Goffredo Bettini ha avuto il merito di aver lanciato il sasso senza tirare indietro la mano (articolo del 5 febbraio scorso). È tempo di una nuova grande strategia politica per il Pd e il centrosinistra, che superi lo schema bersaniano delle alleanze di vecchio tipo e, al di là degli obiettivi del Lingotto, l'esperienza concreta della fase finale del veltronismo, ovvero il mini compromesso storico tra la sinistra e gli ex democristiani, gestito da un patto di correnti "santificate" e da «volubili accordi di potere».
Nella riflessione di Bettini, cui si possono associare anche quella di Sergio Chiamparino e quella di Franco Monaco, la soluzione alle nostre evidenti difficoltà è la costruzione di un «nuovo Ulivo… un cantiere politico… un nuovo campo… che raccolga l'insieme delle energie democratiche da Casini a Vendola». Una recentissima koiné comunicativa ha inventato all'abbisogna la categoria dei "nuovi ulivisti". Credo che qui occorra un po' di chiarezza.
L'Ulivo nacque nel 1995 dall'incontro di pidiessini, popolari, socialisti, forze laiche e verdi riformisti. Con infinita fatica l'Ulivo è stato il germe da cui è nato il Pd e non si è mai identificato per tratti culturali con l'Unione, rappresentata anche dalle forze ancora sedicenti comuniste e dall'Italia dei Valori. L'esigenza di far evolvere l'Ulivo nel Pd e i crescenti sforzi di questi anni per avere più Pd e meno Unione, anche esponendosi a rischi di autosufficienza, non nasceva da passioni politologiche, ma dallo strenuo tentativo di dotarsi di un programma di riforme incisive come dice Goffredo «per battere il populismo, per costruire una nuova religione della Repubblica». Abbiamo insieme cercato un riformismo di popolo contro il populismo della destra per disincagliare l'Italia dalle sue storiche arretratezze.
Il nuovo soggetto politico su cui molte libere intelligenze si stanno esercitando, non può che essere allora un maxi Pd, un travaso e un rimescolio di culture, rappresentanze e classi dirigenti per un Pd rafforzato, trasformato e reso, infine, idoneo alla sfida per il cambiamento. Su questo bisogna essere chiari: il sasso lanciato nello stagno ha disegnato cerchi molto larghi e può suscitare disponibilità impreviste, purché ci sia assoluta chiarezza che si vuole intraprendere un movimento ascendente e non discendente, che non indugiamo neppure per un attimo nella idea riposante che si possa assemblare ciò che non è assemblabile.
Forse si può incominciare, senza perdere l'ennesima occasione, a investire il popolo delle primarie – quei tre milioni e mezzo di cittadini che hanno fondato il Pd e che chiedono di poterlo abitare con pienezza di diritti – di essere il motore di questa proposta di allargamento e di definizione programmatica per la stagione non lunga che va dalle prossime elezioni regionali alle politiche del 2013.
Nel 2005 non bastarono né le primarie, né il mito del leader federatore a tenere insieme una coalizione troppo eterogenea. Tra il 2010 e il 2013 dovremo lavorare per avere più Pd, più ambizione maggioritaria, anche in un arco compatibile di alleanze, con una coerenza riformista che sappia dare uno sbocco politico, se non alla crisi del berlusconismo, pure testimoniata dagli attuali tormenti all'interno del Popolo della Libertà, almeno alla conclusione fisiologica dello stesso. La fusione già avvenuta nel popolo delle primarie, la nostra linfa che malgrado tutto non si lascia estinguere, può dare nutrimento a un'operazione politica esigente, difficile, ancora tutta da costruire.