Dal 1987 al 1991, come è noto, e come è stato ben detto Morando nel suo libro, nel Pci ci fu la discussione nei gruppi dirigenti su come superare il Pci, al di là del corpo del Pci centrista e un po’ doroteo che insisteva sulla continuità senza traumi . Il vero cuore della discussione era fra innovatori occhettiani e componente migliorista. Gran parte degli occhettiani e Occhetto stesso finirono per praticare il superamento del Pci da sinistra e noi miglioristi tentammo allora di superarlo da destra. Petruccioli torna su questi temi su ‘Il Riformista’ in questi giorni in occasione del centenario della nascita di Giolitti, che gli ha ispirato una riflessione. Il dialogo ideale fra Petruccioli e Golitti da’ infatti una ragione postuma agli idealisti e a chi aveva indicato la via riformista per il superamento del Pci in Italia. Grande prova di lucidità e onestà intellettuale, come si evince dalla lettura del contributo qui di seguito.
“Caro Giolitti scusaci… avevi ragione"
di Claudio Petruccioli
Caro Giolitti, ti scrivo – prima di tutto – per i tuoi novanta anni; per farti gli auguri, per esprimerti la mia ammirazione e, se permetti, il mio affetto.Caro Giolitti, ti scrivo – prima di tutto – per i tuoi novanta anni; per farti gli auguri, per esprimerti la mia ammirazione e, se permetti, il mio affetto. Noi non ci conosciamo molto; abbiamo avuto scarse occasioni di incontro e di comunicazione. In più, credo, ci sia il riserbo che ti viene dalla terra e dalla famiglia; come, da parte mia, c’è l’umore scontroso degli umbri. È il motivo per cui non mi sono fatto vivo prima. L’ultima cosa che voglio è mettermi in mostra; si può farlo anche inviando auguri. Adesso, però, ti scrivo perché ne ho bisogno: ho bisogno di esprimere i pensieri che leggerai e di farlo con te, chiamandoti a testimone. Sento che solo se detti a te, questi pensieri acquistano significato e verità, si sottraggono alla retorica e alla ipocrisia. L’impulso mi è venuto dal confronto fra i novanta anni tuoi e quelli di Pietro Ingrao.
Mi ha colpito il diverso modo in cui sono stati vissuti pubblicamente, da quella che potremmo definire l’opinione pubblica della sinistra.Il confronto ha fatto precipitare nella mia testa idee e giudizi che riguardano non due persone e le loro vite, lunghe e ricche. Riguardano la politica, forse anche la storia; e, soprattutto, la moralità cui ciascuno di noi è capace di attingere quando con la politica e con la storia cerca di misurarsi.
Ero presente nella sala del mappamondo a Montecitorio quando ti è stato reso omaggio. Ho sentito anche l’intervento di Fassino. Ha cominciato bene, leggendo quel che tu dicesti nel 1956 sulla democrazia; cioè sull’essenziale. Ma ha finito malissimo, con la più convenzionale e opportunistica delle ricostruzioni. L’VIII congresso del Pci ti espelleva; ma paradossalmente – secondo lui – si muoveva nella direzione che tu sollecitavi. Una lettura di comodo, un omaggio all’artifizio sterile e offensivo della “novità nella continuità”.
Eppure, fra noi che nel 1989 abbiamo dovuto saldare i conti in sospeso col comunismo, Fassino è uno dei più aperti e avvertiti. Se anche lui subisce ancora così la zavorra del passato, abbiamo fatto meno strada di quanto credessi.
Mi è tornato alla mente un colloquio di molti anni fa, con uno dei “trentenni del ’56” che consentirono a Togliatti di innalzare le insegne del rinnovamento senza affrontare nessuno dei problemi, già allora evidenti, che incombevano sul Pci. Ne tralascio il nome; per discrezione, e anche perché non è essenziale. Un suo coetaneo avrebbe potuto dirmi identiche cose.
Sarà stato il 1988 o l’inizio dell’89; il muro di Berlino non era ancora caduto. In quel periodo ero coordinatore della segreteria. Una sera, al termine ormai del lavoro giornaliero, il mio interlocutore passa – come era solito – a fare due chiacchiere. Nel corso delle quali io cito e apprezzo un tuo scritto pubblicato quel giorno da un quotidiano. Il disappunto dell’altro mi sorprende. Tanto che replico: «Non capisco questo risentimento. Con Giolitti ci siamo rincontrati, è stato eletto nelle nostre liste come indipendente; pensavo che le divisioni di trent’anni fa fossero ormai superate. E poi, senti: io nel ’56 non c’ero perché troppo giovane. Ma ci fossi stato non so quale sarebbe stata la mia scelta».
Le mie parole non piacquero; la risposta fu aspra e aggressiva. «Già, perché tu sei di quelli che pensano sia Giolitti ad aver salvato il nostro onore. È vero il contrario: siamo noi ad avergli consentito di salvare il suo sottraendosi ai fallimenti e alla deriva del Psi». Mi sembrò di piombare nella disputa fra Naphta e Settembrini ne “La montagna incantata”.
Non tutti – è vero – la pensavano così; neppure fra i “trentenni del ’56”. Ho già raccontato (e l’ha fatto anche lui), di quando Emanuele Macaluso mi disse che la cosa giusta da fare per il Pci era cambiare nome, aderire all’Internazionale socialista ed eleggere te presidente del partito. Anche allora il muro non era caduto. Poi, cadde: il Pci cambiò nome, il Pds entrò nell’Internazionale socialista ed eleggemmo anche un presidente. Ma non fosti tu; non so neppure se l’idea te l’abbia ventilata qualcuno, ma credo di no. Ricordo le discussioni fra noi; e ricordo benissimo che anche in questo caso, come in tutti gli altri (lo statuto, gli organismi dirigenti, gli incarichi, i programmi e così via) la preoccupazione largamente prevalente era di “non scoprirsi a sinistra”, di non alimentare il sospetto e l’accusa che stessimo facendo una operazione “di destra”.
Presidente divenne Stefano Rodotà, una bravissima persona; ma, politicamente, non era altro che l’estenuato e sterile prolungamento degli “indipendenti di sinistra”.
Prevaleva, insomma, il proposito di “uscire dal comunismo a sinistra”. È una frase alla quale Occhetto ricorreva – e ricorre – spesso. L’ha ripetuta – non a caso – in occasione dei novanta anni di Ingrao. Lui intende dire che l”uscita dal comunismo” non deve comportare la rinuncia alla capacità critica, al pensiero che non si ferma alla contemplazione del reale, all’azione che voglia modificare lo stato delle cose. E – in modo ancor più impegnativo – che l’”uscita dal comunismo” non deve ridimensionare o addirittura vanificare gli ideali e la moralità con cui vogliamo vivere la politica. Come non essere d’accordo?
Il fatto vero è, però, che in quella frase si annidano insidie terribili. Innanzitutto ci nasconde (ancora!!) quanto di capacità critica, di pensiero creativo, di ideali e di moralità abbiamo sacrificato proprio al comunismo. E poi, quel proposito, a contatto con l’inerzia delle abitudini, con il ricatto di giudici protervi, con le paure (o, al contrario, la presunzione) che influenzano le nostre azioni, diventa un vincolo, un alibi per non uscire, dal comunismo, mai; per restarci con un piede solo, con tutti e due i piedi, ma soprattutto con la testa.
Mi sono anche detto che l’effervescenza intorno a Ingrao poteva essere ascritta al fatto che egli ha ricoperto – primo fra gli uomini del Pci – un alto incarico istituzionale: è stato Presidente della Camera. Ma sono bastati pochi secondi per cogliere la debolezza dell’argomento. Nel 1978 tu saresti potuto diventare Presidente della Repubblica, se sul tuo nome tutta la sinistra fosse stata unita come lo fu, poi, su quello di Pertini. Craxi aveva proposto prima te; ma da parte del Pci non si manifestò alcun gradimento; e tu restasti nella tua nicchia, rispettata, riverita ma non amata. Oggi me ne vergogno. Non perché allora fossi fra coloro che decidevano, ma perché non provai lo sdegno che sarebbe stato giusto.
Un’altra occasione perduta per riconoscere semplicemente quello che va riconosciuto: tu hai avuto ragione e noi (il Pci) torto. Questo avremmo dovuto dire e dovremmo dire approfittando della coincidenza dei novanta anni tuoi e di Ingrao. I due simboli di quel ’56 di cui ricorrono fra poco i cinquanta anni.
Da una parte tu, la persona che veniva messa fuori dal partito perché dichiarava elementari verità: la repressione in Ungheria uccideva ogni principio e valore che meritasse di essere difeso, era un male dal quale non sarebbe mai potuto derivare alcun bene, al quale sarebbe seguito male, male e ancora male. Dall’altra Ingrao, il direttore dell’Unità che dichiarò di voler stare da un parte della barricata, indicandola come quella giusta a milioni di uomini e donne che – pure – aspiravano alla libertà e alla dignità.
Ingrao, da dieci, quindici anni (non prima) ha fatto pubblica ammenda per quell’articolo; ha detto che vorrebbe non averlo scritto, che è stato il più grande errore della sua vita. Parole importanti e – ne sono convinto – sincere. Ma chi è stato nel Pci (soprattutto allora, ma non solo allora) i conti deve farli non solo con il passato, con i carri armati a Budapest, con l’Urss, con il comunismo ecc. Tutte cose importanti; ma un po’ – come dire? – d’archivio. Bisogna misurarsi con quel che, di allora, è ancora vivo. Bisogna misurarsi con te; dobbiamo prenderci la responsabilità di rivolgerci a te in modo non ambiguo, non diplomatico, non reticente.
È semplice: basta dirti «hai avuto ragione tu e torto noi, sei stato nel giusto tu e non noi. Scusaci, scusami. E grazie». Semplice ma molto più autentico e oneroso di tanti riconoscimenti per errori di decenni fa; perché riguarda l’oggi e quello che oggi siamo capaci di sentire, di pensare, di dire.
Per quanto riguarda me, scusa e grazie. Grazie anche per avermi – con i tuoi limpidi novanta anni – consentito il sollievo di trasmetterti questi pensieri sapendo che potrai leggerli; di avermi dato il tempo di chiarire e maturare idee che, non dette a te, mi sarebbero risultate in buona parte mutile e mute.
Ne abbiamo da fare, ancora, di strada…