Corriere della Sera, 13 giugno 2009
SISTEMA ELETTORALE
Referendum, antidoto ai troppi partiti
di Angelo Panebianco
Gli italiani saranno chiamati il 21 giugno a votare per un referendum che propone di modificare la legge elettorale in vigore. Come risulta dai sondaggi, tanti italiani sono ancora disinformati, non sanno nulla dei quesiti referendari. E, inoltre, una gran parte delle forze politiche li incita alla astensione. Anche in queste sfavorevoli circostanze è però giusto continuare a discuterne.
La mia prima osservazione è che diversi critici del referendum hanno avanzato una obiezione che non sembra leale. Hanno sostenuto che quello che uscirebbe da una vittoria dei «sì» nel referendum non sarebbe comunque un buon sistema elettorale. L'obiezione non mi pare leale perché in Italia non esiste l'istituto del referendum propositivo. Non si può dunque sottoporre al voto popolare il sistema elettorale che si preferisce (io, per esempio, preferisco di gran lunga i sistemi elettorali maggioritari, con collegi uninominali). Col referendum abrogativo si può solo incidere su leggi esistenti. Il referendum tenta semplicemente di migliorare quella che in tanti giudichiamo una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. Per onestà nei confronti dei lettori devo precisare che mentre scrivo questo articolo mi trovo in flagrante conflitto di interessi. Faccio parte del comitato promotore del referendum e certamente intendo difendere, insieme al referendum, la coerenza e la validità della mia scelta.
Che cosa intendevano (intendevamo) fare i proponenti del referendum, soprattutto con il quesito più importante, quello che chiede di spostare dalla coalizione di partiti alla singola lista il premio di maggioranza? Intendevano (intendevamo) contrastare l'aspetto più grave e pericoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica (e ricordo che fra tutti i pericoli che può correre una democrazia quelli che vengono da un eccesso di frammentazione partitica sono di gran lunga i più gravi). Ma, si obietterà: alle ultime elezioni, nonostante la legge in vigore, la frammentazione partitica è stata drasticamente ridotta. E' vero ma la causa è stata esclusivamente una decisione politica: la scelta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell'antica coalizione di centrosinistra e di puntare sul «partito a vocazione maggioritaria».
Fu quella decisione che, ricompattando la sinistra (anche se non del tutto: Veltroni commise poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pietro), obbligò anche la destra a un analogo ricompattamento (con la nascita del Popolo della Libertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta.
Alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradizionale politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze disgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica. Se non si fa qualcosa (e l'unico «qualcosa» possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell'Europa occidentale.
Come sempre quando si ragiona di sistemi elettorali le critiche più serie e argomentate alla proposta referendaria sono state avanzate da Giovanni Sartori. Sartori fa due obiezioni. La prima: con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum un partito che raggiungesse, poniamo, solo il trenta per cento dei voti potrebbe aggiudicarsi il premio di maggioranza conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. La seconda: poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata la legge verrebbe aggirata con la formazione di liste-arlecchino formate da tanti partiti che si metterebbero insieme solo per conquistare il premio di maggioranza e si dividerebbero di nuovo il giorno dopo le elezioni. Si tratta di obiezioni serie ma mi permetto di fare due osservazioni. La prima è che, certamente, è in teoria possibile che un partito con solo il trenta per cento dei voti conquisti il premio di maggioranza e quindi la maggioranza assoluta dei seggi. Però, questo è vero anche nel caso dei sistemi maggioritari: nulla vieta, in teoria, che un partito si aggiudichi la maggioranza dei collegi (e quindi la maggioranza dei seggi) ottenendo però, su scala nazionale, un numero di voti limitato. In un sistema maggioritario ciò può accadere se nei collegi sono presenti molti partiti. Più in generale, nei sistemi maggioritari, è quasi sempre la minoranza elettorale più forte che si aggiudica la maggioranza dei seggi.
In pratica, però, non credo che se si votasse con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum correremmo questo rischio: gli elettori sarebbero portati a concentrare i loro voti sulle due formazioni più forti (è l'effetto del cosiddetto «voto utile» o strategico). Mi azzardo addirittura a fare una previsione: se si votasse con il sistema elettorale proposto dal referendum ci sarebbe un duello all'ultimo voto fra Popolo della Libertà e Partito democratico, e il partito che fra i due uscisse perdente supererebbe comunque la soglia del quaranta per cento dei voti (per effetto, appunto, del «voto utile»).
E vengo al problema delle liste-arlecchino. Sartori ha ragione: molti piccoli partiti si aggregherebbero al carro dei due partiti più grandi. Però, la loro libertà d'azione dopo il voto verrebbe compromessa. Una cosa, per un piccolo partito, è disporre di un proprio simbolo e di autonomo finanziamento pubblico. Una cosa completamente diversa è rinunciare al simbolo (e, con esso, a un rapporto diretto, non mediato, col proprio elettorato) e dover per giunta fare i conti, per la spartizione dei finanziamenti, con il gruppo dirigente del grande partito a cui ci si è aggregati. Non credo che, dopo le elezioni, quei piccoli partiti disporrebbero ancora di molta libertà d'azione. Se così non fosse, d'altra parte, perché mai la Lega dovrebbe essere, come è, così ferocemente contraria al referendum? E perché mai Di Pietro (oggi politicamente molto più forte rispetto a quando vennero raccolte le firme del referendum) si sarebbe ora schierato per il «no» dopo avere sostenuto per tanto tempo il «sì»?
I nemici di Berlusconi temono che, con il nuovo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elettorali alla luce di preoccupazioni politiche contingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comunque lasciare il campo. Invece, il rischio, esasperato dall'attuale legge elettorale, di un'eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi. Se non riusciremo, con il referendum, ad aiutare la classe politica a porvi rimedio.