Torino- Librerie Coop – Piazza Castello 113 – Venerdì 16 luglio 2010 – ore 18.00
Di seguito la recensione di Stefano Ceccanti pubblicata su Europa del 10 giugno e disponibile sul suo blog.
Il libro di Morando (Riformisti e comunisti? Dal Pci al Pd. I «miglioristi» nella politica italiana, Donzelli) illustra, sin dal titolo, i paradossi di tutti i riformisti, ingabbiati come minoranze in partiti diversi nella prima repubblica, e, per questo, non in grado di marcare una egemonia durevole. De Giovanni nell’introduzione richiama il tabù anche di quell’area descritto da Morando, quello dell’unità del partito e del suo governo dal centro, tagliando le ali, in modo conforme al sistema politico: una modalità che consente solo deboli adattamenti ai margini e non innovazione durevole.
Un tabù sull’«effettiva organizzazione del comando politico» che derivava da un’autocomprensione «di superiorità del pensiero comunista». Un’unità che specularmente giustificava l’unità politica dei cattolici nella Dc, anche oltre il Concilio Vaticano II e dopo la dimostrazione che le componenti riformiste anche in quel partito erano strutturalmente minoritarie. A un riformismo coerente si poteva pervenire solo con quella che Scoppola chiamava la rottura simultanea dei due dogmi: l’unità a sinistra su una base di continuismo ideologico comunista e la rottura dell’unità politica dei cattolici con la fisiologica separazione di riformisti e conservatori. Esattamente il disegno che Morando e una significativa, anche se limitata, parte dei miglioristi, soprattutto dei più giovani, dimostra di perseguire sin dai referendum elettorali.
Mentre il Psi, dopo la svolta riformista craxiana, pagava la contraddizione tra «l’ambizione del progetto e i caratteri, intimamente contraddittori con lo stesso, del partito che se ne fa interprete», fin quando Craxi, che aveva anticipato il tema delle riforme istituzionali, essendosi nel frattempo accontentato dello status quo, finisce sconfitto proprio sul primo dei referendum elettorali. L’inizio del migliorismo è paradossalmente legato in Amendola a un intreccio tra sicurezza ideologica di lunga durata sul superamento del capitalismo e moderazione programmatica nel presente, che comporta una concezione sacrale del partito, luogo di anticipazione di quel superamento. «Una sintesi impossibile tra comunismo e liberalismo (…) ma rigidamente contenuta dentro l’involucro teorico e pratico (il partito) del leninismo». Per questo la minoranza non ha coraggio di esprimersi esplicitamente come tale e di candidarsi per il futuro a un’alternanza interna alla guida del partito. Ancora a fine 1985 la battaglia di Morando per rompere il centralismo democratico ottiene qualche appoggio trasversale (Giovanni Berlinguer), ma nessun migliorista lo sostiene e lo vota.
Così pure, nello stesso momento, la proposta di adesione all’Internazionale Socialista per la quale viene definito «pazzo» da Pajetta. La lunga tradizione di «riformismo passivo» (Gualtieri), di quel paradosso per cui i principali esponenti del Pci ragionavano da comunisti ma operavano da socialdemocratici (Covatta), rende gli stessi miglioristi incerti anche al momento della svolta del 1989. Il volume abbraccia la costituzione formale dell’area riformista nel dicembre 1989 e la sua chiusura a fine 1994 e ne segnala pregi e limiti. La svolta è vista non come una rottura giunta in ritardo, ma paradossalmente come la conferma di acquisizioni maturate da tempo, prendendo erroneamente il proprio gruppo come base di riferimento per l’evoluzione dell’insieme del Pci. Non si può parlare di una battaglia decisa dei miglioristi come gruppo neanche sulla vicenda, qui puntualmente ricostruita, che più ha influenzato la transizione: il ritiro dei ministri dal governo Ciampi dopo un solo giorno, che rese impossibile una chiara coalizione di centrosinistra alle Politiche successive, mentre la separazione tra Progressisti e Popolari, entrambi illusi di poter realizzare un accordo post-elettorale, spianò la strada a Berlusconi. Solo a posteriori Napolitano avrebbe parlato di «errore grave: perché così il Pds sarebbe arrivato alle elezioni del 1994 non essendo più partito di opposizione e non essendo ancora partito di governo». «Da diciassette anni – commenta Morando – la vicenda politica si sviluppa intorno alle coordinate fornite da quell’errore grave».
Rispetto alla modernizzazione promessa e non mantenuta da Berlusconi, la possibilità di una «rivoluzione liberale », ovvero di un superamento delle caratteristiche tradizionali non più proponibili delle politiche socialdemocratiche sulla base dei valori riformisti, analogamente a quanto compiuto da Blair, è vista da Morando e da un’ampia parte dei provenienti dall’esperienza dei miglioristi, nell’Ulivo e poi nel progetto del Pd. Il punto è che sin qui, nonostante lo sforzo fatto dal Lingotto in poi, la separatezza originaria delle culture riformiste sembra renderle ancora non all’altezza di quella “rivoluzione liberale” che si deve poter fare da sinistra, anche perché da destra non sembra proprio venire.