Nella sua recente intervista a l’Unità (4 agosto), Pier Luigi Bersani pone tre problemi, che richiamo brevemente. Il primo: la possibile sottorappresentazione di una sinistra popolare e di governo. Il secondo: il rischio che «… l’assetto federale (del PD) sia attraversato, senza eccezione, da meccanismi di candidatura e di composizione delle liste che fossero nazionali e verticalizzati». Il terzo, connesso al secondo, ma non perfettamente coincidente: qualcuno sta pensando che si possa andare avanti così, a cascata, sempre partendo dall’alto… arrivando dal nazionale al regionale, al provinciale, all’ultima sezione di quartiere.
Provo a dire come la penso, cominciando dal problema più facile, che è l’ultimo: l’Assemblea Costituente nazionale e quella regionale dovranno dotare il PD di uno Statuto nazionale e regionale. In quella sede – e solo in quella sede – dovranno e potranno essere legittimamente definite precise scelte sull’assetto politico-organizzativo del partito: quali strutture di base (territoriali e non), con quali organismi dirigenti, scadenze e modalità congressuali; quali organismi intermedi (provinciali, di città metropolitane); quale livello di effettiva autonomia del PD regionale (in primis: è destinatario diretto dei fondi per il finanziamento delle campagne elettorali o li riceve solo attraverso la mediazione del partito «nazionale»?).
Non c’è nessuna trattativa, nessun accordo «preventivo» tra DS, Margherita e quant’altri che possa «espropriare» le Assemblee Costituenti elette il 14 ottobre prossimo di questi loro fondamentali poteri. Al contrario, è certamente opportuno che i presentatori di liste di candidati alla Costituente (nazionale e regionale) presentino loro dichiarazioni di intenti sui temi statutari, così creando le condizioni per un mandato più vincolante tra elettori (le centinaia di migliaia del 14 ottobre) e gli eletti (i delegati alle Costituente). A loro volta, i candidati Segretari nazionali (che già si conoscono) e quelli regionali (che si conosceranno a metà settembre) farebbero bene ad enunciare le loro idee in proposito. Anche se – aggiungo subito – la loro funzione ha assai più a che fare con il carattere del 14 ottobre come primo congresso politico del PD che con la dimensione «costituente» di quello stesso appuntamento. Poiché però la chiarezza non è mai troppa, i candidati segretari nazionali non danneggerebbero certo il processo costituente e non violerebbero le prerogative di nessuno se, molto semplicemente, prendessero posizione contro le tentazioni della «cascata burocratica e centralistica» di cui parla Bersani e, soprattutto, se promuovessero, prima del 14 ottobre, un pubblico convegno nel quale far emergere i principi e le linee di proposta essenziali cui intendono ispirare il loro successivo lavoro di concreta costruzione del Partito Democratico. In quella sede Walter Veltroni – con l’ausilio di alcune personalità che lo sostengono (come i professori Vassalo e Salvati) ed hanno lavorato con più profitto alla progettazione del nuovo partito – potrebbe fornire un contributo determinante per la buona gestione della fase che si aprirà dopo il 14 ottobre, oltre a dimostrare l’assoluta inconsistenza della tesi di chi ha sempre bollato le precoci elaborazioni dei Salvati e dei Vassallo come astruse fumisterie, al pari delle battaglie politiche degli Ulivisti, salvo pretendere oggi di descrivere come «calata dall’alto» e frutto della gestione centralistica delle segreterie di DS e Margherita proprio la candidatura di Veltroni, che a quelle elaborazione e a quelle battaglie ha partecipato in tempi non sospetti e con più convinzione di altri.
Vengo così, procedendo a ritroso, ma senza salti logici, al secondo problema: c’è o non c’è, questo «accordo centrale» tra DS e Margherita (o, meglio, tra le maggioranze dei due partiti, che sostengono Veltroni) sui candidati segretari regionali del PD? E, se c’è, come bisogna reagirvi? La risposta, per essere ben compresa, ha bisogno di una premessa: nel Comitato Nazionale per il PD, sono stato nettamente contrario alla elezione, il 14 ottobre, dei segretari regionali. Se la sconfitta alle amministrative, maturata per prevalenti ragioni «nazionali» – pensavo – rende necessario unificare Costituente e primo Congresso del PD, la stessa drammatica urgenza non c’è alla dimensione regionale, dove i due eventi potranno rimanere distinti, come si era originariamente previsto. Molti e autorevoli pareri convinsero me – e moltissimi altri – che proprio non si poteva misconoscere, nell’atto di nascita, il carattere federale del nuovo partito: l’elezione dei segretari regionali era dunque indispensabile. Da vecchio e impenitente federalista, non potevo resistere a tanto argomento. Ora però, credo di avere diritto di chiedere a tutti, segretari dei due partiti, coordinatori del Comitato nazionale, candidati segretari, un atteggiamento di piena coerenza: dichiarino formalmente che non c’è alcun accordo «nazionale» che possa essere fatto valere, in nessuna regione d’Italia. E se qualcosa di quel tipo c’è stato (vado anch’io in giro per feste di partito e i dirigenti locali di Ds e Margherita lo danno tutti per esistente), ne operino una derubricazione a mero contributo all’avvio di un lavoro e di un confronto che – perfettamente liberi da ipoteche – debbono ora svilupparsi in sede regionale. Liberi anche da qualsiasi rapporto con le diverse candidature alla segreteria nazionale? Sì e No. Certamente sì , se si tratta di rapporto «organizzativo»: l’opzione federalista verrebbe smentita in radice dalla pretesa di omologazione dei candidati segretari regionali a quelli nazionali. Ma, se si tratta di un rapporto di coerenza delle proposte politiche, beh, le cose cambiano: è stato merito di Veltroni collegare la sua candidatura ad una piattaforma politica – il discorso di Torino – assai precisa e circostanziata («non è stato reticente»: questa la fase di avvio del commento del Corriere della Sera il giorno dopo). Sarebbe un grave danno per tutti se ora quella nettezza e precisione di linea venisse offuscata – nella fase di definizione delle liste a suo sostegno, in qualche misura connesse anche alle candidature regionali – da un confuso assemblarsi di scelte individuali e di corrente, privo di coerenza e leggibilità politica. Della serie: c’è un buon livello di autonomia e federalismo solo là dove c’è un basso livello di conformismo e trasformismo.
Questioni – quelle di coerenza della linea politica – che ci portano ad affrontare il terzo e ultimo problema: la sinistra popolare e di governo sarà «sottorappresentata» nel PD? Parlo di questioni di linea politica perché non posso pensare che Bersani, quando parla di possibile «sottorappresentazione», si riferisca proprio ai termini di quell’accordo nazionale su liste e segretari regionali che – giustamente – considera inaccettabile, perché contraddittorio rispetto alle finalità essenziali del PD. Ma – se penso alla linea politica – non vedo nessun rischio di «sottorappresentazione» della sinistra: quella che ha esposto Veltroni a Torino – facendo un apprezzato sforzo di immediata trasformazione dei principi in proposte, dalla crisi democratico-istituzionale al riequilibrio nel rapporto tra le generazioni – è una linea da sinistra liberale di stampo europeo, da più di un decennio prevalente nei principali partiti socialisti europei. Proprio quei partiti che – da Bad Godesberg in poi – hanno cambiato se stessi per dirsi credibilmente «popolari» e non più «di classe». Se Veltroni sarà eletto segretario, lo sarà su quella linea. E tutto si potrà dire meno che in essa non sia ben visibile il contributo determinante – anche se non esclusivo – di quella cultura politica liberalsocialista che è l’unica componente non caduca della grande esperienza del socialismo italiano. È proprio al lento scavo del socialismo liberale nella vecchia cultura politica della sinistra di ispirazione socialista – e alla conseguenti battaglie politiche di minoranza dei liberalsocialisti nel PDS, nei DS e nella più vasta area del socialismo italiano – che dobbiamo la capacità (possibilità) di quest’ultima di essere protagonista, al pari di altri, della costruzione del PD.
In questo senso – come ebbe a dire proprio Bersani qualche settimana fa – non è stata una buona idea quella di cercare di definire una posizione «dei DS» per il sostegno a Veltroni, né quella di operare «come DS» per scongiurare altre candidature. Possiamo fare di più e meglio se – come è poi in effetti avvenuto – andiamo al 14 ottobre sciolti da improponibili vincoli di appartenenza partitica e forti di ciò che è vivo della nostra tradizione. Ma l’urgenza di superare quest’errore ci sollecita a scelte e comportamenti – la ricerca della massima apertura delle liste e la sollecitazione sincera all’impegno di chi non è oggi iscritto ai DS e alla Margherita – che non muovono dall’esigenza di far fronte al rischio della sottorappresentazione della sinistra, ma dalla consapevolezza delle potenzialità espansive del progetto, ben oltre i confini dei partiti esistenti.