Enrico Morando presenta le proposte di politica fiscale del candidato alla segreteria del PD Walter Veltroni.
PER UN FISCO AMICO DELLO SVILUPPO
di ENRICO MORANDO
Per la preparazione di questa iniziativa, ed anche di questa mia introduzione, ho chiesto e ottenuto la collaborazione di Innocenzo Cipolletta, Piero Giarda, Gianni Marongiu. Il loro contributo è stato utilissimo, anche se – va detto a loro tutela – delle cose che dirò sono responsabile soltanto io.
Parlare seriamente di tasse – ciò che noi oggi vogliamo fare – significa parlare di spesa pubblica e di prestazioni della Pubblica Amministrazione: se non sa perché paga, e se giudica cattivi i servizi che ottiene in cambio, il cittadino penserà comunque di pagare troppo.
Non è dunque affatto un caso che – nel confronto in corso tra le
forze politiche e sociali sulle linee di fondo delle politiche
fiscali per i prossimi anni – l'attenzione si stia concentrando
sulla risposta ad un quesito assai chiaro: le maggiori entrate –
maggiori rispetto a quelle fissate nel bilancio vigente e a quelle
previste nei quadri tendenziali di finanza pubblica del DPEF – che
si stanno realizzando nel corso di questo 2007 ed hanno – almeno in
parte – carattere strutturale (cioè, sono destinate a ripetersi),
debbono essere usate per finanziare le maggiori spese previste, o
debbono essere usate per ridurre la pressione tributaria sui
contribuenti leali? O, ancora, debbono essere interamente recate a
miglioramento dei saldi di Bilancio? A domanda chiara e precisa,
risposta chiara e precisa: ogni Euro di maggiore spesa dovrà – nei
prossimi anni – essere finanziato da un Euro di risparmio, cioè di
riduzione di spesa. Perché ogni Euro aggiuntivo di gettito –
strutturalmente derivante da lotta all'evasione fiscale – dovrà
essere destinato all'alleviamento del carico fiscale sui
contribuenti leali, cioè sulla stragrande maggioranza dei
contribuenti italiani, persone fisiche e famiglie o imprese che
siano. Quelle famiglie e imprese che sopportano una pressione
tributaria pari, in Italia, nel 2005, al 27,7% del PIL, a fronte di
una pressione tributaria media dell'area dell'Euro pari al 25%.
Mentre all'obiettivo del miglioramento dei saldi – deficit e debito –
dovranno essere destinati sia quella quota del gettito aggiuntivo
che non abbia carattere strutturale, sia – soprattutto – i frutti di
quell'azione di valorizzazione dell'ingente attivo patrimoniale
dello Stato (più o meno, il 130% del PIL) che può e deve favorire
l'accelerazione del processo di risanamento della finanza pubblica
italiana, irresponsabilmente interrotto dal centro-destra nella
legislatura scorsa e riavviato con successo dal Governo Prodi
nell'anno che ci sta alle spalle.
Come è naturale, su ognuna di queste tre scelte essenziali si viene
sviluppando un'esplicita lotta politica. Sulla prima, in
particolare: quanti hanno una visione statica dell'economia – si
collochino a sinistra o a destra, poco importa – pensano che se ci
sono nuove entrate (come ci sono) esse possono tranquillamente
essere usate per finanziare spesa aggiuntiva. Tanto – sottintendono –
le dimensioni dell'economia sono quelle che sono: la torta è
quella, non è possibile farla crescere. Una curiosa sottovalutazione
della potenza degli incentivi che un equilibrata, graduale e
costante politica di riduzione del prelievo può alimentare presso
tutti gli attori, da parte di forze che mostrano poi di avere
un'opinione del tutto opposta sulle virtù salvifiche delle politiche
di incremento della spesa pubblica. Posizioni legittime,
intendiamoci. Ma apertamente contrastanti con le scelte di fondo
indicate dal Governo nel DPEF e rafforzate dalla maggioranza nella
relativa Risoluzione parlamentare, che – nella parte impegnativa per
il Governo – recita testualmente: (impegna il Governo) "ad
effettuare nel 2008 una riprogrammazione della spesa che, senza
accrescere la pressione fiscale, consenta di realizzare gli
interventi connessi agli impegni sottoscritti e a nuove iniziative";
e poco più oltre: " a garantire gli obiettivi già previsti nei
tendenziali a politiche invariate (la ormai famosa Tavola III.13 del
DPEF) attraverso la riduzione della spesa primaria in rapporto al
PIL"; e infine: " a finalizzare le eventuali maggiori entrate
derivanti da lotta all'evasione fiscale, qualora permanenti, a
riduzioni della pressione fiscale, prioritariamente sulle fasce più
deboli". L'italiano non è certamente perfetto, ma è difficile
sostenere che l'indicazione non sia chiara: già nel luglio corso,
infatti, non mi sembrarono degni di particolare credito i commenti
che sottolineavano la presunta genericità del DPEF e della
Risoluzione, con conseguente inappellabile giudizio
sulla "inutilità" di entrambi. La preoccupazione fondata era semmai
quella opposta: è realistico un disegno tanto ambizioso? Possiamo
ora riuscire a stabilizzare prima, e a far regredire poi – in
rapporto al PIL – quella spesa pubblica corrente primaria che il
Governo del centro-destra ha fatto crescere, tra il 2001 e il 2005,
di ben 2,7 punti di PIL e solo i governi di centro-sinistra della
fase '92-'98 sono riusciti a tenere sotto controllo, negli ultimi
venti anni? Qualcuno ha voluto vedere nel decalogo di Veltroni e
nelle sue posizioni sulle politiche fiscali e di gestione della
finanza pubblica una contrapposizione alle scelte dell'Esecutivo. La
verità è esattamente opposta: Veltroni e quanti lo sostengono
nell'impegno per il 14 ottobre vogliono un PD convintamente
impegnato nella lotta e nell'iniziativa politica per attuare la
linea definita dal Governo nel DPEF e coraggiosamente sostenuta dal
Presidente Prodi e dal Ministro Tommaso Padoa Schioppa.
Lo facciamo, naturalmente, mettendoci dal punto di vista di chi
lavora a progettare le posizioni politiche di un partito che vuole
essere protagonista del secolo che si è appena aperto ed è quindi
consapevole del fatto che il confronto in atto sul contenuto della
Legge Finanziaria e di Bilancio per il 2008-'11 è solo un episodio –
per quanto importante e, per l'Italia, addirittura decisivo (se non
ora, quando calerà la pressione fiscale? Hanno scritto Galimberti e
Paolazzi sul Sole 24 Ore) – di quell'intenso e ricorrente dibattito
che caratterizzerà i prossimi cento anni "sull'utilizzo delle
imposte per il finanziamento degli interventi nel campo sociale. I
sostenitori dipingeranno questi interventi come investimenti ad alto
rendimento, che avvantaggiano la maggior parte della popolazione….
Gli avversari denunceranno il duplice processo di soffocamento della
libera iniziativa che spinge sia i tassati, sia i sussidiati ad
essere meno produttivi." (Peter Lindert – Bocconi editrice).
La collocazione che proponiamo per il Partito Democratico nel
confronto in corso (spendere meglio, ridistribuire più equamente il
carico del finanziamento degli interventi pubblici e porsi
l'obiettivo di fare crescere le dimensioni della torta) nasce dunque
dalla consapevolezza dell'esigenza di agire nello spazio stretto di
quel "triangolo" di cui scrive Gianni Toniolo riassumendo l'analisi
di Lindert. Ai suoi vertici, quel triangolo ha tre obiettivi: il
primo, aiutare le persone in stato di indigenza; il secondo, dare
loro un incentivo ad uscire da quello stato; il terzo, tenere bassi
i costi dell'intervento. Il PD nasce contro il populismo di destra e
per superare la vecchia sinistra conservatrice, come soggetto
politico capace di ricostruire un circolo virtuoso tra crescita e
dinamica sociale. Altro che PD "destra della sinistra": l'Italia non
cresce adeguatamente da anni e presenta una dinamica sociale
sostanzialmente bloccata. Questa stagnazione economica e sociale ha
una causa fondamentale: la mancata crescita della produttività. Se
il processo in corso non viene invertito, coloro che cercano di
difendere, il più a lungo possibile, le loro posizioni di rendita
(piccole o grandi che siano) consegneranno il Paese in mano ad una
destra populista, invano contrastata da una sinistra conservatrice.
E chi è più debole, soccomberà. Se il Partito Democratico vuole
essere l'alternativa a tutto questo, la sua politica dovrà essere
orientata all'aumento della produttività: innovazione costante
attraverso la concorrenza, capitale umano di elevatissima qualità,
istituzioni orientate allo sviluppo socialmente ed ecologicamente
sostenibile. Forti di questa ispirazione, vogliamo dunque sostenere –
nell'immediato – l'azione del Governo per la riqualificazione della
spesa pubblica, a sua volta precondizione per il pieno recupero di
un rapporto di fiducia tra cittadini-contribuenti e Stato.
L'iniziativa del Governo per la ristrutturazione del Bilancio dello
Stato – progettata e portata a termine in un solo anno – crea le
premesse di conoscenza necessarie per abbandonare la strada
fallimentare dei tagli orizzontali e intraprendere quella della
valutazione della produttività di ogni scelta allocativa. La
ristrutturazione del Bilancio, quando sarà completata attraverso
l'introduzione di indicatori fisici di risultato, da affiancare ad
ogni programma di spesa, favorirà una diffusa applicazione del
principio di responsabilità – della maggioranza parlamentare,
dell'opposizione, del Governo e dei dirigenti della Pubblica
Amministrazione – così che sarà possibile fissare credibilmente, per
ciascun anno e quelli successivi, precisi obiettivi di pressione
fiscale, da considerare vincolanti almeno quanto lo sono stati – nel
prolungato sforzo di risanamento che ci sta alle spalle – quelli
relativi ai saldi. Si rendono inoltre possibili confronti tra
Amministrazioni pubbliche (le diverse Regioni nel campo della
sanità, ad esempio) e tra le performances della nostra Pubblica
Amministrazione rispetto a quelle di altri Paesi a noi paragonabili.
Ne emergono indicazioni chiare, utilissime per le scelte politiche:
se l'Organizzazione Mondiale della Sanità colloca la nostra Sanità a
livelli di eccellenza mondiali; se la spesa sanitaria italiana non è
superiore a quella media dell'area Euro; se il debito sanitario è
concentrato in alcune, poche Regioni, ad esempio, dovremmo
concludere che si tratta di correggere i comportamenti delle Regioni
fuori linea, per il resto agendo sul consolidamento dei risultati
ottenuti (ad esempio: le lunghe code di attesa per gli esami più
complessi sono conciliabili con i tempi limitatissimi di effettivo
utilizzo giornaliero di macchine che hanno costi molto elevati e
brevissimi tempi di obsolescenza? Del tutto diverso, per continuare
con gli esempi, il caso del servizio Giustizia: se dedicandovi
risorse pari o superiori, in rapporto al PIL e alla popolazione,
rispetto a quelle che vi dedicano altri grandi Paesi dell'Unione,
otteniamo performances tanto inferiori, risulta abbastanza evidente
che il problema non sta nella quantità delle risorse impiegate, ma
nel modo di impiegarle. Un esempio piccolo-piccolo: il periodo
di "ferie giudiziarie", con il pressoché totale arresto
dell'attività, non potrebbe essere ridotto, per recuperare
produttività senza aggravio di costi? Non è questa la sede per altri
esempi, né per l'indicazione di specifici interventi. È però utile
fornire un'indicazione generale, di tipo metodologico: nell'azione
di riqualificazione della spesa, a tutti i livelli, dovrebbe valere
un principio di concentrazione sul core business di ogni segmento
della Pubblica Amministrazione. Se il core business della Pubblica
Istruzione, ad esempio, è la formazione, sembrerebbe auspicabile una
concentrazione su questa attività, esternalizzando progressivamente
attività di supporto, diversamente assolvibili. In questo campo,
dobbiamo prendere ad esempio le imprese che, di fronte alle
difficoltà, hanno saputo nel tempo concentrare la loro attenzione
sulle attività fondamentali, tagliando i costi esuberanti, senza
perdere quote di mercato e pregiudicare la qualità dei loro
prodotti. So che lo Stato non è un'impresa, ma è anche vero che
dalle imprese – cambiato quel che c'è da cambiare – lo Stato può
assimilare tecniche utili ai suoi specifici scopi.
Nei decenni scorsi, l'incapacità di tenere sotto controllo la spesa
pubblica corrente e le crescenti esigenze di spesa per il servizio
del debito si sono tradotte in una drastica riduzione della spesa
pubblica per investimenti, a partire da quelli volti alla
infrastrutturazione materiale del Paese (porti, aeroporti, strade,
ferrovie, reti). La mancata crescita della produttività totale dei
fattori ha anche questa causa: lo Stato italiano ormai da
tempo "preleva" dall'economia (famiglie e imprese) più o meno quanto
prelevano lo Stato francese e tedesco, in rapporto alla rispettiva
ricchezza nazionale, ma "restituisce" all'economia molto meno di
quanto restituiscono i nostri due grandi partners nell'area
dell'Euro. Di qui la protesta e l'insoddisfazione delle famiglie e
delle imprese italiane – tutte, ma quelle del Nord più sviluppato in
particolare – che debbono competere con quelle di altri Paesi,
pagano quanto e più di queste ultime, ma sentono di non essere
altrettanto aiutate dallo Stato, con formazione adeguata, trasporti
che funzionano, servizi in rete abbondanti e a prezzo
(relativamente) basso. Certo. L'attuale deficit infrastrutturale
nasce anche da problemi irrisolti di tipo regolatorio,
dall'incapacità della politica di decidere. Democraticamente, ma
decidere. Se ne è occupato Veltroni nel discorso del Lingotto, in
termini che condivido. Certo, come ha scritto ancora Veltroni nel
suo decalogo sul fisco, su questi obiettivi possono e debbono essere
attivati capitali privati, che hanno solo bisogno di regole e tempi
certi. Ma resta il problema di elevare nettamente, rispetto
all'attuale, il livello della spesa pubblica per investimenti. Dove
trovare le risorse? La risposta può essere una sola: riducendo la
spesa per il servizio del debito. E ciò, a sua volta, può essere
fatto solo rivolgendoci alla valorizzazione del patrimonio pubblico.
Oggi la gestione di questo enorme patrimonio ha effetti
sostanzialmente neutri sul Bilancio. È già un risultato: fino a poco
tempo fa, gestendo beni per un valore pari al 130% del PIL, lo Stato
riusciva a perderci. Ma non possiamo certo accontentarci. Delle due,
dunque, l'una: o si riesce a gestire questo patrimonio in modo che
ci "renda" quei due punti di PIL che differenziano oggi la spesa per
interessi italiana rispetto a quella francese e tedesca. O si aliena
una parte di questo patrimonio (no, non il Colosseo), destinando
rigorosamente tutti i proventi alla riduzione del debito. Che la
strada della alienazione sia stata praticata dal centro-destra a
fini di finanziamento di maggiore spesa corrente non dimostra che
quella dell'alienazione sia, in sé, una strada sbagliata: dimostra
solo l'irresponsabilità di questo schieramento e l'insopprimibile
esigenza di considerare prioritaria la scelta da cui sono partito in
questa relazione: finanziare nuova spesa solo con corrispondenti
risparmi di spesa; portare tutte le entrate aggiuntive a sgravio dei
contribuenti leali.
Vengo ora allo specifico della politica tributaria: Veltroni, col
suo decalogo, ha già detto l'essenziale, sicché io posso cavarmela
con qualche commento alle reazioni suscitate dalle sue proposte e
con qualche tentativo di individuare ulteriori ipotesi di riforma.
L'ex Ministro Tremonti ha trovato il decalogo povero di cifre, poco
preciso. Io trovo la sua critica generica e poco argomentata.
Prendiamo tre punti essenziali: principio di retroattività delle
norme fiscali; trattamento fiscale degli investimenti delle imprese
e IRAP. Mai più norme fiscali approvate ora per allora, scrive
Veltroni. Certo, non c'è un numero, ma è difficile trovare un
principio più efficace nell'influenzare i "numeri" del sistema
fiscale: sia perché, continuando sulla cattiva strada (14 violazioni
dello Statuto del Contribuente negli anni di governo del centro-
destra; tre nel primo anno del centro-sinistra) si innalza il
livello di sfiducia del contribuente nello Stato, sia perché
l'approvazione di norme retroattive riduce in partenza la
credibilità di politiche fiscali che fissino obiettivi di lungo
periodo e muovano gradualmente le aliquote verso il basso, secondo
un ritmo compatibile con le condizioni della finanza pubblica. Ma
chi ha promosso decine di condoni fatica a far propria questa
logica…
Circa il trattamento fiscale degli investimenti delle imprese,
Veltroni propone di accorciare i tempi degli ammortamenti fiscali
degli investimenti in macchinari e di agevolare quelli in ricerca.
Anche qui, non c'è un numero. Ma non c'è un imprenditore degno di
questo nome – piccolo o medio che sia – che non colga la portata
innovativa e pro-crescita di questa proposta: una misura di questo
genere ridurrebbe il carico fiscale alle imprese che investono e
innovano di più e ci consentirebbe di avere una maggiore domanda di
beni strumentali, di cui l'Italia è uno dei principali produttori
mondiali. A Tremonti faccio notare che i "numeri" che chiede, in
proposito, li ha forniti una brillante ricerca della CGIA di Mestre,
laddove risulta assai chiaro che la Tremonti-bis – totalmente a-
selettiva nella incentivazione degli investimenti degli utili – ha
favorito il rigonfiarsi della bolla speculativa sugli immobili ed ha
istigato le medio-grandi imprese ad investire sul mattone, invece
che sulle capacità produttive dell'azienda.
Quanto all'IRAP poi, anche Tremonti non aveva indicato numeri, nella
stesura del programma della Casa delle Libertà, nel 2001. Non ce
n'era bisogno, data la natura dell'obiettivo: "aboliremo l'IRAP",
avevano detto. Tutti sapete come è andata a finire: ha fatto di più
il Governo di centro-sinistra in un anno, per ridurre l'IRAP, che il
governo di centro-destra in cinque. Riprendo qui il tema non solo
per rispondere a Tremonti, ma per sottolineare il rilievo della
proposta di Veltroni per "l'ampliamento dell'area di deducibilità"
dell'IRAP, ricorrendo a misure compensative per il finanziamento
della sanità. Personalmente, credo che sia arrivato il tempo per
ripensare l'IRAP. Questa imposta, che ha sostituito i contributi
sanitari ed altre imposte minori, ha avuto il merito di farci
entrare concretamente nell'era del federalismo. Ma bisogna ammettere
che essa resta stravagante nel sistema impositivo dei paesi
industriali, è poco compresa dagli investitori esteri, è poco
gradita alle piccole imprese italiane e genera la falsa impressione
che il prelievo fiscale possa assorbire anche tutti gli utili. Per
questo, credo che vada aperto un confronto che – sviluppando
l'indicazione del decalogo di Veltroni – punti a ristabilire un più
corretto rapporto tra chi decide l'imposta (la Regione) e chi
esercita il diritto di voto e paga le imposte. A questo confronto
Tremonti e il centro-destra potranno fornire un utilissimo
contributo, alla condizione di non impalcarsi a giudici e di fare
onestamente i conti – a proposito di IRAP – con quello che si è
configurato come un vero e proprio fallimento nella loro azione di
governo. Per preparare adeguatamente l'incontro di oggi, Paolo
Giaretta ed io abbiamo incontrato sindacalisti, singoli
imprenditori, associazioni di impresa: questa mia opinione sull'IRAP
ne è uscita rafforzata, unitamente alla convinzione che sia
necessario agire per una semplificazione fondata sulla "normale"
deducibilità/detraibilità dei costi, di tutti i costi. Le
indicazioni fornite dalla Commissione presieduta da Salvatore Biasco
sono in questo senso utilissime.
Così come – ben al di là del suo intrinseco valore economico –
dovrebbe costituire un solido riferimento per l'azione futura quella
parte del Patto sociale recentemente sottoscritto che prevede la
riduzione della pressione fiscale sulla quota di salario da
contrattazione decentrata. Se il problema fondamentale è il recupero
di produttività – e se si è riaperta da tempo una seria questione
salariale – è lungo questa linea che va riformato il modello di
contrattazione figlio del Patto del '93.
Potrei proseguire riprendendo ciascuna delle altre proposte del
decalogo, ma credo che già questi argomenti siano sufficienti per
dimostrare come l'accusa di "genericità", di mancanza di puntualità
e precisione sia effettivamente infondata: i principi indicati sono
certo generali, ma costituiscono solidi riferimenti per l'azione di
riforma e sono improntati ad un robusto realismo riformista.
Naturalmente, la piattaforma può arricchirsi di ulteriori proposte,
a partire da quelle che lo stesso Veltroni ha avanzato nel discorso
del Lingotto: aiuti fiscali alle famiglie, trattamento fiscale degli
affitti (pagati e percepiti), armonizzazione delle aliquote sul
capital gain.
Sia le proposte gia avanzate, sia quelle che dovranno essere
elaborate, sono state – e debbono essere – coerentemente ispirate al
binomio equità-sviluppo; debbono rifuggire accuratamente da
forzature ideologiche e non debbono temere di affrontare argomenti-
tabù.
Prendiamo il caso delle virtù traumaturgiche attribuite – per la
lotta all'evasione fiscale – al cosiddetto contrasto degli
interessi: "possibile che non capiate che basta far in modo che
tutti possano scaricare una parte significativa di tutto quel che
spendono, per eliminare l'evasione?" Non lo capiamo, perché le cose
non stanno così: estremizzata – tutti su tutto – questa soluzione
avrebbe come esito finale la tassazione del solo risparmio. Buttiamo
allora nel cestino il "contrasto degli interessi"? No. Lo usiamo
dove e quando può risultare efficace: l'aliquota unica del 20%
sull'affitto percepito, accompagnata da una significativa detrazione
sull'affitto pagato, appare un buon campo di applicazione. Abbinata
alla armonizzazione al 20% delle aliquote di prelievo sul capital
gain realizzato (e non semplicemente maturato), potrebbe aumentare
l'efficienza del sistema, garantendo la neutralità del fisco
rispetto alle scelte allocative; potrebbe fornire il finanziamento
necessario per i primi anni di applicazione (quando non si sarà
ancora determinata l'emersione che potrebbe rendere la norma sugli
affitti capace – a regime – di autocoprirsi); e, infine, potrebbe
aumentare la disponibilità di alloggi dati da privati in affitto.
L'esempio del prelievo fiscale sugli affitti e sul capital gain è
buono anche per il confronto sulla flat-tax. Anche in questo caso,
l'approccio che fa dell'una (aliquota piatta su tutto e per tutti) o
dell'altra soluzione (aliquote progressive sempre e comunque) una
sorta di oggetto di fede, non mi pare quello utile: la progressività
del prelievo, principio costituzionale che va mantenuto, ha da
essere riferita al sistema nel suo complesso, non ad ogni imposta,
giacché appare evidente – ad esempio – che le due aliquote di
prelievo sul capital gain oggi in vigore hanno un carattere
vergognosamente regressivo; mentre il prelievo con l'aliquota
marginale dell'IRPEF sugli affitti percepiti distorce le scelte
allocative e spinge all'evasione.
E ancora: "fate come in Francia – ci si dice – a proposito di
fiscalità della famiglia". Alla recente Conferenza sulla Famiglia di
Firenze, il Governo Prodi, con il Ministro Bindi, ha avanzato una
proposta di sostegno fiscale alle famiglie con bambini che –
partendo dall'assegno alle famiglie più povere, che debbono ricevere
un aiuto pari alla somma di assegno e detrazione – incrementa
progressivamente l'entità dell'intervento, in una logica compatibile
col sistema fiscale italiano, che – ma è solo un esempio – non
prevede, a differenza di quello francese, un'imposta patrimoniale.
Con lo stesso approccio dovremmo misurarci con le ipotesi che
vengono avanzando di fiscalità premiale per l'occupazione femminile.
Se i problemi di fondo del Paese sono riassumibili in due – declino
demografico e bassa partecipazione delle donne alle forze di lavoro –
è necessario chiamare il sistema fiscale a contribuire alla loro
soluzione. Del sostegno alla famiglia con bambini ho già detto. Per
far crescere la partecipazione delle donne alle forze di lavoro –
consapevole dei rischi che queste soluzioni comportano – vedo invece
due strade, da percorrere contemporaneamente. La prima: l'impresa
che – al Sud – assume una donna e non un uomo deve poter contare su
un forte credito d'imposta automatico, decrescente nel tempo. La
Legge Finanziaria in vigore compie un primo passo in questa
direzione, che ora andrebbe rafforzato nell'entità dell'incentivo.
La seconda: le donne che lavorano dovrebbero poter contare su di una
più elevata detrazione per la produzione del reddito, capace di
compensare (almeno in parte) il carico del doppio lavoro e
l'esigenza di provvedere a collaborazioni esterne per l'attività di
cura di bambini e anziani.
Mi piacerebbe poi che anche in Italia potesse svilupparsi – magari
prima tra tecnici e poi anche in sede politica – un pieno confronto
sulla possibilità e utilità (economica e sociale) di realizzare un
significativo spostamento del carico fiscale da imposte dirette e
contributi sociali a imposte indirette ed in particolare all'IVA.
Una misura di questo tipo sposterebbe l'imposizione dalla produzione
nazionale (lavoro e profitti) ai consumi e, quindi, porterebbe un
vantaggio competitivo. Infatti l'IVA colpisce anche e soprattutto le
importazioni, mentre le imposte dirette e i contributi sociali
colpiscono solo i fattori interni della produzione. Per questi
diversi motivi molti paesi industriali stanno spostando il carico
fiscale sull'IVA, pur se in maniera non dichiarata o traversa,
perché l'opinione pubblica appare essere contraria ad una tassazione
sui consumi, ritenuta generalmente regressiva (ma non è affatto
vero). Avevano iniziato gli USA negli anni passati. L'aumento
dell'IVA e riduzione delle imposte dirette è stato un cavallo di
battaglia della Merkell in Germania (molto contestato, ma ora in via
di attuazione). Ora ci prova la Francia di Sarkosy, sotto la
definizione di "IVA sociale", ossia l'aumento dell'Iva per prodotti
di lusso (e di importazione).
Infine, qualche indicazione di principio in tema di federalismo
fiscale: decentramento delle decisioni pubbliche, separazione dei
poteri, maggiore autonomia alle comunità e ai territori, riduzione
del peso della politica "romana". La Costituzione consente il
decentramento del potere legislativo alle Regioni e il potenziamento
delle funzioni amministrative degli enti locali. Consente altresì
che una parte significativa del gettito tributario non transiti più
per il bilancio dello stato, ma possa essere acquisita direttamente
da Regioni ed Enti Locali.
Il quadro disegnato in Costituzione deve essere riempito, per la sua
attuazione, da scelte politiche: potenziare la responsabilità delle
istituzioni regionali e locali, consentire lo sviluppo di
ragionevoli differenze nelle scelte su quanto tassare, quanto
spendere e come spendere nei diversi territori. Non dobbiamo avere
paura del fatto che Regioni ed Enti Locali possano adottare diverse
soluzioni su modalità e intensità dell'intervento pubblico. Regioni
o Comuni che vogliono più spesa o meno spesa pubblica, più tasse o
meno tasse, devono avere il potere di decidere di conseguenza.
Compito dello stato centrale è di fare sì che queste differenze non
raggiungano livelli eccessivi.
La nostra Costituzione (art. 116) consente anche di estendere
l'esperienza delle regioni a statuto speciale ad altri territori,
senza alcuna sregolatezza, nel rispetto dei vincoli della parità di
trattamento dei cittadini in tutti quei settori dove l'intervento
pubblico fissa i criteri di uguaglianza e parità.
Il federalismo fiscale non è anarchia. Gli ordinamenti tributari e
gli interventi di regolazione che riguardano il cittadino e le
imprese devono essere prerogativa del governo centrale. Il potere di
decidere quanti servizi pubblici e quindi quale livello della
tassazione deve essere lasciato ai governi locali.