Ieri a Roma si è svolta la CONFERENZA ECONOMICA DEL PARTITO DEMOCRATICO– segnaliamo l' Introduzione di Bersani, che potete leggere qui di seguito
"Svolgiamo questa conferenza nel pieno di una tempesta finanziaria che può riversare effetti rilevanti sull’economia reale. È un drammatico passaggio di fase. Non cade la globalizzazione. Cade l’interpretazione finanziaria della globalizzazione. La miccia si è accesa sui mutui ipotecari, si è estesa al sistema di cartolarizzazione dei prestiti, agli abnormi meccanismi piramidali, ai rapporti interbancari. ………………………………………………..
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COSI’ NON VA
CONFERENZA ECONOMICA
DEL PARTITO DEMOCRATICO
INTRODUZIONE
DI
PIER LUIGI BERSANI
ROMA , 6 OTTOBRE 2008
Svolgiamo questa conferenza nel pieno di una tempesta finanziaria che può riversare effetti rilevanti sull’economia reale. È un drammatico passaggio di fase. Non cade la globalizzazione. Cade l’interpretazione finanziaria della globalizzazione. La miccia si è accesa sui mutui ipotecari, si è estesa al sistema di cartolarizzazione dei prestiti, agli abnormi meccanismi piramidali, ai rapporti interbancari. Ovunque si invocano garanzie pubbliche o in via di riparazione o in via preventiva. Anche coloro che hanno stampato moneta falsa per mettersi in tasca quella buona e hanno infettato il mondo cercano oggi riparo presso lo Stato. I contribuenti, a cominciare dagli Stati Uniti, si convincono a pagare per evitare guai peggiori. Il rischio che si intravede non è solo il crollo del castello di carta della finanza creativa. Ci saranno, in una qualche misura inevitabili effetti depressivi e recessivi sull’economia reale. Se andiamo più a fondo nell’analisi di quel che è avvenuto ci accorgiamo di essere stati sospinti a questo esito drammatico da un modello che è invalso in particolare negli Stati Uniti e che ha affidato alla finanza un compito sostitutivo della crescita dei redditi da lavoro e della funzione della redistribuzione, quasi che toccasse alla finanza esprimersi come una specie di nuovo Welfare. Stefano Fassina ne parlerà e rimando quindi al suo intervento. In questo passaggio critico può e deve prendere forma e, già dalle prossime ore, non solo una politica europea mirata all’emergenza, non solo un rafforzamento ed una integrazione continentale della regolazione e del controllo dei mercati finanziari, ma anche, finalmente, un coordinamento delle politiche di bilancio per sostenere la domanda e per stimolare le attività economiche a cominciare dai problemi dell’accesso al credito per le imprese e per le PMI in particolare; a cominciare da un piano europeo per le infrastrutture e la crescita, secondo quella che fu l’ispirazione di Delors quasi venti anni fa, ispirazione di cui la destra di oggi produce fotocopie ritoccate dopo aver bloccato l’originale. Lascio all’intervento di Fassina la precisazione delle nostre proposte. Voglio solo denunciare qui il rifiuto da parte del Governo ad ogni informazione sulla crisi, anche in sede parlamentare. A differenza di ogni altro Paese il Governo non sente il bisogno di coinvolgere i rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione in una valutazione comune della situazione e in un confronto di valutazioni e proposte. Sono cronache di ordinaria arroganza. Voglio aggiungere qualcosa sui possibili riflessi protezionisti, nazionalisti e statalisti di questa crisi, anche per quel che riguarda il dibattito in casa nostra. Lo voglio fare innanzitutto sgombrando il campo dalle troppo facili palinodie. Solo il servo encomio, incredibile e imbarazzante, verso il Governo e il Ministro del Tesoro impedisce che venga fatta in questi giorni al Ministro Tremonti una semplice domanda: chi nel 2003 voleva introdurre pari pari il sistema dei mutui ipotecari americani a fini di rilancio dei consumi e di Welfare implicito? Come ci si può dimenticare oggi di una vicenda che impegnò le prime pagine dei giornali e che fu stoppata dall’opposizione in primo luogo nostra. Come ci si dimentica dell’abnorme sviluppo che avemmo allora della finanza creativa, delle parossistiche cartolarizzazioni e del via libera dell’accesso degli Enti locali a strumenti finanziari rischiosi. Tutto questo fece di noi uno dei migliori mercati per le banche d’affari del mondo (chiedo scusa dell’autocitazione ma, tutti i giornali allora ripresero una mia battuta: fermatelo sennò ci cartolarizzerà anche la nonna. Allora i commentatori sorrisero. Adesso se ne sono dimenticati). Il canto nuovo di Tremonti e del centrodestra non ci impressiona. Come direbbe Francesco Guccini, è semplicemente l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai con il torto. Questo canto nuovo non ci impressiona neanche quando rilancia temi protezionistici o statalistici che investono non solo la finanza ma l’insieme dell’economia reale. Diceva Galbrigth che i ricchi scoprono il socialismo quando serve a loro. Qui siamo in un caso del genere. Noi abbiamo un'altra idea. Ribadiamo che per l’Italia propugnare protezionismi significa tagliare il ramo su cui siamo seduti. Il che non significa in nessun modo negare l’esigenza di una regolazione molto più stringente, a cominciare dalla finanza, e di ragionevoli misure difensive contro speculazioni ed effetti dumping di ogni genere. Ma siamo totalmente contrari all’idea che lo stato occupi spazi propri mentre abbandona quelli suoi. Ci vuole più stato. Siamo i primi a dirlo e lo diciamo prima di ogni altro. Ma più stato dove? Oggi lo stato deve garantire le protezioni sociali rafforzando le strutture universalistiche e non concedendo al mercato la risposta a bisogni fondamentali. Lo stato deve garantire politiche fiscali progressive e redistributive più efficaci. Lo stato deve promuovere a livello internazionale ed allestire a livello nazionale strutture e strumenti più pertinenti ed efficaci di regolazione e controllo dei mercati. Lo stato deve determinare standard e politiche attive che sollecitino innovazione e qualità nella produzione e nei consumi. Lo stato deve garantire lo sviluppo e il radicamento nazionale (in attesa di quello europeo) di fondamentali reti strategiche materiali e immateriali. Lo Stato deve occuparsi di capitale umano, di infrastrutture, di ricerca e così via. Quante cose deve fare lo stato in economia, cose che non sta facendo o non sta facendo abbastanza! La destra è pronta a mettere lo stato nei luoghi impropri purchè non stia nei luoghi suoi. Può anche fare i panettoni, lo stato, purchè non faccia le regole. E allora, per i casi di oggi, lo diciamo chiaramente. Pretendiamo che lo Stato protegga i risparmiatori ma non chi ha tradito e tradisce i risparmiatori ieri, oggi e domani.
Questa discussione, tuttavia (alla quale anche io ho concesso qualcosa) non può essere a sua volta un’ennesima arma di distrazione di massa per far dimenticare il vero punto critico che ha di fronte oggi il nostro paese e che il Governo ha fin qui totalmente ignorato, inventando diversivi di ogni genere e lasciando correre l’idea che si tratti solo di stare con le mani in mano osservando dove va il mondo e facendo gli scongiuri. Altroché Governo delle decisioni. Qui c’è il decisionismo per le allodole. Sulle questioni vere, non si sta decidendo nulla. Mi riferisco all’avvitamento in corso nel nostro paese fra questione economica e questione sociale. È questo il cuore del nostro problema che ha il sapore dell’emergenza e ha dei nomi chiari: prezzi, redditi, consumi, produzione. Così non và. È tempo di tornare alla realtà. L’ISTAT ci dice che 14 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro al mese; che il 15% delle famiglie fatica ad arrivare a fine mese, che il 28% non può fare fronte ad una spesa imprevista, il 10% è in ritardo per il pagamento di bollette, il 4% non ha soldi per spese alimentari, il 10% per spese mediche, il 16% per l’abbigliamento. Se guardiamo al Sud queste percentuali raddoppiano. Intanto l’inflazione tendenziale ci porta sopra la media europea dopo un anno (a proposito di effetto sistemico delle lenzuolate!) in cui eravamo andati sotto la media europea. Questa inflazione non è ascrivibile né alla domanda interna né alle retribuzioni e quindi si scarica senza riparo alcuno sui redditi medi e bassi mentre i contratti si fanno con un ritardo medio di 12 mesi, il fiscaldrag non viene recuperato, le pensioni si svalutano, la produttività non va in tasca ai lavoratori. Ovviamente i consumi si riducono, come mai negli ultimi anni, le attività economiche orientate al mercato interno si indeboliscono, cresce l’incidenza della precarietà. Riprende a crescere la disoccupazione, si affaccia un picco della cassa integrazione con una ulteriore diminuzione della massa salariale spendibile, in un circuito vizioso che si auto alimenta. Ovvio che i dati sul PIL segnalino questo andamento recessivo con il tendenziale peggiore d’Europa (potremmo facilmente dire che nell’altro giro il centrodestra ci ha messo tre anni a portarci a crescita zero e stavolta ci ha messo solo tre mesi. Sono diventati rapidi e decisionisti e più che di Robin Hood forse si potrebbe parlare di Speedy Gonzales). Di fronte a questa vera emergenza il Governo è muto. Non c’è politica economica, e quando c’è è al rovescio. Il circolo vizioso non si rompe. Non è questione di assenza di risorse. Quando si vuole le risorse si trovano come si è visto in questi mesi partendo dall’Ici ed arrivando ad Alitalia. L’impennata preoccupante del fabbisogno colloca comunque il fabbisogno stesso al di sotto dell’evidente sovrastima del Governo. La solidità del risanamento degli ultimi due anni consentirebbe di guardare al pareggio di bilancio con margini di flessibilità. Cito il rendiconto dell’esercizio finanziario 2007 a firma Tremonti. “Il 2007 si è chiuso con conti pubblici sensibilmente più favorevoli del previsto. È il risultato di una politica economica che ha perseguito l’obiettivo della crescita e del risanamento. Ai risultati ottenuti hanno concorso sia le entrate sia le spese e, per le entrate, il grosso contributo è venuto dai frutti della lotta all’evasione fiscale, mentre l’espansione della spesa primaria e stata rallentata”. Prendiamo dunque per una volta Tremonti in parola, almeno quando gli scappa la penna. A chi dovrebbero andare i frutti di questo risanamento? Forse all’evasione e all’elusione fiscale? E se anche arrivassero tempi nei quali, come pare implicitamente suggerire il Governo, fosse necessario tirare la cinghia, chi verrebbe messo al riparo? I ceti più ricchi, i settori più forti e protetti? C’è un momento nel quale i soldi vanno trovati comunque! Adesso è il momento di mettere soldi in tasca a chi ha bisogno di spenderli, è il momento di urgenti misure per stimolare l’economia. È in questa chiave fondamentale che noi avanziamo le nostre proposte. In primo luogo si tratta di avviare immediatamente una progressiva ed incisiva diminuzione della pressione fiscale sulle retribuzioni medio-basse con detrazioni fiscali, revisione delle aliquote, o restituzione del drenaggio fiscale, dandosi una prospettiva triennale fino all’obiettivo di una riduzione del prelievo di 100 euro mensili. Bisogna affiancare a queste misure l’estensione della 14^ già varata dal Governo Prodi per 3 milioni di pensionati fino alle pensioni di importo di 1.000 euro. Le risorse che si intende destinare (peraltro, fin qui in modo del tutto confuso), alla così detta social card siano da dicembre trasformate in una misura strutturale per le pensioni più basse, che si aggiunga alla quattordicesima mensilità. Una quindicesima insomma. Ripetiamo che il finanziamento di queste misure è possibile mobilitando risorse di bilancio e preservando i risultati ottenuti in termini di fedeltà fiscale. Vogliamo su questo ultimo punto lanciare un allarme. Si stanno smantellando strumenti, certamente migliorabili, ma essenziali ai fini di un consolidamento di una nuova fedeltà fiscale. Sto parlando della cancellazione o della vanificazione della tracciabilità dei pagamenti, della definizione agevolata dei verbali di verifica, del depotenziamento dell’amministrazione finanziaria con la demolizione del sistema di incentivi e di epurazioni vere e proprie nelle funzioni dirigenziali. Mettendo l’orecchio a terra sentiamo già oggi l’effetto di tutto questo. Il messaggio è inequivocabile e incoraggia l’evasione. Ecco allora la nostra seconda proposta: quella di un nuovo patto sulla fiscalità. Una proposta positiva. Potremmo dire: una Maastricht del fisco, con l’obiettivo di raggiungere entro un certo numero di anni la media europea della fedeltà fiscale. Ciò può avvenire in particolare attraverso meccanismi che consentano davvero emersione e tracciabilità, anche al prezzo purtroppo inevitabile di qualche adempimento che può gravare anche sui contribuenti onesti. In questo patto deve stare il riconoscimento che per i sistemi di PMI il combattimento con il fisco ha riguardato spesso la vita dell’impresa e non il portafoglio dell’imprenditore. Da qui l’esigenza di individuare un ruolo crescente di sistemi semplificati di imposizione. In questo patto possono essere compresi obiettivi di alleggerimento fiscale già iniziati per le imprese con il Governo Prodi (IRES, IRAP, cuneo, forfettone) e che hanno spostato nettamente la posizione dell’Italia nelle tabelle europee sul carico fiscale; tutto interrotto da un Governo che, nel silenzio generale, è clamorosamente venuto meno alle proprie promesse. Dobbiamo insomma avere tutti consapevolezza che al confronto con le medie europee quel che ci distingue non è il livello della spesa pubblica (che per altro va contenuta, riconvertita e radicalmente qualificata) bensì un livello di fedeltà fiscale nettamente più basso che risente in particolare di una abnorme dimensione del sommerso. Diciamo con chiarezza che chi opera in nero verso fornitori clienti o lavoratori non fa parte del nostro universo. Sarà questo uno dei punti di una carta dei valori “piccole medie imprese territorio” sulla quale lavorerà, insieme con Matteo Coloninno, Giancarlo Sangalli. Sarà per noi l’occasione per affermare la centralità della piccola e media impresa nel nostro progetto per l’Italia e di dire al contempo come il civismo di impresa abbia a che fare con la competitività e la crescita. La nostra terza proposta riguarda il sistema contrattuale e la possibilità di presidiare e rafforzare il potere di acquisto promuovendo e distribuendo guadagni di produttività, allestendo adeguati meccanismi di riparo dall’inflazione e garantendo un ordinato, puntuale ed efficace andamento della contrattazione. Noi valutiamo da un nostro autonomo punto di vista la discussione in corso fra le parti sociali. Rimarchiamo come questo confronto si riveli difficile perché non è stato inquadrato in una prospettiva di politica economica indicata dal Governo. A proposito dei richiami al ’93, ben altro fu il metodo di allora! Se il Governo non ci mette del suo, in termini di quadro di riferimento e di azioni concrete, tutto diventa più complicato. Noi riteniamo comunque necessario che venga garantito il ruolo specifico ed essenziale della contrattazione nazionale, indispensabile per la coesione del sistema, e che si sviluppi realmente una contrattazione decentrata capace di stimolare e distribuire incrementi di produttività. Ribadiamo che la produttività non si misura con lo sforzo muscolare dei lavoratori o con il numero di ore lavorate ma con un adattamento creativo e flessibile del lavoro a processi di innovazione delle imprese. Questi processi devono rendersi visibili e esigibili a fronte di politiche industriali pubbliche di sostegno. Riteniamo altresì necessario che i contratti garantiscano un recupero dell’inflazione, naturalmente in forme tali da non avviare spirali inflazionistiche. Peraltro ci preoccuperebbe una inflazione programmata o variamente negoziata che, al di la delle giuste articolazioni dei modelli contrattuali, fosse balcanizzata fra settore e settore, fra categorie e categorie, fra pubblico e privato. Qui ci sono le più gravi responsabilità del Governo sia per quel che riguarda l’irrealismo dell’inflazione programmata sia per quel che riguarda l’indisponibilità ad accompagnare questa fase con detrazioni fiscali che interessino la generalità dei lavoratori e non solo le iniziative di sostegno alla produttività, (peraltro utili si ma anch’esse da perfezionare). Quanto al ruolo delle forze sociali riteniamo giusto rafforzare elementi di sussidiarietà, già positivamente sperimentati in contratti riferiti alla piccola impresa e all’artigianato, ma non fino al punto di far venire meno alcune funzioni pubbliche e universali che lo stato deve garantire, a cominciare dalla sicurezza sul lavoro. Dentro a questi criteri, ribadiamo con nettezza il nostro interesse a che si realizzi un punto d’incontro all’interno del mondo del lavoro e fra il mondo del lavoro e l’insieme dell’organizzazione di impresa per un aggiornamento dei modelli contrattuali. Per ciò che sta in noi siamo pronti a dare il nostro contributo.
La quarta proposta riferita al potere d’acquisto riguarda l’immediato intervento a favore del cittadino – consumatore, con il trasferimento di risorse dai settori protetti alle tasche dei cittadini.
Banche, energia, assicurazioni, telecomunicazioni, concessionari di ogni genere e specie, sono stati messi a tu per tu con il Governo invece di essere messi a faccia a faccia con il consumatore. Qualche elemosina fiscale, facilmente scaricabile sui clienti, ha sostituto il rafforzamento del consumatore. Bisogna riprendere la strada segnata in particolare dalla cosiddetta terza lenzuolata già approvata alla Camera nella scorsa legislatura. Andiamo al concreto. Sto parlando dell’abolizione della Commissione di massimo scoperto, della trasferibilità e della surroga dei mutui spiazzate dall’ipocrita accordo – Tremonti sulla rinegoziabilità. Sto parlando dei costi di gestione dei conti bancari, della RC auto, delle concessioni autostradali, della restituzione dell’Iva a fronte degli aumenti della benzina, delle nuove tariffe telefoniche, dei prezzi dei voli aerei, del prezzo dei farmaci su cui la retromarcia è ormai evidente e della riforma dei servizi professionali rimasta al palo o ostacolata nelle novità introdotte negli ultimi due anni. Sto parlando in particolare della class action, cancellata 2 mesi fa e che deve essere ripristinata senza castrarla nei confronti dei più gravi fatti finanziari ai quali potrebbe aggiungersi qualche recente bad company. Quanto alla pubblica amministrazione, invece di occuparsi di spot pubblicitari, il Governo riprenda la nostra norma sull’auto certificazione rafforzata da strutture professionali assicurate, di una serie di autorizzazioni in campo economico, così da spostare la pubblica amministrazione verso la verifica e il controllo, così da muovere le professioni da luoghi improduttivi verso luoghi di efficienza, così da dare speditezza alle iniziative produttive. L’insieme di queste ed altre iniziative porterebbe subito diversi miliardi nelle tasche dei consumatori, favorirebbe concorrenza e occupazione, darebbe stimolo alle attività economiche. Naturalmente non si può mettere soldi in una tasca e toglierli dall’altra. Mentre si parla (o più spesso si chiacchiera) di federalismo (e noi ne parleremo seriamente presentando nei prossimi giorni la nostra piattaforma) si sta togliendo ossigeno ad alcuni servizi fondamentali a base territoriale. Ha detto bene il Presidente Errani commentando la legge delega del Governo: è un primo passo ma non accettiamo bufale. Comuni, provincie e regioni stanno combattendo su questo punto ed hanno il nostro sostegno. Solo chi guarda il mondo con gli occhi dei ricchi non sa che cosa significhi un indebolimento dei servizi territoriali e perfino i risvolti drammatici che può avere.
Ecco allora il quinto punto che solleviamo. Garantire che il contenimento della spesa decentrata non intacchi i servizi sociali fondamentali. Se ne parlerà nel nostro dibattito. Due cose solo voglio aggiungere non si pensi che, se si vuol fare sul serio, il federalismo fiscale possa essere affidato ad un Governo sulla base di una vaghissima delega. Ci vogliono procedure rafforzate, ci vuole una commissione bicamerale che lavori sul serio. Per quanto ci riguarda deleghe generiche non ne daremo. Aggiungo che non si può predicare il federalismo e poi dare i soldi a Catania stracciando ogni regola da ogni parità di condizioni noi non accettiamo derive clientelari.
La sesta proposta che avanziamo riguarda le attività economiche ed in particolare le attività industriali.
Fatto 100 la quantità di produzione industriale del 2000, l’Italia è a 95, la Germania è a 120, la Francia è a 105 , la UE è a 112.
Il valore della produzione ha tenuto, c’è più lavoro aggiunto ma al prezzo di una dura selezione ancora in corso e di una divaricazione radicale fra le aziende. Mostra di farcela chi ha affrontato l’internazionalizzazione, chi ha introdotto innovazione di prodotto organizzativa, chi è cresciuto di dimensione per via diretta o dentro sistemi a rete. Tutto questo a prescindere dai settori. Soffre chi è rimasto fermo o chi è legato a un mercato interno fortemente segnato dalla crisi dei consumi e da una penetrazione delle importazioni non solo nei segmenti di bassa gamma ma anche in segmenti tecnologici o ad alto valore aggiunto. Non a caso i segnali critici vengono dall’informatica, dall’elettrodomestico, dall’elettronica e dall’agroalimentare, dalla meccanica di base nonché, e in modo davvero preoccupante, dalle costruzioni. Si continua a parlare d’altro, ma noi avremo un autunno con meno occupazione industriale e con molta , molta cassa integrazione. Il Governo si occupa poco o nulla di crisi aziendali. Noi dobbiamo dare voce a quel silenzio ed essere la dove ci sono i problemi. Ci organizzeremo anche come partito, per offrire un riferimento alle crisi diffuse del Paese. Ci sono crisi che avvengono in modo molecolare. Per la prima volta dalla riforma del settore il numero degli esercizi commerciali si riduce; il turismo soffre, l’artigianato di servizio e di vicinato è in difficoltà. Molte imprese chiudono.
Tutti questi fenomeni sono drammatici al Sud. Inutile perdere tempo con le cifre. Gli indicatori sono tutti negativi, il divario si accentua. Ci occuperemo con iniziative specifiche della politica nazionale per il mezzogiorno. Cominceremo il 21 ottobre con una giornata di analisi e proposta che terremo a Potenza. Affiancheremo l’iniziativa con un documento parlamentare di piattaforma. Dopo la manifestazione del 25 ottobre credo dovremo immaginare un appuntamento di mobilitazione che presenti in forme più visibili la nostra denuncia. Siamo di fronte all’abbandono di ogni politica sul divario e a una indiscriminata rapina delle risorse destinate al Mezzogiorno. Il FAS è diventato ormai la borsa di Mary Poppins dalla quale pescare per ogni bisogno o per ogni capriccio. (Addirittura in questi giorni il FAS è stato usato a ripiano dei disavanzi correnti degli enti locali!). Noi inquadriamo le nostre politiche industriali e le politiche per il Mezzogiorno dentro al quadro unitario del programma Industria 2015, un quadro che va rafforzato e rilanciato e che viene invece oggi indebolito e azzoppato. In quel quadro c’è un piano realistico di alleggerimento fiscale in continuità con le misure del governo Prodi, c’è il credito di imposta sulla ricerca da rendere strutturale, c’è il credito d’imposta automatico per gli investimenti, che è stato distrutto da questo Governo, che va ripristinato a fronte della chiusura di leggi come la 488, chiusura che va confermata. In quel quadro ci sono strumenti di garanzia per l’accesso al credito delle PMI che vanno immediatamente rafforzati in questa fase di acuta criticità. In quel quadro ci sono progetti interfacciati di innovazione tecnologica e sviluppo dei consumi nell’area dell’efficienza e del risparmio energetico, della mobilità sostenibile, del made in italy, dei beni culturali, della salute. Le prime misure e i primi bandi sono un successo e mostrano in particolare la possibilità di fare rete fra le piccole imprese. Prendere da quei bandi i trecentomilioni da buttare nel buco Alitalia è stato un delitto. Delitto ancor più grave si sta consumando sottotraccia nel riportare ai ministeri la valutazione dei progetti industriali sottraendoli all’Agenzia dell’Innovazione che abbiamo allestito a Milano secondo trasparenti modelli europei. Questa scelta fa più o meno il paio con l’attacco alle autorità indipendenti, a cominciare, da quelle veramente indipendenti. Attacco che intendiamo respingere con ogni forza. Il quadro di Industria 2015 contiene altresì l’allestimento di progetti – paese per qualificare i consumi e per avviare cicli di investimento pubblici e privati. Ecco qualche specifica proposta.
1) rafforzare piani di efficienza energetica e di risparmio nell’edilizia, nei consumi durevoli, nella mobilità. Sono interventi che fanno PIL, che migliorano l’ambiente e che a questo prezzo dell’energia, si pagano da soli.
2) Sostenere un ciclo di investimenti dell’energia. Mi riferisco non solo ai gassificatori (il primo l’abbiamo fatto noi e l’ha inaugurato lui) ne solo al completamento del piano di produzione elettrica. Mi riferisco a interventi assolutamente immediati. Ci sono ad esempio alcune centinaia di milioni spendibili per il decommissioning delle centrali nucleari. Questa sarebbe, fra l’altro la vera palestra per la nostra industria nazionale. Mentre si chiacchiera di nucleare non si fa nulla di quel che si dovrebbe fare, anzi si complicano e si rallentano le operazioni. Per inciso faccio notare che quegli stessi che non vogliono i francesi in una compagnia aerea sono pronti a legarsi mani e piedi ad una tecnologia strategica totalmente altrui, inabbordabile per le nostre imprese nazionali, e su una operazione di produzione nucleare che ci dovrebbe garantire (così si dice) il 25% della nostra produzione elettrica.
In campi come l’allestimento della rete di telecomunicazione di nuova generazione, in campi come le bonifiche e le reindustrializzazioni di aree a vocazione produttiva, in campi come la casa è possibile saldare immediatamente e saggiamente con risorse pubbliche già disponibili un ciclo di investimenti privati. Se il Governo accettasse di mettere a fuoco alcuni di questi progetti – paese noi saremo pronti a cooperare con le nostre proposte e con l’influenza che ci è possibile esercitare. Denunciamo invece i colpi mortali che vengono dati anche in questi giorni ai programmi infrastrutturali smentendo anche in questo caso in modo clamoroso l’impegno elettorale. Pretendiamo una operazione verità sulle infrastrutture. Non aggiungo altro e rimando per le specificazioni all’intervento di Andrea Martella.
Con la discussione di oggi costruiamo la nostra piattaforma economica da far vivere in parlamento e nel paese. Resta il problema di darci le gambe per far camminare le nostre idee. Usciti dalla fase costituente, stiamo entrando nella fase di costruzione vera e propria del partito. Lo facciamo nel vivo della campagna di opposizione e questo ci deve aiutare a collegare intimamente il partito nuovo ai bisogni ed alle aspettative più profonde del popolo che vogliamo rappresentare. Perché questo sia possibile dobbiamo darci una organizzazione efficace ed operante. Eccoci dunque a qualche comunicazione di servizio. Con questa iniziativa diamo vita alla consulta economica del PD. La consulta risulterà dalla composizione del Comitato Economia-Finanza espressione delle Commissioni parlamentari e dai responsabili per l’economia dei comitati regionali. Dobbiamo darci rapidamente le necessarie connessioni fra centro e territori alimentandole di contenuti e dando luogo ovunque ad iniziative che ci aiutino a guardare la gente e farci guardare dalla gente all’altezza degli occhi e sui problemi della vita reale. Stiamo costruendo la squadra e la rete che renderà possibile tutto questo.
Sono alle conclusioni. Abbiamo voluto che in questo appuntamento si stesse al concreto e si dicessero più cose che parole. Anche io ho cercato di fare così. Non voglio tuttavia chiudere senza un cenno alla connessione fra la battaglia economica e quella politica e ideale. Cerco di spiegarmi così, in due parole. Noi cresciamo meno di ogni altro paese europeo e questo avrà pur qualcosa a che fare con il fatto che la forbice fra i redditi è da noi la più alta d’Europa e con il fatto che la mobilità sociale è da noi la più bassa. Per crescere economicamente serve dunque più uguaglianza e cioè piena affermazione dei diritti sociali, sviluppo di politiche redistributive, riduzione del divario fra i territori. Per crescere di più serve più libertà e cioè la rottura di conservatorismi e il coraggio di riforme che attacchino meccanismi relazionali, corporativi, regressivi che imprigionano le nuove generazioni e le dinamiche di innovazioni dei protagonisti economici e sociali. Su questi fronti e in alternativa alle ricette della destra populista, si possono portare dal cielo alla terra i valori di una sinistra democratica, popolare, liberale che essendo con convinzione se stessa può indicare una altra strada al Paese.