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Menichini- effetto Pci – Europa

By 17/04/2008Politica

16 aprile 2008

Trentatrè per cento. Partito forte e interclassista. Radicamento  prevalente nel Centro Italia. Punte record di consensi nelle grandi  città. Sindaci e amministratori premiati. Piazze piene, campagne elettorali entusiasmanti. Il carisma di un leader popolare. Il governo ombra, tanti deputati e senatori. A sinistra, solo gruppi  extraparlamentari. Disponibilità al dialogo con gli avversari politici. Ma è il Partito democratico del 2008 o il Pci del 1976? Niente  paura, non correremo con i confronti storici, così ardui a distanza di trent'anni. E anche paradossali, nel momento in cui i comunisti  spariscono per la prima volta nella storia d'Italia dal parlamento. Vorremmo essere liberati da un'ansia che già turbava la gioia per i comizi affollati di Veltroni, e che ci portiamo dentro più forte da  lunedì sera.

Nello scontro elettorale il Pd ha trovato l'identità che gli mancava
dalla fondazione. Appare come un vero partito, una comunità di donne
e uomini, militanti e dirigenti, elettori ed eletti. Fragile e
ancora disorganizzato (prima smentita dell'azzardato paragone con
gli anni '70), ma capace di autoriconoscersi, come Ds e Margherita
ognuno per la propria parte non erano mai riusciti a fare.
È una conquista importante, vuol dire che le fondamenta ci sono,
indietro non si torna, non si parlerà più di partito liquido o
fusione fredda.
Bene. Come è bene che il Pd appaia potenzialmente in grado di
interpretare le istanze di novità e di modernizzazione che salgono
dal paese, perché se non altro ha deciso di svecchiare la propria
cultura politica e di aggiornare la linea su questioni decisive:
dalla sicurezza al lavoro, dalla crescita delle imprese all'apertura
dei mercati.
Il problema è che questo grande partito di popolo nuovo e moderno
(come apparve all'Italia il partito di Berlinguer alla metà degli
anni '70) sembra avere nel suo glorioso destino un problema simile
ad allora: un invalicabile muro che limita la sua espansione
elettorale a una soglia che non giustifica ambizioni di governo,
anche perché è limitato il margine di manovra sulle alleanze.
Questo ragionamento rischia di somigliare a un sofisma, nelle ore in
cui il Pd si misura con i dati nazionali negativi e mentre a Roma si
consuma un autentico dramma: la vicinanza fra Rutelli e Alemanno
nella prospettiva del ballottaggio rende concreto il rischio che la
Capitale possa venire governata, per la prima volta nella sua
storia, da un sindaco eletto grazie all'apporto determinante delle
frange di destra neofascista adesso raccolte intorno a Francesco
Storace.
In realtà, anche davanti a un'emergenza come quella romana si impone
un discorso rapido e incisivo su che cosa si voglia fare del Pd.
Perché anche il dato del Campidoglio pare discendere dallo stesso
errore di valutazione che ha segnato il risultato nazionale: eravamo
tutti convinti che a sinistra del Pd esistesse ancora un bacino
attivo di elettori, reattivi all'appello dell'Arcobaleno, capaci di
insidiare nella corsa per il senato la raccolta di seggi del Pdl in
varie regioni, e di concentrarsi a Roma sul candidato che aveva
tenuto viva l'alleanza ampia del centrosinistra.
Non è così. Da nessuna parte. La frana di Bertinotti e compagni
lascia sulla sinistra del quadro politico solo un cumulo di macerie.
Come negli anni '70, il più grande partito riformista si volta alla
sua sinistra e non trova alcun bacino di espansione. Ha preso tutto,
e l'elettorato ex rossoverde che non è già stato recuperato dal Pd è
del tipo talmente mobile e marginale (nel senso scientifico del
termine) che non sappiamo neanche esattamente dove si trovi in
questo momento.
Per motivi storici, ideologici e di quadro internazionale, il Pci
non potè mai neanche darsi l'ambizione di rivolgersi dall'altra
parte, di coltivare concretamente ambizioni di crescita in un
elettorato che era allora presidiato in maniera arcigna anche da
Craxi.
Se la stessa sorte dovesse toccare oggi – con tutte le differenze
del caso – al Pd, quella che ieri pareva una sconfitta grave ma
rimediabile assumerebbe le sembianze del fallimento di una missione.
Avremmo attraversato l'epopea ulivista solo per ritrovarci, senza
Prodi, a battagliare col fiatone per recuperare soltanto (e già
sarebbe molto) gli stessi voti tradizionalmente raccolti dal
centrosinistra in questi tre lustri.
È chiaro che non può essere così. Già dai prossimi quindici giorni a
Roma, che pure saranno giustamente segnati dalla caccia a ogni voto
smarrito da parte della sinistra rossoverde. È chiaro che la
discontinuità veltroniana – alla quale fortunatamente il gruppo
dirigente democratico ha confermato pieno appoggio – deve
approfondirsi, divenire ancora più acuta, inverarsi in atti e gesti
concreti sulla scia di quel saluto sportivo al vincitore delle
elezioni che, speriamo, sarà stato apprezzato da tanti italiani non
elettori del Pd.
Chi avesse pensato (alcuni l'hanno fatto, pochi l'hanno anche detto)
che tra i compiti del Pd c'è adesso un'opera di recupero e
addirittura di rappresentanza dell'ex elettorato di Bertinotti, non
vede la realtà. E cioè che la parte matura di quell'elettorato ha
già accettato la svolta riformista e ha già dato fiducia (che certo
andrà coltivata) a Veltroni, nonostante la sua linea presunta
moderata, o forse addirittura proprio per questa. Dare voce
democratica all'estremismo è un lavoro che poteva fare il Pci,
rinunciando anche per questo competere per il governo.
Il Pd nasce per altro. Per farsi sentire dall'enorme Italia rimasta
di là dal muro, e per sfondare il muro.

 

 

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MAGDA NEGRI

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