio perché siamo consapevoli e coscienti delle poche, grandi cose in cui crediamo. Siete voi che vi arroccate, come se la contaminazione vi potesse far sfuggire non si sa che cosa e mi sembra per voi una grande perdita. Ma, come è stato detto, non molleremo fino all’ultimo momento utile, fino all’ultimo momento possibile.

Certo non riusciamo a parlare al Paese, ma non riusciamo a parlare, Walter, perché io, noi tutti ci rifiutiamo categoricamente di usare la scorciatoia del populismo per parlare al Paese.
Guarda, io potrei fare un’intervista dietro l’altra, ogni giorno, se decidessi che devo attaccare Walter Veltroni. Se io decidessi una microconflittualità permanente, giornaliera, di cui posso avere ragioni od occasioni, ti assicuro che almeno a destra andrei fortissimo.

Quindi non è che non conosco la tecnica, è che non lo voglio fare. Non è questo il problema. Come non l’ho voluto fare quando ero ministro del Governo Prodi e mi sono rifiutata categoricamente di uscire dal Consiglio dei Ministri per parlare ai retroscenisti o per scendere in sala stampa semplicemente a buttar fango su quello che era stato deciso. Perché esiste, appunto, un progetto politico che abbiamo in testa e normalmente siamo persone che si sforzano di dire quello che pensano e di fare quello che dicono. Merce rara.

Vedete, io non sono molto brava, non capisco mai molto, e neanche troppo interessata ad infilarmi nel cicaleccio italiano. Spesso quando leggo i giornali la mattina c’è l’intervista di quello o di quell’altro. Io non capisco a chi parla. Sono tutti messaggi criptici. Certamente non parlano al poveraccio che ha comprato il giornale. Una volta mi ha chiamato mio fratello, mi ha detto: “Ma perché non si telefonano? Perché io non ho capito niente”. Ed ha ragione. Io spesso non li so leggere, quindi me ne tengo un po’ fuori, anche perché non mi sembra davvero così utile, come dire, un intervento un po’ stantio nel panino del Tg1, per esempio.

Mi sembra che sia più utile percorre la strada di una resistenza operosa, paziente, cocciuta, propositiva e, come ho detto, ci siamo sforzati su tutti i temi che nel Parlamento, e non solo, abbiamo potuto inventare. Si tratta a volte delle pepite che non vengono riconosciute. Ad esempio, questa storia dell'anagrafe degli eletti e dei nominati è davvero la pepita della trasparenza, di quello che può fare la differenza. No, dice, adesso mettiamo la multa. No, non è una questione di multa, abbiate pietà. Forse il deterrente migliore è quello della trasparenza, quello della conoscenza, quello della accountability, direbbero gli inglesi, cioè quello di rispondere del perché uno sta lì a fare che cosa. Poi sarà il cittadino a valutare se è stato meglio investire le energie per fare una notte in aula o diciannove di occupazioni piuttosto che venti interrogazioni parlamentari. Ma, insomma, il modo di vivere e di lavorare nelle istituzioni anche quello può essere invenzione, può essere nonviolenza, può essere mille cose oltre che la tecnica parlamentare.

E questo è quello che siamo tenuti a fare senza scorciatoie, senza populismi, in una situazione in cui davvero essere cocciutamente liberali o rigorosamente laici, per non dire europeisti o federalisti, diventerà, a mio avviso, sempre più difficile, perché non sono né contenuti né parole d'ordine comuni negli schieramenti politici.

E' questo che io credo sia utile, come diceva Ichino, al Paese e per parte nostra faremo di tutto perché non ci metta quindici anni a maturare, anche se, come sempre ci ricorda Marco, le nostre battaglie sono decennali. E' come se fosse un destino, non so quanti anni, ma ne sono occorsi più di dieci sul divorzio, altrettanti sull'aborto, dieci sulla pena di morte. E' come se fossimo legati a seminare, e quando si vince difficilmente si riconosce, come dire, il promotore. E' una vittoria di tutti. Le sconfitte, sono un po' meno generose. Siamo contenti che sia così, ma ci si riconosca per lo meno, e lo dico soprattutto a sinistra, la forza delle idee, la capacità di tenere, il rifiuto delle scorciatoie, anche quando possono immediatamente dare dei ritorni, perché riteniamo che siano e possano essere ritorni avvelenati, non tanto per noi quanto per il Paese.

Noi chiediamo solo che di noi si faccia uso senza essere demonizzati, oppure con tentativi, che ve lo diciamo subito, non riusciranno: quello della omologazione, quello dell'assorbimento. Se è questo il vostro obiettivo mettetevi tranquilli, non vi riuscirà.

Quello che invece potremmo volere insieme è costruire un'alternativa laica, democratica nel nostro Paese, senza, come dire, impiccarci all'ultima battaglia di turno o all'ultimo slogan popolare o populista di turno.
E alla destra vorrei solo dire che in fondo governare, o comunque avere il potere, coincide con responsabilità, e che chi più ne ha, più deve dare il segno e il senso del saperlo usare, senza eccessive arroganze, senza prevaricazioni, ma con un'attenzione che ad oggi non vediamo per le dinamiche e le dialettiche, che ogni sistema necessita, di controlli e di equilibri.

Ci aspettano quindi tempi non facili, ma forse le fotografie che circolano fuori ci possono aiutare per lo meno non solo ad avere coscienza di noi, questa sala dimostra che nonostante tutto coscienza di noi ce l'abbiamo, ma forse ci può dare la forza di andare avanti in modo operoso con queste piccole pepite che possono diventare e sono dei gioielli. Lo è l'anagrafe degli eletti. Lo è la strada che abbiamo scelto ed individuato nella confusione generale da una parte e dall'altra, per esempio sul clima e sull'energia. Lo sono quello che abbiamo individuato sulla giustizia, a partire, appunto, dall'arbitrarietà dell'azione penale e non solo. Lo sono quelle nuove e antiche che abbiamo portato avanti, quelle dei diritti civili, per esempio.

Tenere i nervi saldi.
Tenere la bussola, con una indicazione precisa.
Io sono sicura che è quello che ci conviene, pur nelle difficoltà, proprio per essere pronti in ogni momento a cogliere le occasioni che si possono presentare, perché un passo avanti in questa direzione possiamo contribuire a darlo.
Grazie

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MAGDA NEGRI

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