LA CASA LIBERALSOCIALISTA
E' IL PARTITO DEMOCRATICO
Lettera di Enrico Morando a Emanuele Macaluso: "Perché, se da socialdemocratici siamo stati in un partito comunista, oggi non potremmo stare, da socialisti liberali, in un grande partito democratico?".
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Caro Emanuele,
insieme, tanti anni fa, ci siamo sforzati di essere socialdemocratici in un partito comunista. Un'impresa difficile, per originale che fosse il PCI. La difficoltà non ci ha mai indotti a disperare, ogni volta apprezzando i passi – pur piccoli e spesso incerti – che la maggioranza del PCI muoveva nella direzione giusta. Qualche volta, abbiamo sopravvalutato i risultati ottenuti: quel "PCI, parte integrante della sinistra europea" del Congresso di Firenze (1986), ad esempio, ci apparve un solido approdo nella grande famiglia del socialismo democratico europeo; ma sarebbero bastati pochi anni per vedere riemergere la fiducia nella riformabilità del socialismo reale e la concezione del socialismo come sistema del tutto "altro" rispetto a quello presente.
Fummo troppo timidi – noi miglioristi – nel pretendere che si traessero subito le conseguenze politiche di quella affermazione di appartenenza alla "sinistra europea": rapporti organizzativi con i partiti dell'Internazionale Socialista. Ci avrebbero dato torto, certo, i nostri compagni del "centro" del PCI. Ma avremmo aiutato un bel po’ di PCI a non attendere la caduta del muro per operare la necessaria rottura di continuità. E avremmo precostituito condizioni di maggiore credibilità per la scelta del nuovo PDS di aderire all'Internazionale Socialista e di contribuire alla fondazione del PSE.
Perché ricordo tutto questo? Per mettere in chiaro che noi miglioristi non abbiamo pensato – e soprattutto non ci siamo comportati come se pensassimo – che tra la nostra posizione/identità socialdemocratica e la nostra presenza in un partito comunista ci fosse incompatibilità. Non solo: abbiamo ritenuto realistica – anche se su questo terreno abbiamo alla fine riportato una dura sconfitta – una battaglia per l'egemonia in quel partito. Sì, perché noi abbiamo pensato di poterla vincere, quella battaglia per portare tutto il partito – la sua maggioranza – ad un approdo socialdemocratico.
A questo punto, posso porti la domanda essenziale: perché, se da socialdemocratici siamo stati in un partito comunista, oggi non potremmo stare, da socialisti liberali, in un grande partito democratico? Molti risponderebbero a questa domanda sulla scorta di una loro profonda convinzione: che ci sia maggiore distanza tra liberalsocialismo e "partito democratico" di quanta non ce ne fosse (ce ne sia?) tra socialdemocrazia e "partito comunista". Molti, non tu. Perché molti hanno mostrato e mostrano di ritenere – forse in buona fede – che tra comunismo e socialdemocrazia ci fosse/sia continuità : identico il fine, diversi i metodi. Mentre tu sai che comunismo e socialdemocrazia si sono concepiti – e sono effettivamente stati – come fiere ed irriducibili alternative. Nei primi anni del secolo scorso, fu Bernstein a sfidare l'ortodossia: il movimento è tutto, il fine è nulla. Allora, gli diedero torto. Ma, dopo Bad Godesberg (1959), è diventato senso comune: partito socialdemocratico e partito comunista sono in una posizione di irriducibile contrasto. Polverose polemiche del tempo che fu? Mica tanto: perché in Germania la SPD – nell'autunno del 2005, non venti anni fa – non ha fatto maggioranza con la PDS, come pure i numeri la spingevano a fare, per non "perdere" il governo?
Ben più amichevole – fino a sfiorare la coessenzialità – il rapporto tra socialismo liberale e "partito democratico": se il socialismo è processo ininterrotto di democratizzazione, se l'età dell'oro della sinistra (Welfare State più piena occupazione) è venuta solo quando liberalesimo e socialismo (i due modi di essere della sinistra nei due secoli che ci stanno alle spalle) hanno attivamente cooperato, può ben essere possibile stare da liberalsocialisti in un grande partito democratico.
Ti conosco troppo bene per non sapere che tu non neghi questa possibilità. Semplicemente, preferisci impegnarti per un partito che sia tout court liberalsocialista e, in quanto tale, appartenga al socialismo europeo. Perfetto. Ma ammetterai che questa scelta carica su di te l'onere della prova: io penso di contribuire, da liberalsocialista, alla costruzione di un grande partito riformista a vocazione maggioritaria, che sia il "naturale" riferimento della alternativa al centro-destra e sia esso stesso "di centrosinistra". Attraverso questa via, i liberalsocialisti italiani possono essere e fare in Italia ciò che sono e fanno in tutta Europa: protagonisti di un disegno di governo che usa il mercato per fare eguaglianza, la democrazia politica per correggere i fallimenti del mercato, e quest'ultimo per correggere i fallimenti dello Stato.
Il partito democratico può essere questo: certo, può essere anche la giustapposizione di DS e Margherita, magari nella loro versione meno dinamica, di lontani eredi di PCI e DC. Ma i liberali di sinistra (socialisti, liberaldemocratici, cattolici che siano) hanno la forza sufficiente per favorire l'esito "buono" e scongiurare quello "cattivo". Bisogna solo vedere se la sapranno usare.
Ma qual è il realismo della proposta del "partito liberalsocialista a vocazione maggioritaria"? Per evitare equivoci – non tra di noi, chè non ce ne sono mai stati, ma nella discussione con altri compagni che legittimamente contrastano il Partito Democratico in nome del "partito socialdemocratico" – chiarisco cosa intendo per partito a vocazione maggioritaria: deve trattarsi di un partito che: a- gode di un consenso elettorale largamente maggioritario, nel suo "campo"; b – ha un programma fondamentale che è la base del programma di governo della coalizione di centro-sinistra; c – ha una leadership individuale e collettiva che è "naturalmente" la leadership della coalizione; d – per tutte le ragioni suesposte, è un partito "di centrosinistra".
Questa rapida rassegna dei caratteri "necessari" per assumere funzione maggioritaria dimostra che il terreno sul quale i liberalsocialisti hanno maggiori possibilità di successo, proprio nel tentativo di essere in Italia ciò che sono in Europa, è quello della costituente del nuovo Partito Democratico. Certezza di successo? Ovviamente e come sempre, nessuna. Certo, se ridimensioniamo le nostre ambizioni di liberalsocialisti fino al punto di farle coincidere – per ciò che attiene alla costruzione di un nuovo soggetto politico – al nostro ristretto ambito identitario, le probabilità di successo sono più elevate.
In tutta franchezza, mentre vedo il fondamento delle tue critiche alla proposta del Partito Democratico e vedo le difficoltà che tu costantemente richiami, dalla collocazione internazionale del nuovo partito fino all'emergere di pulsioni illiberali in alcuni suoi sostenitori, constato l'assenza di un qualsiasi confronto – tra i sostenitori della proposta del nuovo partito socialdemocratico – sulla effettiva funzione politica che questo partito potrebbe svolgere, ove effettivamente nascesse dalla confluenza delle forse socialiste che non hanno fino ad ora inteso impegnarsi nel progetto del Partito Democratico. Un'assenza, a mio avviso, non casuale: è troppa la distanza tra i caratteri e le dimensioni delle forze in campo e la funzione che forze liberalsocialiste europee non possono che assegnare a se stesse e ai partiti di cui fanno parte.
In sostanza: non credi che sia meglio puntare al bersaglio grosso, e rischiare la sconfitta – per noi ex miglioristi del PCI sarebbe la seconda, dopo la mancata socialdemocratizzazione del PCI – piuttosto che rifugiarci nella costruzione di un altro piccolo partito, magari più "eguale" a noi/noi, ma meno utile al Paese?
Fonte : Il Riformista 2 marzo 2007