LA MAGGIORANZA RIFORMISTA – di Enrico Morando – MONDOPERAIO maggio 2009
Nella società c'è una maggioranza riformista. Il problema della sinistra – oggi, si direbbe meglio centrosinistra, dopo il New Labour di Blair, la Neue Mitte di Schroeder e il PD in Italia – è quello di definire una politica (leadership, programma, cultura politica) che le consenta di interpretarne le istanze, componendole in una proposta di governo efficace e credibile.
Il discorso di Martelli sull'alleanza riformista tra merito e bisogno non contiene l'espressione "vocazione maggioritaria", ma esattamente di questo tratta: "Questa possibilità dipende dalla capacità nostra di socialisti di definire un programma ed una politica che parlino alla maggioranza riformista che sta tra la classe operaia che noi rappresentiamo e il restante 70% della società che non rappresentiamo adeguatamente o che abbiamo appena cominciato a conoscere".
Chi non sa distinguere tra vocazione maggioritaria e presunzione di autosufficienza, strabuzzerà gli occhi: il PSI non arrivava, nei primi anni ottanta del secolo scorso, al 15% dei voti. Quale vocazione maggioritaria poteva mai nutrire, con quel livello di consenso? Martelli risponde affermando la priorità del progetto: "Senza idee chiare non solo non si può camminare ma, ciò che è peggio, non si può né pensare né comunicare". Infatti, a determinare l'insuccesso di quella strategia – sostanzialmente fallita già nella seconda parte degli anni '80 – non fu né l'esiguità del consenso di partenza del partito che l'aveva elaborata, né un deficit di leadership. Fu la (troppo) grande distanza tra l'ambizione del progetto e i caratteri, intimamente contraddittori con lo stesso, del partito che se ne faceva interprete. Negli anni immediatamente successivi alla Conferenza di Rimini, a conferma dell'intuizione di Martelli sul ruolo strategico, dentro l'alleanza riformista, dei nuovi ceti "del merito", una quota significativa di lavoratori del terziario avanzato, delle tecnologie ITC, delle professioni liberali guarda con interesse al PSI di Craxi, considerandolo un potenziale interprete delle sue istanze di modernizzazione socialmente equilibrata. Ma ciò che vede è una Grande Riforma delle istituzioni più predicata che praticata (sarà l'onda di rifiuto della politica "vecchia" a travolgere l'invito ad andare al mare che proprio Craxi rivolse agli elettori in occasione del primo referendum elettorale, nel '91). Vede un partito tranquillamente dedito a profittare della sua rendita di posizione per accrescere la "sua" quota di Pubblica Amministrazione infeudata, invece che a combattere quel "dissesto dello Stato che non solo ostacola l'innovazione e lo sviluppo tecnologico ma… penalizza la povera gente, le sottrae mezzi, servizi, possibilità".
La "maggioranza riformista sommersa", che nei primissimi anni '80 esiste davvero nel Paese e si riconosce nel piglio decisionista di Craxi Presidente del Consiglio e nella piattaforma di Rimini, resta progressivamente priva di riferimenti, sicché quando il PSI vedrà esaurirsi la spinta propulsiva del suo duro "rapporto contrattuale" con la DC, non avrà in mano nulla con cui sostituirlo: non uno sfondamento elettorale nel campo democristiano, non la conquista di una egemonia a sinistra, da far valere nella fase del crollo del comunismo, almeno nel senso del Graecia capta ferum victorem coepit.
L'ultimo treno
La piattaforma politico-culturale-programmatica di Rimini avrebbe potuto essere posta a base – cambiato quel (poco) che c'era da cambiare – della svolta "socialdemocratica" che portò dal PCI al PDS, dopo l'89. Ma ad impedire questo esito congiurarono due fattori: da un lato, una concezione della "unità socialista" di Craxi che sottovalutava e addirittura dismetteva i suoi fattori di forza (la definitiva vittoria del revisionismo socialdemocratico alla Bernestein sul comunismo, per originali che fossero le versioni di quest'ultimo), per concentrarsi sull'obiettivo del fagocitamento organizzativo del PCI da parte del PSI (operazione semplicemente impossibile per impedimento "naturale"). Dall'altro lato, il progressivo prevalere – nella maggioranza del PCI che dà luogo alla svolta – dell'idea della fuoriuscita "da sinistra" dal comunismo. Se la sinistra italiana perse anche nel '89 l'ultimo treno diretto verso la stazione della costruzione di un grande partito socialista a vocazione maggioritaria, capace di svolgere in Italia la stessa funzione svolta in ogni Paese europeo dai partiti laburisti e socialdemocratici, molto fu dunque dovuto al fatto che il PSI – che aveva elaborato la piattaforma utile allo scopo – non aveva il carattere, la leadership collettiva, il radicamento sociale necessari per interpretarla ed affermarla; e il PCI-PDS, che aveva la forza elettorale, il radicamento sociale e una leadership diffusa – il grande corpo degli amministratori locali, socialdemocratici senza saperlo – non aveva un profilo politico-culturale coerente con l'obiettivo che pure – dopo l'89 – dichiarava di perseguire, attraverso l'adesione all'Internazionale Socialista e la partecipazione alla fondazione del PSE.
Persa l'occasione dell'89 (a metà anni '90, già non esistevano più le condizioni necessarie) la grande prospettiva del "partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria" non può più credibilmente essere riferita ad un partito "socialista". Inizia in quella fase la convulsa e confusa discussione che porterà nel 2007 – con i soliti dieci anni di ritardo rispetto alle esigenze – alla nascita del Partito Democratico. Non ho mai considerato casuale che il primo partito italiano ad avanzare la proposta di dar vita ad un unico, grande partito di centrosinistra sia stato il piccolo SDI di Boselli (casuale – cioè determinato da specifici accidenti tattici – è semmai che i più diretti eredi del PSI di Craxi non si siano ritrovati tra i soci fondatori al momento della sua nascita effettiva): la piattaforma politico-culturale di Rimini – il momento più alto di elaborazione di una "visione" riformista sul futuro del Paese – e le ambizioni maggioritarie ad essa connaturate spingevano in quella direzione, sia (soprattutto) alla dimensione nazionale, sia alla dimensione internazionale (anche in questo caso: in Italia, sarà Craxi a prospettare il progetto di una grande Internazionale Democratica).
Il fatto è che a Rimini – come accadrà venticinque anni più tardi, col discorso di Veltroni al Lingotto – vengono presentati i capisaldi di cultura politica di una strategia che non subordina il cambiamento da realizzare nel Paese ai rapporti tra le forze politiche che compongono lo schieramento progressista, ma si tenta l'operazione opposta: si costruisce il partito su di un progetto, si individuano i soggetti sociali che possono (e vogliono) esserne interpreti, si subordinano a quel progetto le alleanze politiche. E questo richiamo al progetto, al programma di cambiamento del Paese, non viene messo strumentalmente al servizio della più spregiudicata e trasformista tattica delle alleanze (PCI, PSI e DC venivano da più di un decennio di reciproco gioco allo scavalco, praticato in nome di un'improbabile priorità dei programmi), ma della identità e della funzione stessa del partito.
Il blocco sociale
Il superamento dello schema rigido del "blocco sociale" di riferimento non potrebbe essere più esplicito: il progetto riformista è quello di chi ha il potere di produrre cambiamento, perché possiede le capacità, le conoscenze, le abilità necessarie per farlo e "vuole" farlo (la componente del merito); e quello di chi deve cambiare, spinto com'è dal bisogno che "esclude dalla cultura e dal benessere" e produce quel "dolore che è miseria perfetta". Dunque, non tutti quanti fanno parte dei ceti più dinamici, ma quelli tra di loro che non hanno una visione corta ed egoistica del loro merito. E tutti i bisognosi, ma solo se rifiutano di farsi difensori acritici di un ceto burocratico che giustifica con le loro condizioni di povertà ed esclusione la sua arcigna difesa dello status quo.
Si tratta di una visione che prende molto dal riformismo socialista eticamente fondato di Bernstein (a sua volta, esplicitamente tributario verso la Fabian Society) e moltissimo dall'elaborazione della sinistra liberal americana (non è un caso che, a Rimini e nelle iniziative che avevano preparato quella conferenza, Rawls compaia tra gli autori più citati). Questa svolta di cultura politica viene determinata – ad opera del gruppo dirigente del PSI – mentre è in corso un tumultuoso cambiamento della società italiana. Martelli dà conto dell'accresciuto ruolo del terziario (avanzato e non) e del ridimensionarsi del peso dell'industria manifatturiera; così come del ruolo determinante della conoscenza e della sua diffusione come fattore di sviluppo quali-quantitativo. È probabile che – in proposito – il PSI di Craxi e Martelli avesse di fronte un compito più semplice di quello cui si trova oggi confrontato il PD. Allora, il dinamismo era il carattere prevalente della società italiana: un esercito impressionante di baby boomers – più istruiti dei loro genitori e protagonisti di movimenti politici collettivi che ne avevano rivoluzionato culture e stili di vita, specie dal lato della libertà delle scelte individuali – premeva per il cambiamento di gerarchie e rapporti sociali, dall'economia alla politica. La terziarizzazione dell'economia esaltava una risorsa – la conoscenza – più facilmente acquisibile della ricchezza patrimoniale. Una straordinaria ventata di mobilità verso l'alto percorreva la società italiana, perché i figli pretendevano si avverasse ciò che i padri avevano loro raccontato con fermissima fiducia: voi starete meglio di noi. Insomma: la maggioranza riformista di cui parlava Martelli non aveva ancora trovato consapevolezza di sé e un interprete adeguato. Ma esisteva e lo cercava, quell'interprete.
Guerre fra poveri
Oggi non c'è più, una maggioranza riformista? Non dico questo. Dico che essa è meno immediatamente avvertibile, meno "evidente". La mobilità sociale si è progressivamente fermata. È tornato di tragica attualità il "dimmi dove nasci e ti dico cosa farai e sarai tra trent'anni". La mondializzazione rende meno "padroneggiabili" le contraddizioni sociali: c'è sempre qualcuno che arriva dai luoghi della "miseria perfetta" più dolorante e bisognoso di te, ed è forte il rischio che l'alleanza col merito sia vista come un'utopia tecnocratica, mentre la realtà propone la guerra tra i poveri come conseguenza della paura che uccide la speranza e la fiducia in un futuro migliore. La gigantesca macchina burocratico-amministrativa nata per sostenere i più deboli spende più per alimentare se stessa che per rispondere ai bisognosi; e l'universalismo del welfare, quanto c'è (es. scuola pubblica per tutti) fa parti uguali tra disuguali, col risultato di ribadire ciascuno nella sua condizione di partenza. I baby boomers il potere lo hanno davvero conquistato, e lo usano più per impedire il cambiamento che per promuoverlo. Nella società della conoscenza, uguaglianza è prima di tutto pari accesso a formazione e conoscenza. Ma se lo Stato spende di più per le pensioni che per gli asili nido, le assistenti di maternità e per scuole che almeno ambiscano a colmare la differenza tra il bambino di genitori entrambi laureati e quello di una donna sola con diploma di media inferiore.
In questo mutato contesto, c'è più bisogno di prima di alleanza riformista tra merito e bisogno, ma sono molto più agguerrite le fortezze presidiate dagli insiders, dai difensori dello status quo. Al punto che sembra avere più di qualche buona ragione dalla sua Luca Ricolfi, quando vede nei due grandi partiti che competono nel bipolarismo italiano due conservatorismi. Diversi tra di loro, ma entrambi conservatorismi. Di qui l'esigenza, più che di un aggiornamento, di un approfondimento qualitativo della piattaforma politico-culturale di Rimini, per darle maggiore profondità temporale e maggiore efficacia innovatrice. Chi ha bisogno, oggi, di un sistema complessivamente riorientato al merito? Chi deve voler la meritocrazia? Il giovane figlio di genitori entrambi laureati, che certamente si laureerà a sua volta – magari per accedere alla stessa loro professione – malgrado lo scarso impegno e l'insufficiente talento, anche approfittando del fatto che frequentare un liceo non costa niente e andare all'Università costa poco; oppure il giovane figlio di genitori operai di bassa qualificazione professionale, che passa i primi mesi e anni di vita accudito dai nonni perché non c'è posto all'asilo nido e poi non ottiene risultati brillanti nel percorso formativo, malgrado impegno e talento non gli facciano difetto, solo perché è troppo grande il gap inizialmente accumulato? O perché non basta che l'università costi poco in iscrizione, per poterla frequentare (e soprattutto per frequentare quella "giusta", che non è quasi mai quella sotto casa)?
Domande retoriche, che ci conducono a concludere che senza un cambiamento ispirato al riconoscimento del merito non potranno trovare risposte le esigenze dei nuovi titolari del bisogno (gli esclusi dalla conoscenza di oggi e, soprattutto, di domani). Per dar luogo a questo complessivo riorientamento delle proprie politiche, il partito riformista che voglia affermare la propria vocazione maggioritaria deve impegnarsi in una battaglia politico-culturale molto aspra nel suo campo (per continuare con l'esempio: chi deve guadagnare di più, tra il maestro elementare che ottiene buoni risultati formativi a Scampia e quello che risultati analoghi li ottiene in una classe nel centro di Milano?). E deve assumere, per il successo della sua politica, un orizzonte temporale di medio-lungo periodo. Se si ha fretta, se ci si fa prendere dall'ansia della prestazione quotidiana, allora non c'è bisogno della rinnovata alleanza riformista tra merito e bisogno: basta enunciare decine di obiettivi di per sé "gradevoli", senza alcun ordine di priorità sociale; compiere atti politici e di governo che costituiscano altrettante "allusioni" al cambiamento, senza portarne a fondo alcuno; costruire – dietro questo paravento populistico – solidi legami con gli interessi sociali, economici e culturali degli insiders; e, infine, fare di tutto ciò buona propaganda, attorno ad una leadership carismatica. Ma c'è qualcuno, nel centro-sinistra, che possa competere – nel fare tutto ciò – con il PDL di Berlusconi?