Se sei a Roma, si va per Chiese e Basiliche.
Un modo pacato ed appagante per congedarsi dall’anno che se ne va. A S. Maria degli Angeli, verso le 11 si svolge la Messa, dedicata alla Sacra Famiglia, e l’omelia è tenuta da un sacerdote molto colto, che usa un linguaggio alto da filosofo morale e, con dottrina esibita e orgoglio intellettuale che sa di sfida, parla di famiglia.
Si distanzia subito da quella che definisce “sociologia della famiglia”, il concreto unirsi, cercarsi, “arrabattarsi per stare insieme” (torna più volte su questo concetto) della gente concreta, nella vita quotidiana.
Prende esempio dal piccolo Gesù dodicenne, sfuggito alla cura dei suoi genitori terreni per andare a meditare al tempio e ad occuparsi delle cose del suo padre divino, un implacabile pensiero consequenziale: la famiglia è genitorialità, da intendersi come riconoscimento di ognuno dei due coniugi di essere figlio di Dio.
Dio è mistero e quindi ciascun individuo, solo nella misura in cui accoglie dentro di sé il mistero, e ne fa scudo per la propria invincibile libertà e irriducibilità di persona, può con un altro individuo contrarre quell’unione chiamata famiglia.
Tutto ciò che sta fuori di qui, è “arrabattarsi”, affanno, che non potrà accrescere la qualità della vita di coppia.
Genitorialità da Dio che si prolunga nella genitorialità umana in quanto essa stessa è “produttrice” di un altro rapporto uomo-Dio.
Se questa sola, un particolare tipo di famiglia cristiana, è degna del nome di famiglia cosa importerà al dotto predicatore del vissuto, “diverso” di milioni di persone, delle mediazioni e delle sperimentazioni della politica?
Le prediche, come le sentenze della Magistratura, non si commentano.
Ma sarà utile, per i mesi di lavoro legislativo che verranno su questi temi, non dimenticare il fondamento metafisico della famiglia-archetipo dell’orgoglioso predicatore.
Quando in molti – come lui – sosterranno di interpretare solo un diffuso senso comune, una morale naturale, non un credo religioso.
h 17
E’ quasi buio, e capito in S.Pudenzia, vicino a Via Nazionale, una piccola chiesa con splendidi mosaici absidali del V secolo. I pochissimi visitatori europei sono ospiti.
Sta terminando la funzione serale, e la chiesa è invasa da fedeli filippini.
Tre giovani sacerdoti celebrano in lingua “tegalo”,autoctona, non usano né lo spagnolo né l’inglese, che risuona solo in qualche “Merry Christmas” residuale.
Le ragazze più giovani sono orgogliose di fare gli auguri specialmente a noi, che facciamo qualche domanda sincera. Cosa fanno, come vivono, se amano stare in Italia, se quella è la loro Chiesa.
Ci dicono che lì affluiscono i membri di alcune comunità filippine, 3 o 4, ma le comunità sono 46.
Si canta, ci si saluta, nel portico preparano una festa familiare.
Sotto l’abito talare, i tre giovani sacerdoti fanno intuire dei vestiti semplici, quasi goffi.
Si mescolano ai giovani della loro comunità, perdono ogni formalità nell’aria di festa che si sta diffondendo.
Non capisco la lingua indigena, ma non percepisco nulla della “vis pugnandi” del prelato di S. Maria Maggiore. Buon anno.