Antonio Funiciello su Libera – lI leader della Lega e del Pdl si sono espressi per l’ex-ministro – Perché il centrodestra «vota» per Bersani? Se il prossimo segretario del Pd dovessero sceglierlo quelli del Pdl, Bersani vincerebbe su Franceschini per cappotto.
In verità anche dalle parti dell’Udc, il gradimento nella contesa democratica è per l’ex ministro. E però le preferenze del partito di Casini si spiegano con argomenti politici più pragmatici, a partire dalla comune preferenza per il sistema elettorale tedesco. Meno chiaro, almeno apparentemente, sembrerebbe invece il favore estivo accordato da destra a Bersani. Da Tremonti a Comunione e Liberazione, passando per Bossi, nessun leader importante dell’asse Pdl-Lega ha mostrato di avere simpatie per Franceschini.
Bersani non ama il federalismo, eppure il governo iper-federalista Pdl-Lega tifa per lui. Bersani è un convinto parlamentarista, al netto di qualche piccolo rinforzo ai poteri di premier e governo, eppure la maggioranza presidenzialista di centrodestra lo vorrebbe comunque capo dell’opposizione.
Potrebbero apparire le simpatie di leghisti e berlusconiani ipocrite e tendenziose, mirate cioè a indebolire il candidato piacentino, non fossero espresse con commenti così prudenti e argomentati. Quasi timorose di ledere la corsa del candidato democratico preferito per la guida del maggiore partito avverso.
Bersani piace al centrodestra e se una parte di elettori di Pdl e Lega volessero manifestare il loro favore alle primarie di fine ottobre, davvero non ci sarebbe partita. Non che l’ex ministro non abbia punti in comune con l’attuale maggioranza di governo. Bersani è da sempre l’uomo di sinistra con i milgiori rapporti con l’establishment economco finanziario, quel famigerato salotto buono che in passato non ha lesinato apprezzamenti al duo Bersani- D’Alema e oggi sostiene con forza il governo in carica.
Sulle vicende libiche, ad esempio, che vedono per l’Italia un forte coinvolgimento di Eni, consigliato da D’Alema, Bersani
non ha espresso alcun dissenso nei confronti della ridicola parata montata intorno al primo anniversario del querelante accordo tra Italia e Libia. Scaroni può contare su un’antichissima amicizia con l’ex ministro dello Sviluppo economico,
che insieme a Prodi ha tra l’altro permesso ad Eni di mantenere fino ad ora la proprietà di Snam Rete Gas, sostenendo un monopolio energetico che non è secondo a quello mediatico di Berlusconi.
L’amicizia coi poteri forti sembra insomma essere un tratto distintivo in comune tra Bersani e il centrodestra italiano. Eppure questo, e gli altri punti di raccordo, non bastano a spiegare una preferenza tanto ragionata. Ben oltre le convergenze tattiche che portano i berlusconiani e i leghisti ad esprimere il loro consenso per Bersani, è una visione complessiva e più profonda della dialettica democratica nostrana, che suggerisce al centrodestra un simile orientamento.
Da quindici anni il fronte conservatore esercita in Italia un’egemonia culturale e un primato politico incontestati. Neppure tra il ’96 e il 2001 o tra il 2006 e il 2008, anni di governo di centrosinistra, quell’egemonia e quel primato sono venuti meno, piuttosto sono stati alla base delle cadute e dei crolli anzitempo degli esecutivi guidati da Prodi o D’Alema. L’egemonia culturale e il primato politico di Berlusconi, se ha solide fondamente endogene, ha anche un presupposto esogeno irrinunciabile nel profilo politico e negli attributi mediatici del centrosinistra italiano. Nell’immaginario berlusconiano, esso per definizione rappresenta la vecchia nomeclatura romana e rivendica fiere ispirazione e continuità con l’esperienza della sinistra comunista. Ancor meglio poi, se a capo del centrosinistra non ci sono leader come Prodi o Rutelli, ma dirigenti politici con manifeste e rivendicate frequentazioni con il Pci.
Berlusconi è da sempre convinto che alle politiche gli italiani non voteranno mai un candidato premier o un partito guidato da un leader che abbia militato e avuto ruoli di dirigenza nel Pci. Sulla contraddizione in termini che prende corpo in un partito (il Pds e i Ds prima, il Pd oggi, ancor più se affidato a Bersani) che non può esprimere il candidato premier della coalizione di cui è egemone, si sostanzia tutta la polemica anticomunista berlusconiana. Che se è snobbata da un ceto intellettuale in distonia da una vita col paese, è radicata visceralmente nell’organismo della comunità nazionale. Il centrodestra ha bisogno di avere gli ex-comunisti in prima linea sul fronte avverso, perché in questo modo il suo messaggio entra più facilmente in sintonia con un’Italia da sempre risolutamente anti-comunista.
Accentuare, come fa tutti i giorni Bersani, la polemica interna su vicende simboliche come l’utilizzo della parola “sinistra”, va esattamente nella direzione auspicata da Berlusconi. Perché la sinistra in Italia, a partire dalla stagione craxiana degli anni Ottanta, è indiscutibilemente quella comunista. Per quanti sforzi faccia Bersani a richiamarsi al socialismo (da lui tanto contrastato quando i socialisti italiani erano al governo) e al cattolicesimo democratico, col suo richiamo identitario non fa che iscriversi nei vincenti schemi berlusconiani.