Skip to main content

Visita al Cie di Torino

Lunedì 25 luglio ho partecipato all'iniziativa nazionale del PD che prevedeva la visita dei parlamentari ai CIE presenti sul territorio italiano in polemica con la proposta di proroga del fermo in queste strutture sino a 18 mesi. Io mi sono recata a quello di Torino. Altri colleghi a quelli di Bologna, Milano, Modena e Gorizia. La permanenza in queste strutture, in passato di 7 giorni, ora di 40 giorni, rischia di essere estesa a 18 mesi.

"Tempo vuoto": questo è quello che più mi ha colpito della visita. Gli immigrati irregolari ospitati nel CIE di Torino trascorrono le loro giornate senza poter fare nulla di costruttivo: guardano la televisione, telefonano ad amici e parenti grazie ai cellulari a loro disposizione, giocano a pallone, chiacchierano. Certo, si dirà, non male: ma pensate cosa voglia dire non fare assolutamente nulla per 18 mesi…

Le condizioni di degenza mi sembrano tuttavia buone: le camere purtroppo non sono individuali come in Olanda, ma gli stessi ospiti mi dicono che il cibo è buono, che la dieta prevista dal RAMADAM è stata rispettata e che le attività di svago loro proposte dagli operatori, tra le quali il teatro, sono interessanti.

Il CIE di Torino ospita attualmente 125 persone, di cui 6 donne, su una capienza potenziale di 130 posti. Gli ospiti sono in prevalenza marocchini e tunisini. Tra i primi, 75 hanno già scontato pene detentive in carcere per reati quali lo spaccio, lo stupro, il furto: come è possibile che durante le fasi del processo e durante i mesi di detenzione non si sia riusciti ad attribuire al detenuto un'identità certa?Tra i secondi, molti sono sbarcati in Italia a Lampedusa in seguito alla primavera araba.

Gli operatori del centro e i mediatori culturali e linguistici mi spiegano le difficoltà legate al processo di identificazione. I soggetti ospitati, infatti, non hanno documenti e, generalmente, non possono essere identificati grazie alle impronte digitali perché il Paese di provenienza non è dotato di un registro delle stesse. Si procede quindi per via linguistica: dialogando con i soggetti, i mediatori cercano di identificare il Paese di provenienza sulla base delle competenze linguistiche dello stesso. Molti, però, parlano fluentemente più lingue e dialetti appartenenti a regioni diverse. Le autorità consolari, infine, sembrano non collaborare per nulla all'identificazione.

Gli operatori denunciano anche la tendenziosità dell'aiuto economico al rimpatrio tanto pubblicizzato in questi giorni in televisione: i fondi stanziati sono infatti sufficienti per sole 200 persone.

Certo, i CIE, prima chiamati CPT, sono stati introdotti per la prima volta su proposta del mio partito, con la legge Turco-Napolitano. Questa legge, da tanti criticata, si fondava su una logica binaria: da un lato l'integrazione dell'immigrato regolare, dall'altro la repressione di quello irregolare. Le modifiche intervenute con la legge Bossi-Fini, tuttavia, hanno esteso a dismisura il versante della repressione, almeno di facciata. Sì, dico di facciata perché la l. Bossi Fini ha di fatto messo in opera un paradosso: essa, volendola combattere, favorisce l'immigrazione clandestina. Pensateci bene: la legge prevede che l'unico modo a disposizione di un ragazzo Tunisino per poter entrare regolarmente nel nostro Paese sia quello di essere chiamato, mentre risiede ancora in Tunisia, da un datore di lavoro italiano, interessato, non si sa come, proprio a lui.

Come può fare quel ragazzo per farsi assumere dal datore di lavoro italiano che non lo conosce neppure? Può solamente entrare clandestinamente in Italia, cominciare a lavorare per quel datore di lavoro italiano in nero e, se gli va bene, convincerlo a regolarizzarlo. A questo punto, il ragazzo deve tornare in Tunisia, fare finta di non essersi mai mosso di lì e aspettare che il suo visto sia resto disponibile all'ambasciata italiana. Se, però, durante la prima permanenza in Italia ti beccano, finisci al CIE.

Close Menu

MAGDA NEGRI

www.magdanegri.it

IL MIO PARTITO