La nuova governance economica: una buona notizia per l’Europa una sfida drammatica per l’Italia
Giorgio Tonini – Capogruppo del PD in Commissione Esteri del Senato
1. Quando nel 2008 è esplosa la bolla immobiliare americana e l’Occidente è precipitato nella grande recessione del 2009, tutti abbiamo detto che nulla sarebbe stato più come prima. E’ apparso subito chiaro che non si trattava di una delle tante crisi cicliche del sistema economico mondiale, ma di una crisi di quel sistema in quanto tale: un sistema che si era retto per trent’anni sul crescente squilibrio finanziario, monetario e commerciale tra paesi debitori (gli Usa in primo luogo) e paesi creditori (prima il Giappone, poi la Cina).
Un sistema nel quale lo squilibrio globale si era accompagnato alla crescente disuguaglianza, in particolare all’interno della società americana, secondo i dettami della dottrina neo-conservatrice, per i quali solo la disuguaglianza è dinamica e produce crescita e sviluppo (e quindi, in seconda battuta, anche diffusione, sia pure disuguale, della ricchezza), mentre le politiche per l’uguaglianza sono strutturalmente contraddittorie con la crescita.
La crisi finanziaria ha messo in evidenza l’insostenibilità di questo modello: lo stesso che pure, non possiamo non riconoscerlo, aveva prodotto la fine del comunismo e la globalizzazione e con essa una lunga e impetuosa stagione di crescita economica, insieme all’ingresso di miliardi di esclusi nel circuito dello sviluppo. La crisi finanziaria ha aperto la strada alla ricerca di un nuovo paradigma, che faccia dell’equilibrio internazionale e dell’uguaglianza sociale, insieme alla sostenibilità ambientale, i nuovi motori dello sviluppo.
La grande vittoria di Obama nel 2008 si spiega in gran parte così: come un’apertura di credito, sia da parte degli esclusi, sia da parte dei moderati, alla possibilità che un nuovo paradigma, democratico, progressista e ambientalista (oltre che di pace, di distensione multilaterale sul piano delle relazioni internazionali), possa produrre nuova crescita e scongiurare l’incubo dello scontro di civiltà, insieme allo spettro del declino americano.
Saranno i prossimi anni a dirci se la sconfitta democratica alle elezioni di midterm è stata solo una battuta d’arresto, che non pregiudica la ricerca e l’affermazione del nuovo paradigma, o se invece è il segnale del precoce fallimento di questa speranza. Molto dipenderà dalla capacità di Obama di dimostrare che il rilancio di politiche economiche e sociali per l’uguaglianza non si identifica con il ritorno ad un modello di “Big Government” tradizionale (in Europa diremmo un modello statalista di tipo socialdemocratico), per il quale non esistono più i presupposti, ma nell’individuazione di una nuova via, centrata sul binomio “poliarchico” persona-comunità. E qualcosa, forse, dipenderà anche da cosa farà l’Europa e da quali rapporti si stabiliranno tra i due occidenti, lungo le due sponde dell’Atlantico.
2. Con i tempi di reazione che le sono propri (e che sono notoriamente assai più lenti di quelli americani), anche l’Europa ha reagito alla crisi. Per la verità, le prime mosse non erano state brillanti ed erano parse ispirarsi al doppio criterio del minimalismo in sede comunitaria e del prepotente ritorno del primato degli interessi nazionali. Del resto, l’Europa al suo interno tende da tempo a riprodurre in scala il grande squilibrio mondiale: anche nell’Unione c’è un’area (prevalentemente mediterranea) di economie indebitate e un’area (attorno alla Germania) di economie in surplus. E le due aree hanno, almeno in via immediata, prospettive e interessi divergenti.
Lo scorso 1 settembre, sulle colonne de “Il Sole 24 Ore” e della “Washington Post”, Charles Kupchan, definito dal presidente Napolitano “un valoroso osservatore americano non ostile all’Europa”, sosteneva che “l’Unione europea sta morendo”. “Il declino dell’Europa – scriveva Kupchan – in parte è economico. La crisi finanziaria ha colpito duramente molti Stati membri e i livelli del debito pubblico e la salute incerta delle banche del continente potrebbero essere presagio di altri problemi in futuro. Ma sono malanni di poco conto in confronto ad una malattia più seria: da Londra a Berlino a Varsavia, l’Europa sta assistendo ad una rinazionalizzazione della vita politica, con gli Stati che fanno di tutto per riprendersi quella sovranità che un tempo erano disposti a sacrificare per l’obiettivo di un ideale collettivo”.
Le parole di Kupchan sono quelle di un innamorato deluso. Solo pochi anni fa, l’ex-consigliere di Clinton aveva sostenuto in un libro di successo che se il XX era stato il secolo americano, il XXI sarebbe stato il secolo europeo. E invece, dinanzi alla prova dura della crisi economica, l’Europa ha vacillato ed è parsa incapace di reggere l’urto. All’articolo di Kupchan ha risposto pochi giorni dopo, in un intervento teletrasmesso al convegno di Cernobbio, il presidente della Repubblica: “Continuo ad essere razionalmente credente nell’Europa”.
Napolitano ha avuto ragione, perché proprio la crisi greca, che aveva rischiato non solo di mandare in default uno Stato, ma di travolgere la stessa moneta unica, ha anche diffuso nelle capitali europee un salutare spirito di allarme. I tedeschi per primi e poi tutti gli altri, almeno a livello di classi dirigenti, hanno capito che non si può più reggere l’Unione monetaria senza politiche economiche e di bilancio condivise. Nel giro di pochi mesi, del tutto inaspettatamente, questa consapevolezza ha prodotto una riforma della governance economica europea che non è esagerato definire storica.
Il 28 e 29 ottobre scorsi, a Bruxelles, il Consiglio europeo ha varato, almeno nelle sue grandi linee politiche, quella che si potrebbe definire la “nuova Maastricht”: una nuova costituzione economica europea, elaborata in poche settimane da una task force guidata dal presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e composta dal commissario all’economia Rehn, dai presidenti dell’Eurogruppo e della Banca centrale, Juncker e Trichet, oltre che dai 27 ministri economici dei paesi membri, tra i quali il nostro Tremonti.
Il rapporto Van Rompuy è un’ottima notizia per l’Europa e insieme una sfida drammatica per l’Italia. E’ un’ottima notizia per l’Europa, perché dimostra che il Vecchio Continente ha saputo reagire alla crisi non chiudendosi in difesa, all’insegna dell’euroscetticismo dei nuovi nazionalismi, ma anzi imprimendo un vero e proprio colpo d’ala nel processo di integrazione europea. Ed è una sfida drammatica per l’Italia, perché il nostro Paese ha (finalmente) dovuto impegnarsi a invertire l’attuale deriva di dolce declino, definendo un piano di riforme strutturali della spesa pubblica e dell’economia, che innalzino la produttività totale del sistema, insieme ad un preciso e arduo programma di graduale, ma certa e verificata, riduzione dello stock di debito pubblico.
3. Il cuore della “nuova Maastricht” sta nel cosiddetto “semestre europeo”, che capovolge il rapporto tra Unione e Stati nelle politiche finanziarie ed economiche. Fino ad oggi, mentre la politica monetaria, almeno nell’area dell’Euro, era stata devoluta all’Unione, le politiche finanziarie ed economiche erano rimaste in mano ai singoli governi: salvo il rispetto, peraltro sempre più aleatorio, dei famosi parametri comuni. Dal 1 gennaio 2011, quella che chiamavamo la “finanziaria” diventa una manovra europea: a gennaio di ogni anno la Commissione presenta l’indagine annuale sulla crescita; tra febbraio e marzo il consiglio elabora il “Dpef” europeo, sulla base del quale, a metà aprile, i governi presentano i loro piani di stabilità e convergenza e di riforme macroeconomiche, che entro giugno vengono esaminati dalla Commissione e poi dal Consiglio Ecofin che approva le raccomandazioni di politica economica e di bilancio rivolte ai singoli Stati membri. Così si conclude il “semestre europeo” e comincia il semestre entro il quale ogni paese deve approvare la sua manovra, che diventa una sorta di applicazione nazionale della finanziaria europea.
L’Europa esce dunque significativamente rafforzata da questa riforma-lampo della sua governance economica. Al contrario di quel che temeva Kupchan, non solo gli Stati non si sono ripresi la loro sovranità, ma hanno accettato un significativo trasferimento di sovranità verso l’Unione: d’ora in avanti ognuno di essi dovrà rendere conto agli altri della sua situazione finanziaria (non più solo il deficit annuale, ma anche il debito) e della sua situazione economica (tasso di crescita, indebitamento delle famiglie e delle banche, debito previdenziale, bilancia dei pagamenti…). La Germania ha inoltre chiesto e ottenuto l’avvio di una procedura di modifica dei Trattati, che dovrà concludersi entro il 2013: per l’istituzione di un Fondo monetario europeo per la gestione delle crisi e per l’inasprimento delle sanzioni nei riguardi dei paesi inadempienti.
Come sempre accade per l'Europa, ogni progresso apre nuovi problemi e pone nuove sfide. La prima sfida sarà nello stesso nuovo Patto di stabilità e di crescita. Qualunque sia il livello di durezza delle sanzioni, difficilmente avrà successo la politica europea di stabilità senza contemporaneamente una politica europea di sviluppo. Il rilancio della proposta Delors, contenuta nel Libro bianco del 1992, di istituire un fondo europeo per grandi investimenti, finanziato attraverso eurobond, è dunque un passaggio di vitale importanza, al momento ignorato dai governi, che stanno discutendo solo di un pur indispensabile fondo anticrisi, ma non di un fondo anticiclico per grandi investimenti. E’ certamente vero che non può esserci rilancio dell’economia europea senza risanamento e senza riforme strutturali nei paesi che, come l’Italia, hanno fatto troppo poco sia l’uno che le altre. Ma è altrettanto vero che non può esserci rilancio dell’economia europea se, allo stesso tempo, non si utilizza la forza dell’Euro sui mercati internazionali e la crescita del merito di credito indotta proprio dal risanamento, per attirare capitali attorno ad un grande piano di infrastrutturazione materiale e immateriale del Vecchio Continente: reti, ricerca, formazione superiore.
Poi c'è il tema dell'architettura istituzionale. Non a caso, pur tra mille polemiche e con un’impostazione assolutamente minimalista, Angela Merkel e Nicholas Sarkozy hanno introdotto nella discussione il tema della revisione dei Trattati. La verità è che il Trattato di Lisbona, che pure ci è costato sudore e brividi, più di una salita di sesto grado, è già superato dalla storia che è andata più avanti.
Se la sovranità della politica economica si sposta dagli Stati membri all'Unione, non si può non porre il tema di chi la esercita. Se la costituzione formale dell'Europa resta quella attuale, la sovranità sarà esercitata da un concerto di Stati diretto nei fatti dallo Stato più forte, che oggi è la Germania: ci piaccia o no, la capitale d'Europa sarà, anzi per molti versi è già, Berlino. Se vogliamo che resti a Bruxelles, dobbiamo dare all'Europa non uno Stato – l'Europa è costitutivamente “poliarchica” – ma un’autorità di governo, un Presidente degli Stati Uniti d’Europa, eletto dai popoli e bilanciato dagli Stati e dal Parlamento. Questa è la nuova sfida che l'Europa ha davanti a sé, che noi europei abbiamo davanti a noi.
4. La seconda sfida riguarda noi italiani. Fino a quando il Governo europeo sarà la riunione dei Governi, l'unica legittimazione democratica delle decisioni europee resta per ora quella dei Governi nazionali. Questo dato di fatto rende incompatibile con la democrazia una gestione opaca del circuito tra proposte nazionali e decisioni europee, come quello che si è registrato in modo clamoroso e scandaloso in questo passaggio storico.
Mercoledì 27 ottobre scorso, mentre Angela Merkel passava l’intera giornata al Bundestag, per illustrare ai deputati tedeschi la linea politica che avrebbe tenuto l’indomani al Consiglio europeo, cioè ad uno dei vertici più importanti della storia dell’Unione, Silvio Berlusconi trascinava l’Italia nel gorgo politico-mediatico dell’ennesimo sexy-scandalo e al Senato della Repubblica, che su proposta del gruppo del PD ha tenuto una seduta sullo stesso argomento, il governo Berlusconi si è fatto rappresentare dal sottosegretario Casero. Non poteva esserci fotografia più chiara della drammatica situazione politica nostra: il governo politico del Paese di fatto non c’è più. Quel che ne resta è troppo intento a districarsi tra scandali a luci rosse, lodi alfani, legittimi impedimenti, case monegasche, ville antigue, compravendite di parlamentari e palinsesti televisivi, per occuparsi di una bazzecola come la nuova governance economica dell’Unione. L’unico che se ne occupa, quasi a tempo pieno, è il governo tecnico che c’è già: è il governo monocratico Giulio Tremonti. Una sorta di “commissario ad acta” dell’Unione europea (e del paese che dell’Unione detiene la golden share, cioè la Germania), che sta prendendo, da solo e senza risponderne a nessuno, né al presidente del Consiglio, né al Governo, tanto meno al Parlamento, decisioni che riguardano i prossimi vent’anni di vita del Paese.
E’ a questo punto evidente perché la “nuova Maastricht”, che è un’ottima notizia per l’Europa, è anche una sfida drammatica per l’Italia. Sulla base del rapporto della task force, approvato da Tremonti e ratificato da Berlusconi, l’Italia dovrà presentare entro aprile 2011 un piano nazionale di riforme economiche e sociali, finalizzato a ridurre i nostri squilibri (a cominciare da produttività e competitività), le cui linee essenziali devono essere anticipate in un documento da consegnare entro il 12 novembre 2010. Sempre entro aprile 2011, l’Italia dovrà presentare il piano di stabilità e convergenza, che dovrà contenere la manovra pluriennale di riduzione del debito entro il parametro del 60 per cento del pil. La misura annuale proposta dalla Commissione comporterebbe per l’Italia uno sforzo misurabile in circa 45 miliardi l’anno, ovviamente al netto del finanziamento del deficit annuale. Sulla proposta della Commissione si aprirà ora una trattativa, possiamo sperare in uno sconto, anche facendo leva sulla sostenibilità del nostro debito privato, ma è inutile farsi o seminare illusioni: un prezzo da pagare ci sarà e sarà molto salato.
Il problema è come affrontare questi due passaggi, rispettivamente di finanza pubblica e di riforme economiche, con un governo politico morto e un governo tecnico monocratico.
Ha dunque ragione Bersani quando dice, esasperato: “staccate la spina”. A condizione che si sappia, che noi democratici per primi sappiamo, che dopo ci vorrà molto di più di un governo per la riforma elettorale: ci vorrà un governo che sappia condurre il Paese ad affrontare uno dei passaggi più difficili della sua storia.