12 Giugno 2009
INTERVENTO AL DIRETTIVO DI LIBERTA'eguale
Enrico Morando
Siamo di fronte alla più grave crisi economica degli ultimi trenta anni. Forse, per la sua dimensione globale, la più grave dopo quella del '29. Il tema non è se ne usciremo. E neppure, malgrado il revival dei laudatores della rottura di "sistema", se il capitalismo sopravvivrà.
Il tema è:
1) se esistano le condizioni per evitare che la pesante recessione in atto si trasformi in depressione; e
2) quale capitalismo uscirà dalla crisi, quando quest'ultima finirà, quale carattere avrà, sotto il profilo della qualità sociale e dell'efficienza economia; quali saranno i protagonisti della nuova fase che si aprirà dopo la crisi; quali saranno i rapporti tra di loro; e, in questo contesto, quale ruolo potrà avere l'Europa e, nell'Europa, l'Italia.
Questi sono i temi dell'agenda riformista. Perché una cosa è già chiara: la piattaforma politico-culturale e programmatica che il centro-sinistra ha definito negli scorsi 15 anni non è destinata ad essere travolta da un ritorno di fiamma della sinistra statalista, ma non è certamente adeguata – senza una forte evoluzione – né a comprendere le cause della crisi, né a definire le strategie per uscirne. Per dirla riferendosi al triste, ma significativo dibattito che è in corso in questo momento nel Regno Unito: non è con il budget vecchio stile – tassa e spendi – che si può uscire dalla crisi; ma i problemi non sono più quelli che potevano essere affrontati – ancora in chiave "nazionale" – dalla terza via di Giddens e di Blair.
Il tutto in un contesto nel quale i problemi economico-sociali – sui quali si accentra oggi l'attenzione dell'opinione pubblica di tutto il mondo – non hanno cancellato, ma convivono con – e sono complicati dai – problemi globali che preesistevano:
a- il terrorismo islamico sembra in grado di conquistare il controllo di un Paese come il Pakistan ed ha già oggi imposto la sharia in importanti regioni del Nord, dove le bambine vengono già cacciate dalle scuole;
b- l'inquinamento globale si aggrava ulteriormente.
Tutto ciò ci propone come assolutamente prioritario – per l'immediato (governo della crisi economica, per far sì che sia più breve, meno profonda e meno pesante socialmente); e in prospettiva (sedi, strumenti e politiche per il governo degli squilibri globali) – il tema della dimensione globale della iniziativa dei progressisti, dalle politiche fino alla organizzazione.
Affrontiamo questo tema forti di una leadership che si propone come leadership politica globale – quella di Obama – e deboli per il persistere di una chiusura degli orizzonti politico-culturali dei diversi centro-sinistra nella dimensione nazionale: non abbiamo approfittato, ad esempio in Europa, della fase positiva del processo di unificazione – quella della nascita dell'Euro – per costruire veri partiti europei (non lo è il PPE, un vero partito europeo; ma il PSE lo è ancora di meno).
Il centro-sinistra europeo si deve muovere subito, adesso, per produrre le innovazioni politico-organizzative necessarie, approfittando della leadership globale di Obama; dopo – quando magari avrà collaborato, col suo immobilismo, all'indebolimento di questa leadership, sarà troppo tardi. E ci consoleremo raccontando che, in fondo, neppure questo Obama era gran che'.
Cosa possiamo fare noi, piccolo centro-sinistra italiano; e noi, ancora più piccoli, Libertàeguale? Possiamo e dobbiamo operare – intanto sul terreno della cultura politica – per riscrivere in questa chiave la nostra agenda di riformisti.
Subito, nel governo della crisi, prima di tutto alla dimensione europea, per rendere "accessibile" la dimensione globale.
Qualche esempio:
a- Tutti parliamo di nuove regole per il sistema finanziario e del credito: al G20 è stato preso qualche impegno (es. il lavoro del Forum per la stabilità finanziaria di Draghi; l'ostracismo ai Paradisi Fiscali); ma, nel sistema del credito dei Paesi euro, ormai perfettamente integrato a dimensione (almeno) continentale, vigilanza e regolazione sono ancora organizzate a dimensione nazionale. Cosa deve accadere per indurre il centro-sinistra europeo a sostenere unito la scelta immediata per la costruzione di un sistema europeo di vigilanza?
b- Abbiamo la moneta unica; abbiamo la Banca Centrale Europea; abbiamo ingenti e crescenti debiti pubblici (quello italiano, in un anno, dopo 15 anni di sacrifici, tornerà verso il 120% del PIL, dove stava nel 1996), ma ogni stato va a cercare compratori dei titoli di questo debito in competizione con l'altro. Così ci danneggiamo l'un l'altro, bucando la barca in cui stiamo tutti. Quindi: gestione unitaria del debito. Ciascuno paga il suo, ma la gestione comune aiuta tutti a sopportarne meglio il peso.
c- Per far fronte alla crisi, tutti nel mondo convengono sul fatto che: 1- gli USA debbono ridurre il livello di debito; 2- la Cina (e gli altri emergenti) devono aumentare i consumi privati; e 3- l'Europa deve sostenere la domanda globale, specie dal lato degli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, innalzando la produttività totale dei fattori. Se tutti siamo d'accordo, perché non far partire subito emissioni di eurobonds sul merito di credito dell'Europa e dell'Euro, per finanziare grandi progetti in infrastrutture materiali (è il vecchio piano Delors) e in ricerca?
Queste proposte per politiche europee rendono realistiche – quindi conferiscono loro credibilità – anche le proposte che si avanzano alla dimensione nazionale. Fuori da questa cornice, queste ultime appaiono sproporzionate rispetto ai problemi e non sostenibili finanziariamente (specie in Paesi ad alto debito pubblico, come l'Italia).
Ma la riscrittura della agenda riformista non è necessaria solo per l'immediato, per far fronte subito alla crisi. Essa è indispensabile se si assume un orizzonte di medio-lungo periodo e se si pretende di guardare ai problemi più di fondo: da quello dei nuovi equilibri mondiali, per garantire la pace, fino a quello del riscaldamento globale.
Anche a questo proposito, qualche esempio servirà a dare l'idea:
a- Usciamo da una lunga fase nella quale – in tema di espansione e affermazione della democrazia nel mondo (un processo essenziale, anche per la diffusione della pace: non c'è esperienza di guerra tra due democrazie) sono convissuti due modelli: quello dell'Europa, che ha "attratto" alla democrazia i Paesi confinanti, attraverso l'esempio; e quello degli USA degli ultraconservatori, che non hanno esitato (spesso in perfetta buona fede) a cercare di imporre con la forza il cambio di regime, verso la democrazia. La svolta di Obama crea le premesse per un nuovo protagonismo euroatlantico nell'espansione della democrazia, a partire dal Medio Oriente, in Asia e in Africa. Ma non è qualcosa che accadrà senza che agisca consapevolmente una nuova soggettività politica alla dimensione internazionale. Così come un tempo – a sinistra, specie in Europa – siamo stati capaci di costruire organizzazioni estremamente reattive ad ogni avvenimento internazionale che contrastasse con la nostra "visione" del mondo; così oggi, dobbiamo costruire un "senso comune" democratico che si dia obiettivi precisi e li persegua con la stessa reattività. Così, tra l'altro, impediremo che anche di questo tema – tipicamente nostro – si impadronisca la destra, per alimentare la paura di cui nutre il suo populismo (vedi il libro di Tremonti e la Cina).
b- L'inquinamento globale è una seria minaccia per il nostro futuro. E non c'è ragione di non preoccuparcene, solo perché le catastrofi annunciate o previste come sue conseguenze sono considerate minacce credibili solo da una minoranza degli scienziati. Abbiamo le capacità tecnologiche e i mezzi per ridurlo, abbattendo drasticamente il rischio. Ma politiche adeguate hanno dimensione globale; e fino a ieri la politica della destra americana aveva un orientamento opposto. Anche in questo campo, Obama propone una svolta, e lo fa assumendo un'ottica globale. Sostenere questa svolta è un bene in sé. E può (FIAT) essere anche conveniente: la ristrutturazione ecologica dell'economia fa riprendere profondità al capitalismo, lo riconcilia col lungo periodo, riduce – dal lato ambientale – il "debito" che noi mettiamo in capo alle generazioni che verranno.
Mi fermo qui, con gli esempi. Spero che gli uni e gli altri siano sufficienti per motivare perché penso che noi del centrosinistra italiano ci si debba impegnare – per quello che possiamo – per una nuova stagione di internazionalismo. Per un nuovo internazionalismo democratico, in vista della costruzione delle sedi e per la definizione della politiche di un nuovo governo mondiale:
– l'esigenza ci viene dalla crisi e dalla fine del vecchio equilibrio unipolare;
– l'occasione ci viene dalla forza della leadership di Obama e dai primi passi della sua amministrazione;
– l'obiettivo ci viene dalla nostra migliore tradizione: sviluppo socialmente sostenibile nel lungo periodo, libertà degli individui, riconciliazione tra gli interessi della generazione presente e quelli delle generazioni che verranno.
Questa è la luce giusta per illuminare la scelta sulla collocazione europea e internazionale del PD.
Fino ad oggi, si è svolto su questo tema un dibattito strumentale, tutto a fini di lotta politica interna, non per collocare il "nuovo" partito, ma per regolare i rapporti tra i due vecchi.
Si sono confrontate due soluzioni "burocratiche" : 1) nel PSE, con la scusa del nome, "allargato" ad Oporto a "democratici"; 2) un gruppetto autonomo, con qualche eletto di altri paesi, che poi si "federa" – meglio, si allea stabilmente – col PSE.
Sembra ora delinearsi la possibilità di una soluzione non "terza", ma qualitativamente "diversa": un gruppo effettivamente nuovo, frutto di una fase costituente "vera", che ha tra i suoi fondatori socialisti e democratici. Il gruppo del "centrosinistra" europeo, davvero in grado di misurarsi col gruppo del PPE, che raccoglie le forze di centrodestra. Questa soluzione è una base ottima per l'intessitura di rapporti anche organizzativi con i Democratici USA (e India, e Sud Africa), così da rendere realistica la prospettiva di cui parlò tanti anni fa, in Italia, Bettino Craxi: la costruzione dalla Internazionale Democratica.
Per approfondire l'insieme di questi temi, abbiamo convocato un Seminario di Libertàeguale a Milano, con specialisti e politici, per il 25 maggio prossimo. L'obiettivo è quello di darci una base analitica utile ad un posizionamento politico generale. Nell'immediato, può venirne un contributo per le elezioni europee. In prospettiva, per la ridefinizione del progetto del centro-sinistra italiano.
2- Il centro-sinistra italiano potrà affrontare la sua crisi solo se penserà se stesso come componente nazionale di questo nuovo movimento politico globale, portatore di una sua specifica "visione" sugli inediti problemi del mondo.
Questo vale anche per il resto della sinistra e del centrosinistra europei, pericolosamente afoni e privi di incisività, proprio mentre arriva ad esaurimento un lungo ciclo politico, segnato dal neoliberismo conservatore.
Il centro-destra europeo sembra reagire – anche facendo leva su leadership più forti – attraverso l'aggiornamento in chiave populista della sua piattaforma politico-programmatica: più leva sulle paure del nuovo e del diverso (la Cina in economia, l'immigrazione come minaccia alla sicurezza di tutti e al lavoro dei più deboli); centralità dei valori tradizionali (la famiglia, la tradizione); statalismo populista e conservatore (lo stato usato per puntellare i vecchi equilibri sociali, non per correggere i fallimenti del mercato).
Il centrosinistra, in Europa, conosce una profonda crisi di leadership e stenta a ritrovare il filo di una sua visione della crisi e della sua funzione per affrontarla. È tentato da una reazione stile vecchia sinistra, ma è al tempo stesso consapevole della improponibilità di quella ricetta. Appare quindi incerto, come paralizzato.
Eppure, l'analisi che va per la maggiore delle cause fondamentali della crisi suggerisce la strada da battere.
Esse, per l'essenziale, sono così riassumibili: a- eccesso di disuguaglianza. Due terzi della popolazione è troppo povera per alimentare un livello adeguato della domanda; non si riconosce nel futuro perché ha un presente troppo incerto, e per questa via contribuisce a deprimere le aspettative di tutto il sistema. b- La crisi finanziaria, in questo contesto, ha fatto letteralmente esplodere l'economia del debito (che, nel contesto dato da quanto in a-, è stato anche un essenziale elemento di dinamismo), a sua volta alimentata da scelte politiche precise (in USA, il denaro che non costa nulla; in Cina, i consumi privati al di sotto del 40% del PIL).
In sostanza: eccesso di disuguaglianza, eccesso di debito in USA, eccesso di risparmio (pubblico) in Cina.
Il tutto, in presenza di politiche volte non a contrastare, ma ad alimentare questi tre eccessi ed in assenza di sedi per quel governo mondiale che consentisse di mettere in relazione tra loro – e per questa via riassorbire – gli squilibri.
Se queste sono le cause fondamentali della crisi, la politica del centro-sinistra dovrebbe ispirarsi ad obiettivi coerenti con questa analisi e discendenti dal nostro sistema di valori:
a- costruire sedi di governo globale, anche al fine di fuoriuscire dall'economia del debito, recuperando stabilità attraverso una buona regolazione del sistema finanziario;
b- sviluppare politiche di eguaglianza, di diffusione delle opportunità, di giustizia sociale, funzionali anche all'efficienza economica. Di qui, la ribadita centralità delle politiche per la formazione di tutti i bambini, specie per quelli la cui famiglia non è in grado di fornirne in qualità e quantità adeguate;
c- ridare profondità temporale al capitalismo – riconciliarlo col medio-lungo – sia attraverso la coesione sociale (i genitori devono tornare a pensare che i figli staranno meglio di loro), sia attraverso la ristrutturazione ecologica della economia (il rapporto tra le generazioni è oggi minato dall'eccessivo consumo, nel presente e a danno del futuro, di risorse ambientali non riproducibili);
d- valorizzare libertà civili e democrazia, per includere individui e popoli che oggi non si sentono impegnati ad affermarli o a difenderli semplicemente perché si sentono "esclusi".
Il tema del futuro del PD – la forza dominante del centro-sinistra italiano – si deve affrontare sulla base di questi principi e di questa ispirazione programmatica.
Molti hanno visto nella nascita del PD, quella nascita, attraverso quell'enorme moto di popolo, ben al di là dei militanti dei due partiti fondatori; nella piattaforma programmatica che si diede col Lingotto prima e col programma elettorale poi; nella scelta di rompere con la logica stessa della coalizione contro, a favore della scelta di "andare liberi" (per quanto significativamente contraddetta dall'alleanza organica con Di Pietro), il compimento della lunghissima transizione della sinistra italiana: dalla impossibilità di governare in alternativa ai conservatori, alla affermazione della vocazione maggioritaria, intesa non come puerile rifiuto delle alleanze, e presunzione di autosufficienza, ma come "normale" ed "europea" assunzione su di sé – a prescindere dalla tattica elettorale del momento – della funzione di dare rappresentanza – nel governo del Paese – alle esigenze e alle aspirazioni della maggioranza del popolo.
Oggi lo vediamo meglio: non è stata la secca sconfitta elettorale a mettere in gravissima difficoltà questo progetto. E' stata la effettiva gestione del Partito, in chiave di mera cogestione tra i gruppi dirigenti – centrali e periferici – dei due partiti che avevano scelto di dargli vita.
La spinta propulsiva di entrambe quelle tradizioni, esperienze e culture – e dei loro gruppi dirigenti – si era venuta progressivamente esaurendo: il fallimento della Unione ne era, al di là della cronaca spicciola della crisi di governo, la rappresentazione emblematica. La loro insufficienza era il fattore cruciale che creava l'esigenza dell'innovazione, non la ricerca di una sinergia tra due soggetti dinamici. Questo videro gli italiani di centrosinistra in quell'atto di nascita, in quella leadership, in quella posizione e proposta politica.
Di qui l'entusiasmo della fase costituente, tradottosi nella partecipazione popolare del 14 ottobre. Di qui il 34% dei voti. Dopo un'esperienza di governo che definire difficile è un pietoso eufemismo.
Fino alle elezioni (con l'eccezione già richiamata dell'accordo con IDV) le promesse di innovazione sono state sostanzialmente mantenute. Per la verità, modalità e composizione delle liste già segnalarono una controtendenza: ma la forza della proposta nascose la contraddizione.
Dopo la sconfitta, si proponeva con nettezza un'alternativa: o assumere esplicitamente – consapevoli della forza del rinnovato centro-destra – l'ottica del medio-lungo periodo, rilanciare la sostanza del progetto, costruendo effettivamente il partito in coerenza col suo statuto, come partito dotato del radicamento sociale e territoriale, del profilo ideale e programmatico, della leadership individuale e collettiva necessari per "lavorare" per cinque anni nella realtà sociale italiana, al fine di andare nel campo avversario, prendere un milione e mezzo o due di voti e portarli di qua, nel 2013; oppure tornare più o meno rapidamente sul terreno abitualmente praticato – nella seconda Repubblica – dal centro-sinistra italiano, che fa più leva sui limiti e i difetti del centro-destra (haimè, sempre più presunti che reali) che sulle proprie virtù; crede che la tattica delle alleanze elettorali, alla fine dei conti, sia l'unico strumento attraverso il quale si può avere la meglio, in un Paese strutturalmente di centro-destra, sullo schieramento avversario; e crede che la piattaforma di cambiamento del Paese debba essere ritagliata sui caratteri della sue alleanze elettorali, a costo di abbassarne le ambizioni di cambiamento del paese fino ad annichilirle.
La prima strada non può essere percorsa con l'ansia dell'immediata rivincita contro Berlusconi e non è compatibile con una gestione del partito e dell'opposizione al governo di tipo tradizionale.
La seconda passa in zone più conosciute, ma ci conduce – più o meno consapevolmente – là dove la lunga transizione ci aveva portato, prima della nascita del PD.
Per scegliere, responsabilmente e democraticamente, si sarebbe dovuto convocare subito un Congresso. Non un Congresso qualsiasi, politicamente confuso, volto ad un generico "serrare le fila" contro un avversario più forte perché giunto ad un esito della sua transizione. Ma un Congresso vero, su leader e linea contrapposti, proprio perché rappresentativi dell'alternativa prima descritta. Un Congresso che – per i caratteri del tutto innovativi che ha questo appuntamento, secondo lo Statuto del PD – avrebbe avuto anche l'effetto non trascurabile di offrire una sede "vera" di partecipazione a quelle forze riformiste di centro-sinistra che, fuori dal PD, sono alla ricerca di una prospettiva in cui collocarsi (dato l'obiettivo esaurirsi del progetto cui avevamo lavorato).
C'erano dei rischi, in questa scelta? Certamente. Così grandi che, alla fine, Veltroni ha scelto di non compierla.
Una cosa, oggi, è tuttavia provata: non chiamare il PD – e con esso tutto il centro-sinistra italiano – ad una scelta chiara, ha prodotto un fortissimo logoramento del progetto e della leadership. A partire da un drammatico accorciamento della prospettiva: incidendo in una lotta non trasparente, politicamente opaca, per la leadership e la linea, ogni elezione amministrativa parziale, ogni specifico passaggio della vicenda politica del Paese, diventa un test decisivo, all'indomani del quale tutto è rimesso in discussione. Anche in questo caso, qualche esempio aiuta.
1- Il Governo ombra: si fa, alludendo ad un'opposizione tipica del bipolarismo a partito dominante. Ma non si riorganizza il Partito in questa chiave e si giunge al punto di rifiutare l'offerta PDL per Regolamenti parlamentari coerenti con questo modello di organizzazione dell'opposizione. Risultato: l'unica utilità politica del Governo ombra è quella di diventare il parafulmine della diffusa insoddisfazione per le deludenti performances del PD nell'opposizione al Governo.
2- Il Piano Anticrisi: si elabora, con lo schema seguito dal centro-sinistra in USA, in UK, in Spagna: espansione fiscale subito, garantita da stabilizzazione della finanza pubblica nel medio-lungo periodo. Viene presentato con successo alle parti sociali: da Marcegaglia ad Epifani, riconoscono la bontà dell'approccio, implicitamente (la prima), esplicitamente (il secondo) criticando il rifiuto del Governo di centro-destra di usare in chiave anticiclica la politica di bilancio (unico governo nel mondo). Ma, proprio in quello stesso giorno, una parte del PD attacca frontalmente Confindustria, concentrando su quell'attacco l'attenzione dei media. Di seguito, va in onda il tormentone su "andare o no" a questa o quella manifestazione della CGIL.
3- La gestione del partito. Il tesseramento, in buona sostanza, non viene fatto. Perché? È una bufala che dipenda dalla scelta di Veltroni per il partito "senza iscritti". Dipende, in realtà, dalla volontà dei più di evitare, anche per questa via, un'immediata convocazione del Congresso (la prima parte del quale è affidata alla decisione degli iscritti). Della serie: come si fa a fare il Congresso, se non ci sono gli iscritti? Meglio soprassedere… Ma, soprattutto, deriva dalla diffusa tendenza a rimettere in discussione i due essenziali capisaldi dello Statuto (in quanto discendenti direttamente dalla "vocazione maggioritaria"): l'identificazione della figura del Segretario del partito con quella del Candidato Presidente del Consiglio; e la decisione finale affidata agli elettori, secondo il modello 14 ottobre. Stessa incerta sorte viene riservata all'istituto delle Primarie per la scelta dei candidati alle cariche monocratiche: Sindaci, Presidenti di Provincia, Presidenti di Regione. Malgrado la tassatività delle norme statutarie in questione. Naturalmente, nei (pochi) posti dove si tengono (spesso in ritardo e come soluzione in extremis) fanno segnare livelli di partecipazione straordinari e risultati quasi sempre "sorprendenti" (forse proprio questo ultimo aspetto spiega perché molti – in perfetta buonafede, ma con una valutazione che va nettamente contrastata – sono passati dal mugugno alla aperta ostilità verso l'istituto stesso delle Primarie).
Con gli esempi di contraddizione tra comportamenti-scelte politiche e architravi del progetto originario del PD si potrebbe, purtroppo, proseguire a lungo. Ma questa non è la sede giusta per un'analisi puntuale degli errori che hanno condotto all'attuale crisi.
Qui è più utile concentrarci sulla questione essenziale: cosa bisogna fare per evitare che il progetto stesso del PD sia travolto dalla drammatica crisi che lo ha investito?
Bisogna fare ora quello che avremmo dovuto fare prima: un limpido confronto sulla funzione, la linea e la natura stessa del PD, presentando al giudizio e alla decisione di tutti i nostri elettori più attivi soluzioni e leadership diverse. Si deve trattare di una vera competizione democratica, che può rianimare le nostre forze solo se – persino al di là del suo esito – sarà capace di risultare credibile agli occhi dei milioni di fondatori del PD, oggi in larga parte delusi e sconcertati.
Devono vedere un partito nel quale linea e leadership siano effettivamente contendibili, attraverso procedure di amplissima partecipazione democratica. In questo senso partito vero, fondato su di un modello di democrazia interna nettamente alternativo a quello adottato dall'altro partito vero (finiamola con questa storia del partito di plastica), che si è costruito dall'altra parte dello schieramento politico.
Per quel che vale, si può oggi annotare che già il 14 ottobre 2007 – per la forza "discriminante" della leadership e per la chiarezza dell'asse politico-culturale del Lingotto – avrebbe potuto essere la sede di un confronto più "vero": non lo fu, un po' per la mancanza di coraggio politico di chi avrebbe voluto presentare un'alternativa di linea e di leadership e non lo fece (anche in questo caso, con le migliori intenzioni "unitarie"), un po' per la scelta di consentire che più liste di candidati alla Costituente si affastellassero confusamente dietro la candidatura certamente vincente.
Allo sviluppo di questo confronto, noi di Libertàeguale – che abbiamo avuto un ruolo rilevante sia nella lotta politica per giungere alla nascita del PD, sia nel lavoro di definizione del suo posizionamento politico-programmatico – possiamo contribuire facendo il nostro mestiere. Che non è quello di preparare mozioni congressuali, né di avanzare proposte di leadership. Ma quello di concorrere a definire le architravi di una strategia di cambiamento del Paese. Aggiornando una piattaforma politico-culturale e programmatica che in parte si è rivelata inadeguata, in parte è resa obsoleta dalla crisi, in parte può essere riproposta, con un diverso ordine di priorità.
Nel corso di questi mesi, abbiamo assistito, in Italia (ma il fenomeno si ripropone, con poche varianti, in altri paesi europei: es. Francia) al pieno manifestarsi di un rischio esiziale, per un Paese che può tornare a crescere – in qualità e quantità – sole se cambia profondamente. Il rischio – ne ha scritto in termini che condivido Luca Ricolfi – che i due schieramenti politici che si misurano in Italia siano (e diano) espressione dia due conservatorismi. Diversi – per qualche aspetto rilevante, addirittura opposti – ma conservatorismi.
Dal lato del centro-destra, è fin troppo evidente. Se serve un esempio, possiamo limitarci a questi ultimi due. Si spendono miliardi per la Cassa Integrazione, anche in deroga, ma ci si guarda bene dal riformare il sistema degli ammortizzatori sociali (questa, che ha per l'Italia lo stesso valore che ha la riforma sanitaria per gli USA, non è stata la priorità né del centro-destra, né del centro-sinistra, nei governi succedutisi negli ultimi quindici anni: è tutto dire). Oppure: si fa la polemica contro banchieri e finanziari, ma si infila nel decreto anticrisi una normetta che "blinda" l'assetto proprietario attuale dei pochi grandi gruppi quotati italiani, rafforzando le difese degli attuali patti di sindacato. Ecco degli esempi concreti di populismo conservatore, che usa lo Stato per tutelare gli insiders e i presenti assetti di potere.
Nel centro-sinistra, la carica innovatrice del Lingotto si è via via venuta stemperando, senza che nessun outsider si sia sentito o possa sentirsi davvero, e stabilmente, "rappresentato" dal PD, per condivisibili che siano sue singole iniziative politico-parlamentari. Il tutto, in un orizzonte di breve periodo, dove il partito riformista si preoccupa di non scontentare davvero nessuno, temendo ricadute elettorali negative. Quasi che il nostro orizzonte non andasse più in là della prossima scadenza elettorale (e il carattere "epocale", la verifica "esistenziale" che stiamo annettendo al risultato elettorale delle Europee, sono figli legittimi di questa miopia).
L'atteggiamento da assumere dovrebbe essere esattamente opposto: sfida fermissima al centro-destra sul terreno del radicale cambiamento del Paese, ispirato agli interessi degli esclusi e fondato sul "peso" riformatore delle componenti più dinamiche della società.
Riconoscere la realtà per quello che è (un Paese bloccato, che ignora il bisogno dei più deboli e penalizza il merito) e identificare la "funzione" del PD e del centrosinistra – attraverso un vero e proprio processo di identificazione, nel senso comune, tra questa formazione politica e la proposta di cambiamento – nella strategia di innovazione della stessa. Non è una passeggiata. È una strategia che seleziona nel nostro "campo" tradizionale, ma include nuove forze, che oggi ne stanno fuori (o stanno nel campo avverso). Anche qui, qualche esempio serve a chiarire:
a- La sicurezza interna. Essenziale per la civiltà, per la qualità sociale, per l'efficienza economica. Oggi, per l'acquisizione di questo "bene", spendiamo in Italia come (e spesso più) che in ogni altro grande Paese Europeo. Otteniamo molto meno. Perché? È semplice: perché spendiamo male. A partire dal fatto che abbiamo almeno cinque diverse forze di polizia, tutte dedite alle stesse incombenze. Da sempre, auspichiamo il coordinamento. Ma è un pannicello caldo. Bisogna arrivare ad una sola forza di polizia per il controllo diffuso del territorio; e una sola forza di polizia per la lotta alla grande criminalità.
b- La sicurezza esterna. Nel nuovo mondo, il modello di difesa va radicalmente rivisto. La sua struttura deve essere riorientata: meno ufficiali e sottoufficiali, più tecnici. Meno spesa corrente, più spesa in conto capitale.
c- Nella società della conoscenza, abbiamo una scuola che pretende di garantire la stessa offerta formativa ai figli di genitori entrambi laureati e ai figli di semianalfabeti di ritorno. Parti uguali tra disuguali: il massimo dell'ingiustizia. La svolta da realizzare si incardina sulla discriminazione positiva (per i bambini e i ragazzi svantaggiati; a favore degli insegnanti che si impegnano con migliori risultati e nelle realtà sociali più difficili) e sulla autonomia.
d- L'andamento dei salari negli ultimi dieci anni – specie per quel che riguarda le remunerazioni dei lavoratori più produttivi del settore privato, esposto alla competizione internazionale – dimostra che il modello contrattuale in atto funziona male. Bisogna definirne uno che consenta di ridistribuire sistematicamente anche a favore dei lavoratori gli effetti prodotti da aumenti di produttività. E questo richiede l'allargamento lo spazio della contrattazione di secondo livello. Ma questo si può fare davvero solo se si definiscono regole certe e nuove per la democrazia delle parti sociali: chi firma che cosa, a nome di chi, con quali verifiche. Il centro-destra sembra incoraggiare la divisione tra i sindacati, con conseguente paralisi. Il PD sembra limitarsi a perorare l'unità e a dividersi sulla partecipazione alle manifestazioni dei singoli sindacati. Ma è nel merito dell'innovazione necessaria che deve misurarsi.
e- Continua la vergognosa discriminazione tra lavoratori disoccupati o a rischio disoccupazione, mentre si approfondisce il dualismo interno al mondo del lavoro. Se ne esce con due precise scelte, non più rinviabili: contratto unico a tutele crescenti per i nuovi assunti (Ichino-Boeri-Leonardi) e sistema universale di ammortizzatori sociali. Flexicurity di tipo europeo, finalmente, anche in Italia.
f- Il settore dei servizi pubblici locali riveste rilievo strategico, sia per la qualità, sia per la quantità dello sviluppo. L'ennesimo tentativo di riformarlo con norme generali ed omnicomprensive (il decreto del governo Berlusconi del Luglio scorso) sta andando verso l'ennesimo fallimento. La svolta può venire da una strategia di liberalizzazione e rafforzamento dei soggetti impegnati in questo mercato da perseguire settore per settore, senza alimentare rendite a danno dei consumatori (imprese e famiglie).
g- La risorsa fondamentale per lo sviluppo, in Italia, è costituita dalle donne. Innalzare la loro partecipazione alle forze di lavoro è dunque essenziale. A questo scopo, bisogna adottare un complesso coerente di misure, organizzato attorno a due obiettivi: creare una dispari opportunità positiva a favore della assunzione di donne, invece che di lavoratori maschi (all'impresa, la prima deve costare significativamente di meno – nelle aree dell'obiettivo 1 – rispetto alla seconda); e riconoscere effettiva priorità ai servizi di conciliazione (in primis, asili nido).
h- La riforma federalista dello Stato, lungi dal dar luogo a maggiore spesa, può e deve essere realizzata con un netto innalzamento della qualità della politica (in forza dell'applicazione del principio di responsabilità) e con significativi risparmi di spesa.
i- Il rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, (e del Governo) nel suo rapporto col Parlamento, viene perseguito da Berlusconi attraverso il sistematico ricorso ai decreti-legge. È perdente una strategia di contrasto che si limiti a riproporre la "centralità del Parlamento". Ben altra efficacia può invece avere una strategia che riconosca l'esigenza di un rafforzamento dei poteri del Governo sull'agenda parlamentare, ma la collochi in un equilibrato sistema di pesi e contrappesi (es. contestuale riconoscimento del Consiglio dell'opposizione) e costringa il Governo stesso ad abbandonare la strategia dell'abnorme ricorso ai decreti legge.
Sono solo esempi. Servono per rendere chiaro che un partito che voglia effettivamente perseguire una strategia di così radicale innovazione non può dare alla propria politica un orizzonte di breve periodo; deve perseguire il proprio "insediamento selettivo" nella società italiana e deve selezionare i suoi interlocutori politici in funzione di questa proposta di innovazione. Su questa funzione nazionale il partito riformista può fondare la sua vocazione maggioritaria, ribadendo il rifiuto di qualsiasi ipotesi di "divisione del lavoro" interna al centro-sinistra.