L’arrivismo spegne la fiamma – FEDERICO ORLANDO – Europa 9 febbraio 2008
Per gli anziani, sarà imbarazzante trovarsi in mano una scheda elettorale senza la fiamma, sia pur ridotta a fiammella. C’è chi ricorda quel 26 dicembre 1946, quando i repubblichini superstiti all’ecatombe postliberatoria, che s’erano fin lì consolati con Rosso e Nero, Il Meridiano, La Diga, Rataplan, La Rivolta ideale e qualche altro foglio dal titolo orianesco o marinettiano, diedero vita al partito neofascista o Fiamma di De Marsanich, Romualdi e Almirante: mentre gli animi s’infiammavano del trafugamento della salma del duce da Musocco e del colpo di mano alla Rai che trasmette Giovinezza.
Niente più fiamma. Nemmeno dopo il parziale spegnimento di dieci anni fa a Fiuggi, con le gote del professor Fisichella, più gonfie di demaistrismo e di Action Francaise che di neofascismo, sia pure nella riscrittura populistapresidenzialista fattane dai (mancati) costituzionalisti a Salò.
Stavolta, – lo dice Fini, giovedì sorpreso dal coup de theatre di Berlusconi e venerdì rassegnato al perenne ruolo di attor giovane, in rinnovata promessa di diarchia – c’è uno storico evento per spegnere del tutto la fiamma: Veltroni va da solo, Berlusconi non può non imitarlo e, per batterlo, ha bisogno che i fascisti (coi quali non voleva stare da solo, senza Casini) allunghino la camicia ex nera, si facciano chierichetti, entrino nel listone gollista con Forza Italia e insieme finiscano nella discarica di tutti i conservatori d’Europa, il Partito popolare della baronessa Thatcher e del canonico in pectore Aznar.
In realtà, che a sessant’anni dal battesimo il postfascismo fosse esausto, voglioso solo di governo dopo averne assaggiato i sapori per un’intera legislatura e pagato, per quei sapori, il necessario prezzo dello snaturamento, era evidente e in parte accettato anche fuori del palazzo. Tanto necessario quel prezzo che Almirante, prevedendolo, lasciò la sua creatura al giovane Fini, perché la rapportasse ai tempi e non l’imbalsamasse nel passato. Cosa che avrebbero fatto i gerarchi della prima ora, che si fregiavano dell’alloro del governo Tambroni (con la rivolta di Genova e i morti in tutta Italia), dei boia chi molla di Reggio Calabria, e della vendemmia elettorale di Catania in risposta al terrorismo e ai governi degli scarabocchi. La mummia era durata quasi cinquant’anni, al punto che solo uno con lo stomaco di struzzo di Berlusconi potette avviarne la rianimazione con lo storico «Tra Fini e Rutelli voterei Fini» (1993); ma non fino a convincere l’allobrogo Bossi, che l’anno dopo impose la segregazione razziale del «fascista»: Berlusconi corra pure con Fini nel Mezzogiorno (Casa del buongoverno) ma al nord solo con la Lega (Casa della libertà).
Di quanti bocconi amari è fatta la politica, prima di rosicare il boccone buono. Così Fini dovette passare le acque a Fiuggi, alla fonte di Bonifacio VIII, che Dante aveva messo all’Inferno. Ma dai bocconi amari e dal pre-sarkozysmo allo snaturamento transgender, per i camerati machi non traslocati da Storace dev’ essere amaro. Anche perché qualcosa del primo Mussolini socialista, nella rilettura di Fisichella (incompatibilità tra onnipotenza del denaro e democrazia), deve essere rimasta in qualche angolo ben tenuto del covo; insieme a quel senso dello Stato che, sia pure degenerato in statolatria, il Cavalier Benito aveva conservato anche dopo aver legato il paese al Concordato. Ma al nuovo Cavaliere la socialità e il sindacalismo nazionale, la diffidenza antiplutocratica, lo stato con la S maiuscola, e altre questioncelle care al Msi e anche ad An sono estranei come a noi l’idea di fare un viaggio sulla luna. Perciò in alcuni questo passaggio dal primo al secondo Cavaliere oggi avrà provocato un po’ di pianto, come un secondo 25 aprile.
Ma – vogliamo essere sinceri con noi stessi – non in moltissimi. In fondo, l’operazione transgender il fascismo l’aveva già fatta quando da movimento si trasformò in regime e dai pretoriani in camicia nera spostò lo sguardo all’eterna, avida, atea borghesia, che non ha altro dio fuori del potere.
Era avvenuto negli anni Trenta, si ripete adesso dopo settant’anni: la vera grande imperdonabile contraddizione di Fiuggi fu aver chiamato Alleanza “Nazionale” una forza della borghesia, che alla Nazione non ha mai creduto, e nulla ha fatto per crearla, occupata solo a garantire la propria continuità nel potere: dall’oligarchia liberale dei gattopardi al consenso per il fondatore dell’impero, dalla democrazia cristiana del papa-re al berlusconismo del condono perpetuo.
Perciò, provo più rammarico per la morte della mamma di Fini, che non ha voluto assistere a quella della creatura di suo figlio, che non per la fine di un partito che, anche se Giuliano Ferrara chiude un occhio, è nato in laboratori di eugenetica.