Corriere della Sera, 1 agosto 2009
L'idea di nazione
il Tabù infranto sulla Questione Meridionale
di Michele Salvati
Forse una nazione non è un plebiscito che si rinnova ogni giorno, secondo la celebre affermazione di Ernest Renan. Ma sicuramente una nazione, soprattutto la nostra, è un processo in corso, come ha scritto martedì su questo giornale Giuseppe De Rita. Un processo ancorato alle solide basi di una lingua e di una cultura comuni, ma di origini statuali recenti – la «conquista» piemontese ha solo 150 anni – e attraversato da linee di faglia insidiose.
Di queste la più profonda è quella tra il Nord e il Sud del Paese.
È vero, ed è sempre De Rita a ricordarcelo: l'Italia è un «semenzaio di nazioni». Ma alcune di esse erano e sono facilmente integrabili. Altre meno: la società, l'economia e le stesse istituzioni – eguali sulla carta – in alcune regioni del Mezzogiorno sono rimaste così diverse nel loro funzionamento rispetto all'economia, alla società alle istituzioni del Centro-Nord da giustificare una severa riflessione sul «processo in corso» o addirittura l'idea blasfema se rinnovare il plebiscito: vale la pena?
Intendiamoci, non è la prima volta che questa riflessione si intensifica e che quell'idea fa capolino: quel che pensavano del Mezzogiorno molti dei «piemontesi» conquistatori – e scrivevano nelle loro lettere e nelle loro memorie – forse era ancor più razzista e sprezzante di quel che pensano e scrivono i leghisti di oggi. La differenza era che allora – e fino al tramonto della Prima Repubblica – l'unità d'Italia non veniva messa in discussione, il plebiscito si rinnovava anche in momenti tragici o difficili. Anche nel periodo che va dal crollo del fascismo alla Costituzione repubblicana. Anche nei 15 anni delle grandi migrazioni meridionali verso il Nord del Paese. Reggeva allora una convenzione non scritta, un vero e proprio tabù: nessun grande partito doveva utilizzare per convenienza politica le insofferenze, i pregiudizi, i risentimenti diffusi tra le popolazioni settentrionali contro i meridionali. E la convenzione non scritta era fondata, oltre che su motivazioni di fraternità pur presenti, sull'idea che solo restando unita l'Italia poteva conquistare un posto tra le grandi nazioni, poteva aspirare a un ruolo politico e culturale significativo nel resto del mondo. È il venir meno di questa convenzione non scritta che rende pericolosa l'azione delle leghe a partire dagli anni '80 del secolo scorso, la sfida del grande tabù sino ad allora rispettato: le leghe locali, e poi la Lega di Bossi, capiscono che esiste un grande serbatoio di consenso nel risentimento anti-romano, anti-unitario, anti-meridionale che covava nelle popolazioni del Nord e decidono di sfruttarlo.
Tutto parte da qui. Toccherà agli storici spiegare perché questo avviene negli anni '80 e non prima. Al di sotto del trauma politico che conduce alla Seconda Repubblica, sicuramente gioca un indebolimento dell'idea di nazione: esso ha a che fare con la percezione – sbagliata – che in un mondo avviato verso la globalizzazione, e nel contesto dell'Unione Europea, nazioni medie, come quella italiana, non abbiano più senso e che conti soltanto il benessere delle popolazioni delle singole regioni, non a caso oggetto di riconoscimento e di sollecitazione da parte della stessa Europa. Sicuramente gioca il rallentamento dello sviluppo economico e il maggior peso dell'imposizione fiscale: l'aggravio della intermediazione pubblica, in parte dovuto al Mezzogiorno, si fa sentire maggiormente quando il tasso di crescita scende dal cinque per cento degli anni Cinquanta e Sessanta, al due e mezzo degli anni Settanta e Ottanta, all'un per cento medio nel decennio successivo all'entrata nel sistema monetario europeo. Ma soprattutto gioca l'intrattabilità della questione meridionale, il fatto che in tanta parte del Paese resista una società che non genera impresa e produce reddito colla stessa intensità delle regioni settentrionali e centrali. E dunque continua a sollecitare trasferimenti o non contribuisce quanto quelle regioni al benessere nazionale.
Una volta sfidato il tabù, una volta rotto il vaso di Pandora, una volta uscito il genio dalla lampada – si usino le metafore che si preferiscono – è impossibile tornare alla situazione precedente: tornare indietro fa parte dei rimpianti sterili per la Prima Repubblica che oggi abbondano. Ci si metta il cuore in pace. Il federalismo fiscale è destinato a restare: data la genericità della legge delega, è solo sulla saggezza dei decreti delegati e sulla riforma del Senato, come meccanismo di intermediazione e controllo, che bisogna contare. Ed è su queste (prossime) scadenze che si valuterà la caratura nazionale dei grandi partiti, del Pdl e del Pd: affrontarle seriamente è il modo concreto con il quale oggi ci si confronta con la «questione meridionale», se si intende risolverla in tempi storici e non farla marcire in eterno.
Sul Corriere del 20 luglio Ernesto Galli della Loggia, lamentando la frammentazione delle iniziative e la dispersione dei fondi destinati a commemorare il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, chiedeva di concentrare gli sforzi su un grande tema unificante. Perché non pensare di concentrarli sulla vera minaccia che oggi insidia l'unità del nostro Paese, la permanenza intollerabile di una «questione meridionale»? Forse siamo ancora in tempo a sollecitare una ondata di riflessioni e di proposte cui i politici possano attingere nei prossimi (e decisivi) anni.