ORVIETO, 28-29 NOVEMBRE 2009 – Relazione di Enrico Morando
Quando, terminata la II guerra mondiale, i costituenti italiani iniziarono il lavoro di elaborazione e confronto che sarebbe sfociato nella Costituzione del '48, essi ebbero la capacità di assumere a riferimento – meglio, a ineludibile quadro d'insieme – il nuovo ordine internazionale (Giorgio Rebuffa lo ha chiamato, nel recente convegno di Le Ragioni del Socialismo e Mondoperaio, equilibrio imperiale) che veniva costruendosi in quegli anni attorno alle due grandi potenze vincitrici.
Fu in quell'equilibrio imperiale che i principali partiti politici trovarono solide fondamenta per la loro contrapposta legittimazione. E fu quell'assetto internazionale a svolgere una funzione ordinatrice della politica nazionale italiana, al punto che solo coll'89 si crearono le condizioni di base per la trasformazione del nostro sistema politico in una "europea" democrazia dell'alternanza.
Ora, si riflette troppo poco al fatto che una delle ragioni di debolezza e confusione dei tentativi di riforma costituzionale sviluppatisi negli ultimi venti anni consiste esattamente nell'assoluta incertezza del quadro di riferimento internazionale. Da un lato, non c'è (e non è detto che sia un male) un "nuovo equilibrio imperiale" già bello e fatto, dentro cui collocare il Paese e i suoi fondamentali attori politici. Dall'altro questi ultimi – i partiti – utilizzano strumentalmente ogni passaggio tattico di questo processo di ricerca di un nuovo equilibrio e, dando per definitivo ciò che presto si rivela effimero e provvisorio, accrescono in proporzione diretta il livello di instabilità e precarietà del quadro politico-istituzionale italiano.
Emblematica, a questo proposito, la vicenda della altalenante strategia del centro-destra di Berlusconi nel tentativo di collocare se stesso e il Paese nel mutato e mutante contesto internazionale. Dopo l'89, tutti considerano certo il consolidamento di un nuovo equilibrio mondiale attorno alla iperpotenza vincitrice: la "fine della storia". Anche approfittando di un riflesso condizionato di tanta parte del centro-sinistra italiano – antiamericano per pregiudizio – Berlusconi sdraia la politica estera del Paese sull'unipolarismo di Bush. Un po’ perché pensa che sia comunque vincente, un po’ perché gli serve per prendere le distanze da governi europei che lo guardano con diffidenza (se non con esplicito fastidio), un po’ (molto) per utilizzare a prezzo modico le difficoltà dell'Unione di centro-sinistra, sottoposta al ricatto delle sue componenti "comuniste".
Quando il centro-sinistra – con la nascita del PD – si emancipa dall'antiamericanismo pregiudiziale della vecchia sinistra e, soprattutto, quando Obama impone una svolta all'approccio degli Stati Uniti al tema del nuovo ordine internazionale, Berlusconi si ritrova senza un solido ancoraggio per la sua politica internazionale. Svolta così in direzione non del multilateralismo fondato su di una speciale relazione tra Europa e USA, ma del multipolarismo disordinato, scegliendo la relazione speciale con la Russia di Putin, la cui costruzione viene sostanzialmente appaltata all'ENI (con le necessarie ricadute "libiche").
Al di là dei tatticismi, dunque, ciò che emerge è che manca – per un credibile e concludente processo di riforma del sistema politico-costituzionale italiano – un riferimento certo al nuovo quadro internazionale, dopo la fine del bipolarismo e oltre la crisi dell'unipolarismo post-'89.
Se noi riformisti vogliamo dotarci – qui ed ora – di una credibile strategia per chiudere la transizione infinita, dobbiamo quindi in primo luogo fornire una risposta credibile alla seguente domanda: tra le alternative realistiche in campo, per quali nuovi equilibri e governance internazionali e per quale collocazione del Paese nel contesto globale intendiamo utile e giusto lavorare?
Le alternative realistiche sembrano soltanto due: G2 (Stati Uniti e Cina) o G4 (Stati Uniti, Cina, Europa e Giappone)? Secondo molti analisti, l'Unione Europea avrebbe perso – nella gestione della recessione mondiale – l'ultima chance per essere protagonista della governance globale. Il protagonismo cinese nei negoziati globali in corso – da quelli bilaterali in materia economica fino a quelli multilaterali in materia di ambiente e commercio mondiale – fornisce solide basi a questo giudizio, ma la realtà dei rapporti di forza globali e la stessa volontà che emerge dai discorsi di respiro strategico del Presidente Obama dimostra che c'è spazio per una governance globale basata su di uno schema che includa l'Unione Europea: troppo esteso e complesso il G20, è il rapporto speciale di cooperazione e concertazione tra i quattro Grandi a potergli fornire una guida stabile e un duraturo equilibrio. L'Europa, grazie all'Euro, alla sua superiore stabilità economica e all'equilibrio della sua bilancia esterna, fonda la sua aspirazione al protagonismo nella nuova governance globale su basi assai solide, ma ha scarsa o nulla capacità di parteciparvi attivamente, se non conclude il processo di autoriforma istituzionale, così da semplificare e rendere più efficace il suo processo di decisione. La vicenda delle nomine del Presidente del Consiglio e dell'Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dimostra come l'arretratezza del processo di costruzione dell'Europa politica finisca per deprimere altri formidabili fattori di forza: gli equilibri valutari globali dipendono ormai anche dall'Euro, non solo dal dollaro; e il recente rafforzamento della moneta europea ha fatto sì che, per la prima volta, le dimensioni economiche dell'Eurozona siano maggiori di quelle degli Stati Uniti.
In questo contesto – nel quale i fattori di stabilità e di forza economica, sociale e monetaria dovevano essere chiamati a compensare la debolezza politica – l'Unione Europea aveva bisogno di un grande Presidente del Consiglio: Tony Blair era il candidato più forte. Ma le due principali nazioni lo hanno avversato proprio per la sua forza, mentre lo stesso schieramento progressista europeo – il PD italiano e i partiti del PSE – non lo hanno mai considerato come il "loro" campione, così condannandosi all'ininfluenza.
Servono, in primo luogo, veri partiti europei, che oggi non esistono. E serve – dal lato del centro-sinistra – un vero partito europeo di orientamento "europeista". Alla prima prova, il Gruppo dei Socialisti e dei Democratici ha dato luogo ad una performance davvero imbarazzante: PSE unanime per D'Alema. Otto capi di governo socialisti su otto a favori di Ashton. E le giustificazioni postume di Schulz sono – se possibile – pezze peggiori del buco.
Mentre il PDL – dall'altro lato – vanta la sua collocazione nel PPE, ma orienta la sua politica verso una partnership speciale con l'autocrazia russa, ciò che rende il Paese nel suo complesso sostanzialmente estraneo al nocciolo – G2 o G4 – della battaglia aperta per la nuova governance globale.
Anche in Italia, quindi, su entrambi i lati dello schieramento politico, è aperto (e non risolto) il problema di costruire partiti politici che facciano della dimensione europea l'architrave della loro visione sul futuro del Paese e sulla sua collocazione nel nuovo mondo che sta nascendo dalla crisi dell'unipolarismo post-'89.
Si deve trattare di partiti politici che: a- debbono avere la forza politica necessaria per riconoscersi reciprocamente legittimità; b- debbono avere grande potenza riformatrice.
La prima, è indispensabile per vincere i formidabili interessi economici, sociali e politici che operano per mantenere sostanzialmente intatto il carattere del Paese come Paese profondamente "diviso", nel quale la debolezza della politica nasce dalla profondità delle fratture culturali, sociali e territoriali. I costituenti del '48 adottarono, per la costruzione della democrazia in un Paese così profondamente diviso, una netta distinzione tra assetto istituzionale e maggioranze di governo, così che la corresponsabilità costituzionale – come ha scritto recentemente Claudio Petruccioli su Le Ragioni del Socialismo – potesse convivere con lo scontro durissimo tra partiti di (permanente) governo e partiti di (permanente) opposizione. Questa distinzione non regge più, almeno dalla fase della maggioranza di solidarietà nazionale, ed è definitivamente stata superata con l'ingresso del Paese nel novero delle democrazie maggioritarie e dell'alternanza. Da allora, la Costituzione è diventata oggetto dell'immediato conflitto politico, con l'aggravante che lo strappo, in sé più che positivo, del maggioritario ha intaccato la credibilità dell'intero sistema delle garanzie, disegnato sul proporzionale.
La seconda caratteristica – una potenza riformatrice ben più grande di quella di cui hanno dato prova fin qui – è invece necessaria ai fondamentali partiti politici italiani perché l'Italia, per potersi credibilmente proporre di partecipare da protagonista alla costruzione dell'Europa e alla promozione di un suo ruolo nella nuova governance globale, deve cambiare profondamente.
Su entrambi i fronti, la nascita del PD nel centro-sinistra e del PDL nel centro-destra ha determinato un'enorme novità, tale da abbozzare i termini essenziali di un sistema politico capace di superare quello che De Giovanni ha definito come caratterizzato, contemporaneamente, da consociativismo compromissorio e delegittimazione reciproca.
La lunga fase apertasi a metà degli anni '80 – quella della partitocrazia senza partiti – sembrava robustamente avviata al suo superamento. Lo sgangherato bipolarismo, fondato su coalizioni disomogenee e frammentate, evolveva verso un modello di tipo europeo: bipolarismo tra coalizioni a partito dominante.
Nel centro-sinistra, in particolare, la nascita del Partito Democratico – e la scelta che Veltroni annunciò proprio qui ad Orvieto, nella nostra Assemblea, di puntare ad affermare la vocazione maggioritaria del nuovo partito riformista – segnava l'esito di un conflitto tra due diverse (e in larga misura opposte) visioni della prospettiva politica del Paese.
La prima è quella alla cui elaborazione, nel tempo, hanno fornito un contributo importante quanti si sono raccolti in Libertàeguale: un maturo bipolarismo organizzato – dal nostro lato – attorno ad un grande e unitario partito dei riformisti italiani, dotato di vocazione maggioritaria perché assume direttamente su di sé – sul suo profilo ideale e programmatico, sulla sua leadership individuale e collettiva, sul suo radicamento sociale e territoriale – il compito di rappresentare l'interesse della maggioranza degli italiani, in una strategia di radicale cambiamento del Paese, che rompa le incrostazioni burocratiche e corporative che ne soffocano le potenzialità. Una strategia che può realizzarsi solo attraverso un rafforzamento del Governo, legittimato direttamente dal voto degli italiani, in un sistema di pesi e contrappesi che esalti la capacità di controllo e controproposta dell'opposizione, tuteli l'autonomia e la libertà degli organismi di controllo, preservi dalle invasioni della maggioranza politica pro-tempore il terreno delle libertà degli individui e l'autonomia dei corpi sociali.
La seconda è quella di chi pensa che l'Italia non è fatta per queste soluzioni radicali. Secondo questa visione delle cose, l'Italia può tollerare il bipolarismo, ma solo se lo annacqua con robuste dosi di proporzionale. Cioè, se è bipolarismo debole, tra coalizioni iperframmentate. Il Governo nasce in Parlamento. O, comunque, il Parlamento può far nascere Governi diversi da quelli proposti agli italiani al momento del voto. Quindi, il Governo è debole, in Parlamento, nel rapporto con gli altri poteri, nel Paese. Può durare e guidare il Paese, solo se non prende di petto le resistenze conservatrici delle burocrazie e delle corporazioni, troppo forti per essere sfidate in campo aperto da una strategia che tragga la sua forza dall'essere stata proposta in partenza agli elettori e dall'avere ricevuto il consenso della maggioranza. In questa seconda prospettiva politica, le relazioni tra i due schieramenti tendono ad ispirarsi – cambiato quel che c'è da cambiare – a quel consociativismo compromissorio e a quella reciproca delegittimazione che De Giovanni considera uno dei tratti dominanti della fase calante della 1ª Repubblica e della lunga e incompiuta fase di transizione che allora si è aperta.
A ben vedere, la polemica contro il "Partito d'azione di massa" che si è riproposta anche nel recente dibattito interno al PD è sintomo della persistenza del conflitto tra queste due visioni. Nel centro-sinistra, ma anche nel centro-destra, giacché risulta chiaro che il prevalere dell'una sull'altra in uno dei due soggetti del bipolarismo non può non avere ricadute dirette ed immediate nell'altro campo.
Così fu, nel 2007, quando i tre milioni e passa di cittadini costituenti del PD spinsero Berlusconi a salire sul predellino, e a far partire l'operazione PDL. Con le conseguenze – in termini di superamento della frammentazione, di semplificazione del quadro politico e di potenziale rafforzamento delle condizioni di stabilità del governo e di credibilità dell'opposizione – che sono fisicamente rappresentate nella composizione del Parlamento uscito dalle Politiche del 2008.
Il fatto è però che – a distanza di meno di due anni – l'evoluzione del sistema politico verso la prima prospettiva sembra interrompersi e regredire. Come ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di qualche giorno fa, "prosegue il lento disfacimento della trama bipolare. Forse scopriremo in seguito che il bipolarismo ha rappresentato una parentesi nella storia repubblicana". Panebianco fa derivare questo suo giudizio dalla crisi del PDL, indotta dalla crisi del suo leader "costituente", Silvio Berlusconi. Ma prosegue mettendo in evidenza che "il tramonto del bipolarismo susciterà potenti spinte centrifughe dentro lo stesso Partito Democratico". Non solo perché, come scrive Panebianco, "sarà durissima governare con forti divisioni interne, con l'ingombrante alleanza del populismo autoritario di Di Pietro e con una parte assai significativa del Nord all'opposizione", ma anche e soprattutto perché potrebbe rivelarsi esiziale, per il PD concepito come partito a vocazione maggioritaria, la constatazione di molti circa la maggiore convenienza dell'essere alleati del PD, che parte integrante dello stesso partito. Sarebbe bene non dimenticarci che quelle che ci saranno tra qualche mese sono elezioni regionali: un'occasione perfetta per chi volesse nascondere dietro l'unità nel sostegno al candidato Presidente del centro-sinistra la disgregazione della rappresentanza in liste e listine parapersonali e di piccoli gruppi di potere.
Dunque, un credibile rilancio della strategia per riforme Costituzionali, istituzionali ed elettorali, che consentano il cambiamento di cui il Paese ha bisogno, passa per il rilancio – nel PD e nel centro-sinistra – della battaglia politica per riaffermare la prospettiva del bipolarismo che chiamerò "forte" (a questo punto dovrebbe essere chiaro cosa intendo), rispetto a quella del bipolarismo debole o del completo travolgimento del bipolarismo.
A questo battaglia ognuno di noi può partecipare – anche grazie allo strumento costituito da un'Associazione come LibertàEguale – libero dal condizionamento rappresentato dal suo impegno in un partito del centro-sinistra, nel PD e, all'interno dello stesso PD, per il sostegno all'una o all'altra mozione congressuale. Io, nel Congresso, ho sostenuto con tutto l'impegno di cui sono stato capace la mozione Franceschini. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che – anche a causa di ambiguità ed incertezze dei principali protagonisti di quel Congresso – ci sono amici e compagni che hanno fatto altre scelte congressuali considerandole non solo compatibili, ma addirittura più coerenti della mia rispetto all'obiettivo della costruzione, anche in Italia, di quel partito riformista a vocazione maggioritaria che non c'è mai stato. Altrettanto, e a maggior ragione, si può dire di quanti partecipano alla vita di LibertàEguale – ed intendono continuare a farlo – ma hanno per ora scelto di non iscriversi né al PD, né ad altri partiti del centro-sinistra.
Con i colleghi della Presidenza, abbiamo convenuto di assegnare a questa Relazione introduttiva il compito di delineare le architravi di un posizionamento riformista in tema di Costituzione ed istituzioni, lasciando al decalogo elaborato da Stefano Ceccanti e diffuso nei giorni scorsi e, soprattutto, agli interventi che seguiranno l'onere di indicare puntuali soluzioni ai problemi aperti.
Innanzitutto, un chiarimento sulle cause di fondo delle sconnessioni e delle contraddizioni costituzionali che giacciono, irrisolte, nell'agenda politica del Paese da un ventennio (e, forse, da prima, se la Commissione Bozzi è del 1983). Il sistematico riproporsi del conflitto politica-magistratura induce molti a ritenere che, in fondo, tutto sia cominciato con Tangentopoli (l'arresto di Mario Chiesa è del 17 febbraio 1992). Sul fatto che il nodo del rapporto tra politica (Parlamento-Governo) e organi di controllo e di garanzia (giudici, magistrati inquirenti, Corte Costituzionale) si proponga come uno dei fattori di squilibrio fondamentali – e che come tale vada affrontato – non c'è dubbio alcuno. Ma il momento di rottura del vecchio equilibrio si determina prima di Tangentopoli: quando si perde la distinzione tra piano della Costituzione e piano del conflitto politico (fine degli anni '70, come si dimostra nel già citato saggio di Petruccioli); e definitivamente quando, col referendum del '91 (e ben al di là del merito del quesito) la stragrande maggioranza degli elettori italiani produce uno strappo nel vigente tessuto costituzionale, avvertito come un ostacolo alla modernizzazione del Paese. Paradossalmente, fu la stessa maggioranza di italiani che aveva guardato con interesse alla Grande Riforma di Craxi e ne era rimasta delusa a decretare la ripulsa di massa del suo appello conservatore "andate al mare".
Dunque, Tangentopoli è già un effetto, non la causa scatenante della crisi del sistema politico-costituzionale. Ed è importante metterlo in luce, perché l'esatta individuazione delle cause della crisi ci aiuta sia a comprendere meglio le ragioni del suo più evidente manifestarsi nel collasso del sistema delle garanzie (tutto imperniato, nella Costituzione del '48, sul principio proporzionale), sia a definire le linee essenziali e l'ordine di priorità di una credibile strategia riformatrice.
Perché – in tutti questi anni – non abbiamo prodotto riforme? Petruccioli, nel saggio già richiamato, individua due cause. La prima: il conservatorismo istituzionale di quanti non capiscono che una rilevante modifica cambia tutti gli equilibri del sistema. La seconda: la concezione riduzionista del potere, che nega legittimità alle istituzioni di controllo e di garanzia e pretende che l'unica fonte di legittimazione sia il voto del popolo, non l'equilibrio disegnato dalla Carta Costituzionale. Le due posizioni, mostra Petruccioli, si sostengono a vicenda e ciascuna – nello scontro – trova ragioni per esaltare i suo vizi più gravi. Così, se il Presidente della Repubblica rifiuta di violare la Costituzione e non preme sulla Corte per influenzarne i pronunciamenti, i "riduzionisti" lo attaccano e cercano di delegittimarlo in quanto eletto dal Parlamento e non dal popolo. Mentre i "conservatori", se si pone il problema di rafforzare il Governo in Parlamento sull'agenda, come accade in tutti i grandi Paesi europei, subito gridano alla deriva presidenzialista (qualsiasi cosa voglia dire). Avversario (e vittima predestinata) di entrambi: il riformismo istituzionale e costituzionale.
Nella lotta, Berlusconi e il centro-destra sembrano pericolosamente vicini ad un vero e proprio cedimento avventurista: o passano le soluzioni "ad personam", cui si deve riconoscere in ogni caso priorità. O uso la maggioranza parlamentare che ho non per fare le riforme, ma per l'obiettivo opposto: lascio giungere sconnessioni e contraddizioni alle loro estreme conseguenze, contando sul fatto che potrò trarre qualche vantaggio dal degrado del sistema. Mentre il centro-sinistra sembra incapace di guardare al di là della ovvia resistenza alle leggi "ad personam", per vedere il pericolo di collasso del rapporto tra cittadini e istituzioni che scaturisce dalla sua impotenza riformatrice. In fondo, a che santo deve votarsi un normale cittadino che vede Berlusconi e centro-destra lavorare al "processo breve" solo perché serve a risolvere i problemi personali del leader; ascolta il centro-sinistra vantare la sua proposta sulla prescrizione non dopo sei, ma dopo dodici anni e constata esterrefatto che il livello di non governo del sistema giudiziario è tale che, per il Ministro, il "processo breve" bloccherebbe solo l'1% dei procedimenti in corso, mentre CSM e ANM spostano la stessa percentuale sopra il 20%?
Il rischio cui l'impotenza riformatrice espone il Paese è dunque elevatissimo. Ecco perché abbiamo voluto titolare la nostra Assemblea "Se non ora, quando?". Non so se posso parlare anche per voi. Ma certo posso farlo per me: ho sentito come una sfida personale nella domanda di Claudio Petruccioli:"a venti anni dal 1989 – mentre nel Paese e nel Parlamento impazza uno scontro durissimo tra due parti che non si riconoscono reciprocamente legittime – cosa possiamo dire che siano stati gli anni tra l'89 e il '94 e le scelte politiche che in quegli anni abbiamo compiuto: una rottura incontrollabile che precipita verso un salto nel buio; o una discontinuità più forte dopo la quale la Repubblica democratica può uscire rinnovata e più forte?".
La risposta è in ciò che accadrà – scrive Petruccioli – più che in ciò che è accaduto. Sono d'accordo. Ed è per provare ad influenzare ciò che accadrà – dal nostro punto di vista, di riformisti liberaldemocratici e liberalsocialisti che hanno avuto un ruolo significativo nel produrre alcuni dei principali fattori di rottura della continuità: la stagione referendaria, l'elezione diretta dei sindaci, il maggioritario, la svolta dal PCI al PDS, partito dell'Internazionale Socialista, fino all'Ulivo del '96 – che abbiamo deciso di dedicare questa nostra Assemblea annuale al tema della strategia dei riformisti in tema di assetto politico-costituzionale.
Questa strategia è in primo luogo costituita da una precisa risposta alla seguente domanda: il disegno riformatore deve esplicitamente proporsi di consolidare, rafforzare e rendere più equilibrato – con un adeguato sistema di garanzie e controlli – il bipolarismo a partito dominante scaturito dalle più recenti evoluzioni del sistema politico-partitico italiano, o deve prendere atto che questo assetto urta contro i caratteri fondamentali del Paese – tanto che è già entrato in una crisi definitiva – e deve essere abbandonato? Se l'obiettivo è il cambiamento del Paese – un salto nella qualità e nella quantità dello sviluppo – la risposta dei riformisti è la prima. Ne discendono conseguenze assai impegnative, sia sui contenuti, sia sulle forze interlocutrici e potenzialmente coprotagoniste della strategia riformatrice.
Sui contenuti, innanzitutto. Se l'obiettivo è il rafforzamento di un equilibrato sistema bipolare organizzato attorno a due grandi forze politiche, ciascuna egemone nel suo campo, non servono svolte presidenzialistiche, con elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Capo del Governo. Come ha scritto recentemente Augusto Barbera su Le Ragioni del Socialismo, c'è chi usa la proposta del Presidenzialismo come un alibi per tornare al proporzionale. Qualcosa che assomiglia al trasferimento alla dimensione nazionale del modello vigente nelle Regioni: bipolarizzazione estrema con la elezione diretta del Presidente in un solo turno, che convive con la estrema frammentazione della rappresentanza. Barbera suggerisce, con argomenti che a me sembrano convincenti, di riprendere invece la strada non già della elezione diretta, ma della legittimazione diretta del Governo, affrontando di petto il nodo del suo rafforzamento in Parlamento, attraverso il miglioramento della sua capacità di governare il processo legislativo. Nella mia esperienza di parlamentare, assisto ormai quotidianamente alla catastrofe cui conducono da un lato le scelte del Governo per mettere rimedio alla sua debolezza nel controllo dell'agenda parlamentare (decreti legge omnibus, ordinanze di protezione civile che stabiliscono nuovi e diversi diritti soggettivi rispetto alla legislazione vigente, ricorso sistematico al voto di fiducia su maxiemendamenti dal contenuto misterioso e del tutto ignoto persino ai parlamentari delle Commissioni di merito, leggi-delega prive di precisi principi e criteri direttivi), dall'altro la pervicacia con cui l'opposizione difende prerogative parlamentari sulla definizione dell'agenda del tutto incompatibili con le esigenze proposte da un'ordinata ed efficace azione di governo. La revisione dei Regolamenti parlamentari, per affermare un "europeo" controllo dell'agenda in capo al Governo e per introdurvi un robusto Statuto dell'opposizione, è quindi una priorità, se si vuole impedire che dalla paralisi attuale tragga alimento l'iniziativa di "conservatori" e "riduzionisti", gli uni per urlare alla deriva antidemocratica di fronte alla pretesa del Governo di avere tempi certi per la discussione e l'approvazione dei provvedimenti essenziali alla realizzazione del suo programma; gli altri per alimentare la campagna di delegittimazione del Parlamento, mero ostacolo all'industrioso "fare" del Governo e del "premier" eletti dal popolo. La presente legislatura, sul punto, aveva avuto un avvio promettente, figlio della riorganizzazione del sistema partitico attorno a due grandi partiti: il PD aveva dato vita al Governo-ombra, tipico strumento dell'opposizione parlamentare che si organizza per controllare l'azione dell'esecutivo e preparare la sua piattaforma alternativa (l'opposizione di oggi è il governo di domani); e il nuovo Governo sembrava orientato a riconoscere il Governo-ombra del PD come proprio interlocutore. Poi però, tutto è precipitato all'indietro, fino all'esito paradossale di una proposta di revisione dei Regolamenti parlamentari del PD – che pure si era organizzato attorno all'istituzione del Governo-ombra – che non promuoveva il riconoscimento di questo istituto in Parlamento. Riconoscimento che veniva invece promosso dalla proposta di nuovo Regolamento del PDL, fieramente avversata dai Gruppi del PD. Una commedia degli equivoci da cui il PD ha poi deciso di uscire… sciogliendo il Governo-ombra.
Per le proposte volte al superamento del bicameralismo, alla costruzione del Senato federale, rinvio alla solida elaborazione di Barbera e Ceccanti, i cui esiti vengono riassunti nel decalogo e potranno essere riproposti nei loro interventi.
In tema di legge elettorale – se l'obiettivo è quello del rafforzamento del bipolarismo "forte" – la soluzione deve organizzarsi attorno all'asse del maggioritario di collegio uninominale, con candidati scelti da Primarie regolate per legge. Che gli elettori debbano poter scegliere i loro rappresentati – come il Segretario del PD Bersani è tornato a proporre nei giorni scorsi – è assolutamente sacrosanto. Giusto dunque perseguire con ogni mezzo – anche con il ricorso alla proposta di legge di iniziativa popolare – il superamento del Porcellum. Ma questo obiettivo potrebbe essere perseguito anche attraverso la reintroduzione delle preferenze in un sistema elettorale proporzionale di tipo tedesco, con o senza sbarramento. Vorrei dire con chiarezza che considererei questo soluzione un rimedio peggiore del male.
Infine, la giustizia. Qualcuno forse ricorderà che abbiamo dedicato al tema l'Assemblea di LibertàEguale dello scorso anno. Personalmente, ho poco da aggiungere alle tesi e alle posizioni esposte in quella occasione da Covatta, che svolse la relazione introduttiva.
Il deficit dell'iniziativa riformista in questo campo si è nel frattempo aggravato, anche come speculare conseguenza, nel nostro campo, del concentrarsi della iniziativa del centro-destra sulle soluzioni da adottare per difendere Berlusconi dai processi che lo riguardano.
Per il servizio giustizia, in Italia, spendiamo – in rapporto al PIL – quanto (o più di quello che) spendono i nostri grandi partners dell'Unione Europea. Otteniamo molto meno. C'è dunque un problema di organizzazione inefficiente, che esaspera il cittadino. A questa perdurante realtà di giustizia negata – il vero problema per gli italiani – si sovrappongono gli effetti della crisi politico-costituzionale, poiché – come abbiamo visto – è il sistema delle garanzie e dei controlli la sede privilegiata in cui si manifestano le contraddizioni e le sconnessioni determinatesi nel nostro assetto costituzionale.
Per la ricostruzione di un nuovo equilibrio – che superi gli effetti deleteri di un lungo periodo in cui i poteri di controllo hanno occupato spazi tipici della politica e dalla stessa disertati, salvo poi subire tentativi di controinvasione da parte della politica – continuo a pensare che le proposte della Bicamerale D'Alema offrano un buon punto di riferimento.
Allora, quel tentativo fallì perché ognuna delle due parti in causa non ebbe la forza di concedere alle componenti autenticamente riformiste della parte avversa ciò che volevano davvero: il centro-destra, alla fine, non ebbe la forza di scegliere la legge elettorale con Collegio uninominale maggioritario a doppio turno; e il centro-sinistra non resse l'ostilità di tanta parte dell'ANM alle soluzioni prospettate in tema di giustizia.
Per uscire dal pericolosissimo stallo in cui ci troviamo, i riformisti debbono aggredire con proposte efficaci prima di tutto il nodo della inefficienza del servizio giustizia – c'è bisogno di eliminare un grado di giudizio? O almeno di drasticamente limitare il ricorso al terzo? Perché autonomia della magistratura deve significare impossibilità di misurare le performances di uffici e singoli, pretendendo il conseguimento di obiettivi standard? Per collocare poi le riforme dell'ordinamento (es. quelle della Bicamerale D'Alema) in questo contesto.
Fin qui, sui contenuti di una strategia riformista. Il criterio che ci ha guidato nella loro individuazione, può e deve ispirarci anche nella individuazione degli interlocutori politici. Non porta a consolidare una matura democrazia dell'alternanza la ricerca – in tema di riforme costituzionali ed elettorali – di un preventivo accordo con "le" opposizioni all'attuale Governo, cui far seguire un confronto col PDL. L'unità delle opposizioni, in questo campo, si costruisce solo su di una ipotesi regressiva: proporzionale, governo debole, status quo costituzionale.
Se è l'intero equilibrio costituzionale che va ricostruito, l'interlocutore fondamentale non ce lo possiamo scegliere: sono gli elettori a farlo. Anche su questo punto, la campagna elettorale del 2008 e l'avvio della legislatura avevano promesso molto più di quello che il presente stato dei rapporti tra PD e PDL mantiene. Ma dubito che esista un'alternativa al lavoro politico volto a far emergere – nel campo del centro-destra – le forze interessate ad un'equilibrata opera di riforma. In fondo, è quello che è avvenuto in tema di federalismo fiscale, quando la battaglia politica dentro il PD ha condotto a presentare un ddl attuativo dell'art. 119 della Costituzione e questo ha favorito una sostanziale intesa sulla legge delega approvata dal Parlamento.
Qualche parola, prima di terminare, sulla prospettiva futura della nostra Associazione, LibertàEguale. Quando nacque, tanti anni fa, qui ad Orvieto, le consegnammo due compiti, tra di loro strettamente correlati: 1) contribuire alla piena affermazione – nel centro-sinistra italiano – di quella cultura politica liberal che si era venuta imponendo come egemone nelle grandi formazioni politiche democratiche, socialdemocratiche e laburiste dell'Occidente; 2) favorire, anche per questa via, il superamento dell'anomalia storica del riformismo italiano: essere "sparso" in formazioni politiche diverse, in aspra competizione tra di loro. In altre parole: favorire la formazione, anche in Italia, di un grande partito riformista in grado di assumere stabilmente la guida dello schieramento progressista, per governare il Paese in alternativa ai conservatori del centro-destra.
Con la nascita del PD – quale che sia il giudizio che si dà sui due anni di vita di questo partito – il secondo problema è stato avviato a soluzione. Anche se non mancano segnali di ripensamento e forti spinte centrifughe. Ma l'operazione – confrontata con le ambizioni, almeno le nostre – resta in larga misura incompleta: una parte significativa del riformismo italiano non ha voluto – o non è stata messa nelle condizioni di -coinvolgersi nel processo costituente. E, quanto alla cultura politica liberal, l'esame appena svolto in tema di riforme costituzionali ed istituzionali testimonia del permanere di significativi ritardi e rilevanti ambiguità.
Possiamo quindi trarre due conclusioni: da un lato, una parte importante del nostro "scopo sociale" è stata raggiunta. Ciò che ci impone di aprire una fase nuova della vita della nostra Associazione, per renderla più efficace strumento di rilancio del processo di unità dei riformisti e di stabile acquisizione di egemonia nello schieramento progressista. Dall'altro, il perseguimento di questi obiettivi nella nuova situazione reclama un'accentuazione dell'autonomia dell'Associazione rispetto al PD e alle articolazioni della sua dialettica interna, prendendo a questo scopo anche le necessarie misure organizzative.
Non è dunque ancora venuto il momento di scioglierci per esaurimento della nostra funzione. Al contrario: c'è un vasto e vivace mondo riformista – fatto di riviste, di associazioni, di singole personalità – che LibertàEguale può collegare a sé e mettere in rete, attraverso un di più di permanente iniziativa di elaborazione culturale e di lavoro politico. A questo scopo, vi propongo di avviare un processo di revisione della nostra Carta di principi ed obiettivi, da affidare ad un apposito gruppo di lavoro, che comporremo alla fine di questa Assemblea Nazionale. In secondo luogo, propongo di stabilire che – oltre all'Assemblea Annuale, che nel 2010 si svolgerà qui ad Orvieto, il 17-18-19 settembre – LibertàEguale si faccia carico di costruire un rapporto di permanente cooperazione con altre associazioni e riviste – le Ragioni del Socialismo, Mondoperaio, Reset, solo per citare le principali e più note tra queste ultime – per realizzare almeno tre seminari ogni anno sull'agenda riformista del Paese. A partire da un Seminario sulla collocazione dell'Italia nel nuovo ordine internazionale, da tenersi nell'aprile prossimo.
Anche il nostro Statuto ha bisogno di adeguamenti, che lo rendano più funzionale allo sviluppo dell'iniziativa dell'Associazione in questa fase nuova (Antonio Funiciello ed Erminio Quartiani hanno elaborato una proposta, sulla quale potremo deliberare domenica mattina). E maggiori responsabilità dovranno essere assegnate ai giovani che già lavorano con noi e ad altri, dei quali dobbiamo favorire l'ingresso e il protagonismo.
Orvieto, 28 novembre 2009