BUSSOLE – di Ilvo Diamanti – Il referendum e l'incubo del '91
IL referendum abrogativo della legge elettorale sembra cosa fatta. Le firme raccolte superano, ormai, largamente la soglia di sicurezza. Il che ha prodotto un'intensa fibrillazione politica. In entrambe le coalizioni. Nell'Unione: Rifondazione e i partiti più piccoli, centristi o di sinistra non importa. Ad eccezione di Di Pietro. Nella CdL (o ciò che è ora): la Lega e l'UdC. Non ci stanno. Non vogliono modifiche per via referendaria. Solo per via parlamentare. Berlusconi, poi, oscilla, a seconda del momento.
Ma, in cuor suo, teme il referendum. L'attuale legge non gli dispiace. Anzi. La considera "il meno peggio dei mondi possibili". Perché nessun altro, quanto lui, è in grado di tenere insieme le diverse componenti della "coalizione". E, con questa legge, la "coalizione" è l'unico metodo possibile per vincere le elezioni.
Ci sono diverse ragioni dietro a questa ostilità. Motivi specifici
ed evidenti, nel caso dei partiti più piccoli. Perché, qualunque
cosa avvenga, dopo il referendum sarà impossibile una condizione
altrettanto favorevole, per loro. Oggi, qualsiasi formazione
politica, dotata di una base elettorale di qualche decina di
migliaia di voti, diventa determinante ai fini del risultato finale.
Per questo, può chiedere e ottenere molto, in cambio del proprio
appoggio. Se, poi, riesce ad approdare in Senato, allora, il suo
peso cresce a dismisura. Assume un potere di veto e di ricatto
infinito.
Vengono, poi, ragioni di strategia politica. Chi persegue una
prospettiva "neocentrista" non può accettare un sistema elettorale
che spezza in due lo schieramento. E "costringe" gli elettori
moderati, di centro e dintorni, a scegliere. Qui, là oppure fuori.
E' il problema che inquieta i Popolari della Margherita, una parte
di Forza Italia. Oltre – di nuovo – a Udc e Udeur.
Però, le ragioni che inducono il titolare della Giustizia (e non un
ministro qualsiasi) a minacciare la crisi di governo, nel caso si
arrivasse al referendum – previsto, pare, dal Diritto e dalla
Costituzione – non si possono riassumere in termini di "interessi
particolari". Dietro alla "paura" del referendum elettorale c'è la
memoria dei primi anni Novanta. Il referendum del 1991, promosso da
Mariotto Segni. Ridotto, dalla Corte Costituzionale, a un quesito
che riduceva le preferenze di voto a una sola. Poca cosa, sembrò
allora, ma fu un terremoto. Uno tsunami. Perché venne usato dagli
elettori come un grimaldello per forzare le porte del Palazzo. Per
espugnare la fortezza della Partitocrazia. Identificata allora – al
contrario di oggi, paradossalmente – con la preferenza, che oggi si
vorrebbe ripristinare. Perché ieri veniva usata dalle "lobbies di
partito", per accordarsi tra loro. E per "negoziare" con le "lobbies
sociali" lo scambio fra benefici e consenso. Mentre oggi è
considerata un metodo per affermare la responsabilità personale
degli eletti nei confronti degli elettori.
Quello, comunque, venne inteso come un referendum "contro" i partiti
e la classe politica della prima Repubblica. Che, non a caso, lo
contrastarono. Craxi in testa. Il quale invitò i cittadini
ad "andare al mare". I cittadini, invece, andarono a votare.
Imprimendo una spinta violenta e determinante all'assetto della
prima Repubblica. Il successivo referendum, che si svolse nel 1993,
sancì il definitivo passaggio dal proporzionale al maggioritario
misto, per il Senato. Un modello riprodotto, in larga misura, anche
per la Camera, con la discussa legge che, deformando il nome del
relatore, Giovanni Sartori ha definito,
causticamente, "Mattarellum".
Il referendum elettorale, quindi, nella nostra storia recente,
costituisce un cleavage; una "frattura". Marca la discontinuità nei
rapporti fra società e politica. Anche il referendum fallito del
1999, che non raggiunse il quorum per poche migliaia di elettori,
conferma questa regola. Mirava a ridurre il peso della quota
proporzionale del Mattarellum. La sua bocciatura sottolinea la
delusione degli elettori, per una transizione perenne. Che non si
chiude mai. Riflette la reazione verso la tendenza a caricare sui
cittadini il compito di sostenere le riforme che i "nuovi" politici
non sono in grado di realizzare. Prepara e annuncia, quindi, il
rilancio di Berlusconi. Sancito dal successo elettorale del 2001.
Oggi, però, il referendum cade in un clima politico che rammenta
molto il periodo 1990-93. Il sentimento antipolitico, infatti, è
diffuso, solido, palpabile. Come allora. E' una nebbia pesante, che
opprime la vista e i polmoni. La classe politica appare
delegittimata. Il sistema partitico, peraltro, è più frammentato di
prima. E non sembra in grado di varare una nuova legge elettorale.
Troppo divisi e polverizzati gli interessi di parte. Ora si riparla
di "sistema alla tedesca", con una soglia di sbarramento. Non
superiore all'1%, sospettiamo. Nessuna sorpresa, dunque, che il
referendum susciti tensioni tanto forti. D'altra parte, il
referendum è di per sé "bipartitico". Non dà possibilità di
mediazione, in campagna elettorale. E si infiltra dentro le
coalizioni. Oppone, uno contro l'altro, i partiti alleati. Ma anche
i leader, i militanti, gli elettori dello stesso partito.
Per questo preoccupa, anche al di là degli effetti che potrebbe
produrre sulla legge elettorale. A generare nervosismo e reazioni,
talora un po' isteriche, è la memoria del 1991. Il timore che il
referendum si trasformi in un voto pro o contro "la casta",
il "sistema dei partiti", il "ceto politico". Non c'è bisogno di
sondaggi per capire quale sarebbe il risultato.
(20 luglio 2007)