Vi propongo un intervento per me condivisibile a pieno di Carmine Pinto, pubblicato sull'ultimo numero de Le ragioni del Socialismo (in vendita con Il Riformista).
Ottobre 2008
"Il Partito Democratico italiano è giunto al suo primo anno di vita. Nelle discussioni di questi mesi molti dei suoi dirigenti hanno individuato nella brevità del suo processo costitutivo un argomento per contrastare i giudizi sull’evidente debolezza politica del PD. In realtà per molto tempo tutti pensavano al 14 ottobre, il giorno delle Primarie, come una data memorabile in cui celebrare una rivoluzione nel sistema politico italiano. Per anni, infatti, si era lavorato, nei DS come nella Margherita, alla fondazione di una forza capace di unire i riformismi del XX secolo e impiantare un modello di partito innovativo e moderno e il successo di quel giorno era la conferma della bontà della scommessa.
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Il Partito Democratico italiano è giunto al suo primo anno di vita. Nelle discussioni di questi mesi molti dei suoi dirigenti hanno individuato nella brevità del suo processo costitutivo un argomento per contrastare i giudizi sull’evidente debolezza politica del PD. In realtà per molto tempo tutti pensavano al 14 ottobre, il giorno delle Primarie, come una data memorabile in cui celebrare una rivoluzione nel sistema politico italiano. Per anni, infatti, si era lavorato, nei DS come nella Margherita, alla fondazione di una forza capace di unire i riformismi del XX secolo e impiantare un modello di partito innovativo e moderno e il successo di quel giorno era la conferma della bontà della scommessa.
I termini della sconfitta elettorale hanno gelato molte speranze ma sono state le amministrative e la fragilità di reazione di fronte al dinamismo politico del centro-destra ad avviare riflessioni critiche più esplicite. A dire il vero il confronto interno è stato aspro solo quando è intervenuto, violentemente, l’ex ministro prodiano Parisi mentre nel partito tutto era sfumato quasi come nelle tradizioni dei partiti del centralismo democratico. Apparentemente il richiamo all’unità è servito ad evitare una rottura in un partito ancora debole e poco strutturato eppure, sotto questa patina, in giro per l’Italia comincia a delinearsi una realtà diversa da quella teorizzata tre anni fa. Il gruppo dirigente nazionale sembra attenersi alle regole della solidarietà interna ma, in quasi tutte le regioni d’Italia, scontri tra gruppi e correnti si accompagnano a paralisi politiche simili a quelle romane. Episodi che hanno cominciato a squarciare il velo di una realtà ben diversa da quella propagandata dopo il 14 ottobre. E’ da questa realtà che parte la domanda: che cos’è il PD e qual’è il suo reale profilo politico ed organizzativo?
Per rispondere occorre una breve introduzione. La convinzione dell’impossibilità di proporre il partito socialdemocratico in Italia era tra le ragioni della fondazione del nuovo partito. Le motivazioni erano nelle anomalie storiche del sistema politico italiano e nel tipo di tradizioni che confluivano nel PD (in gran parte ex comuniste ed ex democristiana). Ma c’era anche la riflessione prodiana fatta propria dai neodemocratici: il progetto aveva un appeal elettorale nettamente superiore a quello delle forze nate nella transizione italiana e il modello era il Partito Democratico americano. Un movimento liberal e progressista capace di mettere mano al governo del paese realizzando riforme radicali senza disperdere la base di massa dei due partiti e le organizzazioni sociali a loro collegate. Il corpo di questa politica era la nuova forma di partito: per superare l’obsoleto modello novecentesco la svolta era nelle primarie per l’elezione dei gruppi dirigenti. Era evidente il sottofondo negativo di questa scelta: il rifiuto dell’approccio socialista implicava l’accettazione di molte delle linee di fondo della crisi italiana dei primi anni novanta. L’antipolitica e l’antisocialismo, la condanna dei vecchi partiti e il valore sovra-politico di istituzioni economiche o giudiziarie erano elementi maturati in settori importanti del Pci e della sinistra Dc degli anni ottanta ed avevano ottenuto una piena legittimazione tra il ’92 e il ’94 con la distruzione sistematica del vecchio centro sinistra. L’alleanza con Di Pietro alle politiche, insieme al rifiuto dei socialisti, aveva finito per confermare questa tesi.
L’anno prima i congressi di scioglimento dei partiti erano stati freddi, le amministrative disastrose e si accompagnavano alla decrescente fortuna del governo di Romani Prodi. La risposta fu individuata nella designazione di Walter Veltroni a candidato segretario del nuovo partito e trovò conforto nell’immensa partecipazione alle primarie del 14 ottobre. Un evento che confermò la validità della tesi del potenziale successo del modello PD. Poi, dopo il crollo del governo, la presunta rimonta elettorale ha fatto pensare addirittura al trionfo dell’esperimento. Invece i mesi successivi hanno svelato le contraddizioni profonde del modello. E sono dati pesanti, perché toccano i suoi due presupposti fondamentali: la partecipazione della base e la selezione dei gruppi dirigenti, insieme al profilo politico culturale del partito.
Nel primo caso si parte dal risultato delle primarie nelle regioni e quindi dalla definizione dell’assetto dei gruppi dirigenti ad ogni livello. Il 14 ottobre erano stati eletti, su lista bloccata e con l’obbligo dell’alternanza tra uomo e donna, delegati regionali e nazionali collegati ai candidati segretario alle due cariche. Era evidente la volontà di scomporre le correnti strutturate dei DS e della Margherita per creare una dialettica più fluida nel partito. Come abbiamo già sottolineato la partecipazione alle primarie era stata superiore ad ogni aspettativa. Questo coprì un quadro politico invece chiaro agli addetti ai lavori. A partire dal fatto che i delegati eletti vennero in un secondo momento nominati membri delle assemblee provinciali per votare i coordinatori provinciali e in qualche caso le direzioni. Già questo era un segnale che il voto di ottobre avrebbe fotografo una realtà di strutturazione di vecchie e nuove correnti, ma fu nascosto dalla crisi del governo e dall’imminenza delle elezioni. Il modo con cui si era arrivati a questi organismi però, esplicitava una tendenza che si sarebbe esasperata a partire dalla primavera. Le liste bloccate tanto criticate nella scelta della legge elettorale sono state applicate con eguale brutalità nella composizione di quelle dei candidati alle primarie. E così, con rare eccezioni per le aree metropolitane più sensibili ai media o agli ambienti radical chic o comunque al peso di settori della cultura, liste e segretari regionali sono state oggetto di un’implacabile percentualizzazione che tutto era tranne che la scomparsa delle temibili correnti. I risultati si sono visti subito. Il meccanismo è stato immediatamente trasferito alla composizione delle liste alla Camera e al Senato, dove l’assenza di preferenze ha consentito casi clamorosi come la distribuzione di mezza giunta di Roma in giro per l’Italia o la liquidazione di intere aree politiche forti sul territorio nel Mezzogiorno e non solo. A questo si sono aggiunte le candidature di collaboratori personali e figure più o meno giovani che nelle valutazioni unanimi dei quadri politici locali non sarebbero andati oltre l’ultimo posto in lista.
Quanto il modello fosse esattamente opposto a quello delle primarie americane diventava del tutto evidente dopo le elezioni, esasperando la tendenza annunciata dalla composizione delle liste. L’assenza di un tesseramento ha portato alle stelle la confusione nei gruppi dirigenti locali, tranne che nelle regioni dell’Italia centrale dove la chiarezza dei rapporti di forza e la solidità di vecchie strutture di partito consente un equilibrio tra i soci fondatori del PD ( e anche qui, vedi la Toscana, non mancavano problemi pesanti). Ma la realtà era diversa. Innanzitutto la costituzione dei circoli (il nuovo nome delle sezioni) e quelle delle federazioni diventa in moltissimi casi oggetto di un’infinita contrattazione che vede ad oggi un numero enorme di comuni senza gruppi dirigenti legittimati. In alcuni casi i comitati regionali hanno improvvisato un autonomo tesseramento per vederselo ora annullato dall’annuncio della campagna d’adesione nazionale. Si cominciano così ad intravedere due fenomeni: la strutturazione militarizzata delle correnti e l’esasperazione del rapporto tra istituzioni, leadership politiche e controllo elettorale e sociale. La composizione delle liste e l’organizzazione spesso direttamente percentualizzata degli organismi, quasi sempre sui dati del 14 ottobre, (tra le liste e dentro le liste), ha finito per “ufficializzare” senza “formalizzare” la presenza di un gruppo strutturato di aree (veltroniani, dalemiani, bindiani, lettiani, fioroniani, rutelliani, etc…) poi moltiplicate nelle sottocorrenti locali. Ancora più evidente è stata la trasposizione di questo modello politico nelle relazioni interne riaprendo il tema ultradecennale ed insuperato del rapporto tra partito e istituzioni. Di fatto questo ha oscillato tra lo scontro frontale, da Torino alla Sardegna, alla riproduzione della leadership, in particolare nelle regioni meridionali. Di fatto non si è creato il partito aperto e assembleare dei Democratici americani ma si è finito per mettere in crisi strutture di partito consolidate e sperimentate anche nella tremenda crisi degli anni novanta.
E’ difficile così non parlare del fallimento dell’esperienza delle primarie come strumento di rinnovamento della selezione dei gruppi dirigenti e della costruzione delle linee politiche. Ma, come sempre succede, la crisi di questo modello finisce per rendere evidente la fragilità dell’altra premessa fondativa del PD: la creazione di una cultura nuova e di una politica incisiva del riformismo italiano. Infatti sul piano elettorale è difficile non riconoscere un risultato europeo del PD anche se con i limiti della liquefazione elettorale del vecchio Ulivo. Se questo è indiscutibile è altrettanto evidente che in sei mesi il PD non è riuscito a mettere in campo una proposta politica capace di sfidare l’azione di un governo che si propone di riformare molte distorsioni del paese e che, contemporaneamente, annuncia che darà vita alla prima grande forza organizzata di centro destra della storia dell’Italia repubblicana e che rappresenta in Italia il Partito Popolare Europeo. E’ così, nella fragilità dell’azione politica emergono quei limiti esaminati nella struttura organizzativa del Partito. Il rifiuto del socialismo europeo e del confronto schietto sulla storia del sistema politico e dello stesso riformismo dell’Italia della vecchia repubblica ha trasferito le mediazioni e le parcellizzazioni di federazioni e sezioni alla più complessa e rilevante definizione della linea politica del PD. Mediazioni tra storie personali e tradizioni politiche, problemi identitari e posizioni individuali, logiche di gruppo e sospetti ideologici che sono cresciuti a dismisura proprio per il rifiuto netto ed inappellabile di una chiara scelta nella sinistra europea.
Il gruppo dirigente rischia di vivere in funzione di manovre tattiche mentre il partito modula la sua azione sul maggiore o minore successo dell’iniziativa berlusconiana. Eppure tutto questo apre la possibilità di un confronto di grande portata. E’ nel PD che si riconosce la base sociale ed elettorale, il quadro politico ed intellettuale del centro sinistra italiano. Se è così, è altrettanto palese che le amministrative e le europee con la scelta dell’adesione ai gruppi e il congresso dell’autunno consentono di mettere in discussione le premesse fondative del PD. E cioè di aprire un dibattito politico e culturale sulla sua collocazione ideologica e identitaria, ma anche sul modo di organizzarsi rispetto alla base ed alle istituzioni. Consente insomma di mettere a confronto i limiti e le arretratezze della vecchia sinistra europea insieme a quelli altrettanto evidenti del sogno di importare un partito americano, ma anche di capire quanto vi sia di buono e di positivo in queste esperienze. Insomma di passare alla concreta definizione di una politica e di una cultura del riformismo politico italiano, attraverso passaggi politici autentici come quello di un Congresso.
Carmine Pinto