Europa – 18 gennaio 2008 Non c'è laicità senza libertà – WALTER VELTRONI*
Quello che è successo nei giorni scorsi è, per un democratico, inaccettabile. A questo proposito farò, più avanti, alcune considerazioni. Prima, è giusto ribadire la crucialità del tema posto al centro dell'apertura di quest'anno accademico dell'Università La Sapienza: la pena di morte, la persistenza nel mondo di uno strumento barbaro, che contrasta nel modo più evidente con i valori alla base di ogni civile convivenza, che non ha altro esito se non quello di aggiungere orrore a orrore, dialimentare la spirale dell'odio, di rimettere in circolo la violenza. Di disumanizzare la società. (leggi tutto)
La società moderna ha davvero altri
mezzi per proteggersi dai criminali. Il senso della pena non è la
vendetta. E la giustizia non ha bisogno della pena di morte. Può
essere perseguita e raggiunta senza falsi deterrenti, senza scendere
così in basso, senza portare lo stato al livello del singolo che ha
ucciso. Quell'imperativo, "non uccidere", impone che lo stato non si
trasformi in un assassino, uccidendo legalmente chi è colpevole di
aver ucciso illegalmente. E anche per chi non abbia a cuore, o
voglia prescindere, dalla sfera dell'etica, parlano tutte le
statistiche giudiziarie, che dimostrano come la pena capitale non
serve a ridurre i reati gravi. Ne è prova ulteriore, se volete, il
fatto che nessuno dei paesi che nel corso degli anni l'ha abolita ha
ritenuto necessario tornare a farvi ricorso. (…) La pena di morte
deve scomparire dalla scena della storia. L'anno che ci siamo appena
lasciati alle spalle era iniziato con l'esecuzione di Saddam
Hussein, con quelle immagini che non avevano nulla di civile, che
non riparavano nel giusto modo alle colpe e ai crimini gravissimi di
cui il dittatore iracheno si era macchiato negli anni del suo
regime. Si è chiuso, il 2007, nel segno opposto, con l'approvazione
della risoluzione per una moratoria universale della pena capitale
da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Non la
soluzione del problema, non la fine della barbarie. Ma certo un
passaggio storico, l'affermarsi di un principio morale condiviso da
parte della comunità internazionale. (…) È importante che si sia
realizzato un fronte così vasto a favore della moratoria. È
importante che di questo schieramento facciano parte tanti paesi
africani. Ed è particolarmente importante, vorrei sottolinearlo
proprio in questa sede, in uno dei luoghi di formazione della classe
dirigente del futuro, che in prima fila, in questa battaglia, ci sia
stata l'Italia. È una dimostrazione di quanto può rappresentare e
fare il nostro paese sul piano internazionale quando sceglie di
essere unito, quando si tratta di affrontare grandi battaglie di
civiltà. Lo ha sottolineato con la consueta lucidità il presidente
Napolitano, che ha anche osservato come l'approvazione della
moratoria sulla pena di morte non sia «un punto di arrivo ma una
base di partenza ». È vero. (…) L'Università, che è per sua natura
e per secolare esperienza luogo aperto a tutti, sede di confronto
del sapere e delle coscienze, simbolo di universalità della
conoscenza e di scambio tra differenti ispirazioni e convinzioni,
nel nostro paese ha conosciuto la negazione di tutto questo. È stato
quando dall'alto l'autorità disponeva cosa era consentito dire e
cosa no, chi poteva entrare in un'aula scolastica o universitaria e
chi no. Quando ad alcuni professori era concesso salire in cattedra
e ad altri no. Altri, in verità non molti, che preferirono "dire di
no", piuttosto che cedere all'intolleranza, alla censura, al
divieto, agli ordini impartiti dal regime e alle sue richieste di
giuramento, negli anni bui della dittatura, del fascismo. È nel
pensiero di tutto questo che un grande maestro come Piero
Calamandrei, parlando sessant'anni fa proprio di fronte agli
studenti di una università italiana, diceva: «La libertà è come
l'aria, ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare,
quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia
generazione hanno sentito per vent'anni e che io auguro a voi,
giovani, di non sentire mai». Si rivolgeva ai giovani, Calamandrei.
Con tutta la sua fiducia nella nuova Italia libera, nei principi
della sua Costituzione, sapeva bene quel che mai dobbiamo
dimenticare: che il germe dell'intolleranza non è mai debellato del
tutto, può attecchire ovunque, in qualsiasi momento. Sapeva che la
mancanza di aria, di ossigeno, anche in una democrazia forte e
consapevole, può fare molti danni. È vero, i pericoli di un tempo,
oggi, nell'Europa unita, non ci sono più. Nondimeno è il vivere
civile, che può risentire della stretta dell'intolleranza, del venir
meno anche di una piccola parte di libertà. È la nostra convivenza,
sono i rapporti tra le persone, è il vincolo stesso di una comune
appartenenza su cui si fonda l'identità di una nazione, la sua
unità, il suo futuro. Chi insegna, voi che insegnate in
un'università prestigiosa come questa, sapete bene, e avete il
compito di ribadire attraverso i principi della vostra disciplina,
qualunque essa sia, che mai può accadere, per nessun motivo, che
l'intolleranza tolga la parola, che a una opinione non sia concesso
di essere espressa ed ascoltata. In nessun caso. Men che meno quando
si tratta di temi che hanno a che fare con i diritti universali
dell'uomo, e quando ad esprimere tale opinione è una figura come
Benedetto XVI, che per milioni e milioni di persone, in tutto il
mondo, rappresenta un altissimo e imprescindibile riferimento
spirituale, culturale e morale. È ciò che è successo, ed è grave per
la cultura liberale e democratica, in questi giorni. Tra l'altro, ho
avuto modo di leggere il discorso che il papa avrebbe letto questa
mattina. Un discorso aperto, innovativo, nel segno del confronto e
del dialogo. L'altro ieri, Francesco Paolo Casavola ha scritto che
la volontà di non consentire la partecipazione di papa Benedetto
XVI, del vescovo di Roma, all'inaugurazione dell'anno accademico
dell'Università La Sapienza, è a suo modo un segno inquietante dei
tempi. Tempi non facili, viene purtroppo da dire, se insieme alla
paura per le grandi trasformazioni economiche e finanziarie cresce
quella per la libera circolazione delle persone, delle loro idee,
della loro visione del mondo, della loro religione. E se questa
paura alimenta chiusura, separazione, arroccamento puramente
identitario. In una identità che non è serena consapevolezza di sé e
proprio per questo convinta disponibilità al dialogo, ma
contrapposizione, innalzamento di muri, integralismo. È vero: questo
è un tempo buio, in cui il rischio è farsi vincere dal pessimismo,
cedere all'idea che un conflitto tra mondi diversi sia inevitabile,
e che non resti altra cosa da fare se non rafforzare le frontiere
della propria appartenenza e costruire muri per difendersi da ciò
che è estraneo, sia che si tratti di individui e di popoli, sia che
si tratti di culture o di religioni. A dominare, in questo nostro
tempo, è una radicale insicurezza: l'altro è visto con sospetto,
diventa subito l'avversario, colui che minaccia la nostra esistenza,
i nostri valori, la nostra vita così come l'abbiamo sempre
conosciuta. E così, subito ci assale la tentazione di fuggire da
lui, di allontanarlo, ognuno chiudendosi nel falso riparo della
propria casa ideologica. Ma la paura non è la risposta. Non può
esserlo. Non lo è mai stata. «L'unica cosa di cui dobbiamo avere
paura – diceva Franklin Delano Roosevelt – è la paura stessa». Anche
oggi, anche in Italia, dobbiamo tutti fare molta attenzione. È
troppo inclinato il piano che può far scivolare dalla diversità
all'incomprensione, alla incomunicabilità, e poi all'intolleranza,
all'ostilità. Fino al rischio, che è una minaccia gravissima per
tutti, della frattura, dello scontro. Di quella frattura, di quello
scontro, che questa università ha conosciuto, pagando un prezzo
altissimo, in quel tempo di odio e violenza racchiuso tra i nomi di
Paolo Rossi ed Ezio Tarantelli. Ha ragione, ha perfettamente
ragione, chi ieri ha scritto, commentando un esito che sa di
censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, che è qualcosa si è
rotto, che è avvenuta una cosa inaccettabile per un paese
democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee
e della loro espressione. Non abbiamo respirato più libertà, in
questi giorni. Ne abbiamo avuta meno. Non si è affermato, non è più
forte di ieri, il principio della laicità. Un principio per me
indiscutibile. Laicità dello stato, delle istituzioni pubbliche, dei
comportamenti dei singoli individui. Laicità che vuol dire
innanzitutto rifiuto di ogni intolleranza, assenza di pregiudizio,
rispetto delle posizioni dell'altro, accoglimento delle verità che
esse possono contenere. La laicità non c'è, non può vivere, quando
viene meno la libertà. Si possono non condividere le parole degli
altri, e criticarle, ma non impedire che esse vengano pronunciate. È
la coscienza della propria non autosufficienza, della propria
imperfezione e finitezza, che ha da sempre permesso agli uomini di
vincere la paura e di trovare la voglia di cercarsi attraverso il
dialogo, di conoscersi, di incontrarsi. È il dubbio, è la curiosità
intellettuale, è la volontà di scoprire territori inesplorati, che
ha nel tempo allargato la sfera di libertà della scienza, della
ricerca, e consentito all'umanità di compiere il suo straordinario
cammino di progresso. Un cammino che dovrà proseguire. Guai, se
tutto ciò che di meglio abbiamo costruito in questo lungo percorso
di civiltà venisse messo a repentaglio dalla risposta sbagliata di
fronte alle incertezze e alle insicurezze che pure segnano questo
tempo. Guai se il mondo si chiudesse, se le persone tornassero al
tempo della paura, della diffidenza, della presunzione della propria
autosufficienza, della considerazione dell'altro come nemico. La
risposta possibile è una sola, ed è opposta a questa. È nel dialogo,
nella convivenza tra la propria identità e la disponibilità
all'apertura. È nella volontà di cercare, fino a trovare,
conoscenza, rispetto reciproco e pacifica convivenza. È nella
diversità concepita non come estraneità e pericolo, ma come
possibilità, ricerca, arricchimento umano e culturale. Tutte cose di
cui proprio l'Università è stata sempre, nella storia della civiltà
italiana ed europea, simbolo e concreto luogo fisico. Tutte cose che
senza rispetto e senza libertà di pensiero, di parola, di
espressione, non sono raggiungibili. Roma è la città dove questo è
stato sempre possibile, e non intende venir meno a tale ruolo. Lo
dice chi, da sindaco, non ha voluto incontrare e stringere la mano
di chi, l'allora vice primo ministro iracheno Tariq Aziz, il giorno
prima aveva rifiutato di rispondere alla domanda di un giornalista
solo perché era israeliano (…). Roma è, e sarà sempre, contro ogni
tipo di discriminazione, contro ogni forma di intolleranza. È
scritto nella sua stessa identità. Ed è un impegno quotidiano. A
Roma la Chiesa cattolica convive serenamente e in modo fecondo con
le due altre grandi religioni monoteistiche. In momenti difficili,
penso in particolare all'indomani dell'11 settembre del 2001, il
Campidoglio è stato luogo di incontro dei rappresentanti di ogni
fede, che si sono confrontati, hanno dialogato, si sono incontrati.
Il Dalai Lama ha portato le sue parole nel cuore delle nostre
istituzioni. Tra pochi giorni l'Imam della Grande Moschea porterà le
sue nel Tempio Maggiore, nella Sinagoga, e sarà un'ulteriore
dimostrazione dello spirito che anima questa città. Ma è l'Italia, è
tutto il paese, che deve uscire dalla spirale dell'odio, della
delegittimazione reciproca, dello scontro fine a se stesso.
Altrimenti, lo dico misurando le parole, accadrà ciò che da mesi
denuncio: l'aggravamento estremo di quella crisi del sistema
democratico della quale vediamo così tanti segni che molti, al
contrario, sembrano non voler scorgere. Dobbiamo uscire, in questo
paese, dall'inaccettabile condizionamento di pochi, di minoranze;
dall'inspiegabile dominio di logiche di veto e di condizionamento
ideologico che impediscono all'Italia di crescere, e crescere in
serenità. Sono posizioni spesso nate con lo sguardo rivolto
all'indietro. E che indietro rischiano di riportarci, riaprendo
vecchie ferite, contrapposizioni superate, che oggi suonerebbero
solo inutilmente anacronistiche, se non fossero anche dannose.
L'Italia ha bisogno di altro. La nostra società, le relazioni tra di
noi, il mondo della cultura e della ricerca hanno bisogno di altro.
Di ritrovare il senso di un cammino comune. Di dare precedenza,
rispetto alle dispute sul passato, alle scelte che riguardano la
vita concreta delle persone e il ruolo del nostro paese nel mondo,
che riguardano il futuro. Lo ha detto nel modo migliore un grande
architetto, legato in modo particolare a questa città. «Ho sempre
più spesso l'impressione», ha detto Renzo Piano, «che siamo
diventati un paese prigioniero delle paure. E la prima è quella del
futuro. Declinata in varie forme. Fanno paura la società
multietnica, i cambiamenti sociali, le scoperte scientifiche sempre
rappresentate come pericoli, la contemporaneità in generale. Si fa
strada, perfino tra i giovani, la nostalgia di un passato molto
idealizzato. Si combina una memoria corta e una speranza breve, e il
risultato è l'immobilità. Il passato sarà un buon rifugio, ma il
futuro è l'unico posto dove possiamo andare».
* dall'intervento di ieri alla Sapienza di Roma