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Magda Negri

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Il Riformista, 07/06/2009 - Obama e l'Islam - La duplice sfida di un presidente ambizioso - di Umberto Ranieri

Nel discorso rivolto al mondo musulmano dal palco dell'aula magna dell'Università Al-Azhar il presidente degli stati Uniti ha parlato dell'Islam con rispetto e calore. Ha ricordato le 1200 moschee che ci sono negli Usa e i milioni di musulmani, cittadini americani, che contribuiscono alla vita di quel grande paese. «L'Islam è parte dell'America»: a tale solenne affermazione, Obama giunge anche in ragione della sua storia personale, padre keniota, la gioventù trascorsa nell'Indonesia musulmana, il volontariato nelle moschee di Chicago.

C'è, nelle sue parole, una tensione autentica che lo porta a citare a più riprese il Corano insieme al Talmud e alla Bibbia per richiamarsi al principio condiviso dalle tre fedi monoteistiche: non fare al tuo prossimo ciò che non vuoi venga fatto a te stesso. Emerge dal discorso di Obama un difficile disegno strategico. Ricostruire le condizioni di una comprensione tra Occidente e mondo islamico per isolare e affrontare insieme l'estremismo violento e il richiamo all'odio religioso.
L'incontro tra l'Islam e l'Occidente riguarda una vicenda storica più che millenaria fatta di contrasti ed attriti ma anche di scambi e reciproci arricchimenti; una storia della quale vale la pena recuperare una memoria più profonda e oggettiva. Il conflitto non è ineluttabile. Di questo, Obama appare convinto.

Non ha taciuto il presidente americano sui temi più spinosi del confronto tra Occidente e Islam: la difesa della libertà religiosa, la democrazia, la tutela dei diritti delle donne. Parlando dello stato di diritto, dell'equa amministrazione della giustizia, della libertà di dire quello che si pensa, Obama ha ricordato che "queste non sono soltanto idee americane, sono diritti umani ed è per questo che li sosterremo in ogni parte del mondo". Traspare in Obama la convinzione che nell'Islam contemporaneo agiscano tendenze innovative che possono condurre ad accettare in maniera creativa e costruttiva i diritti fondamentali dell'uomo enunciati nella Dichiarazione dell'Onu e che ciò possa avere ripercussioni positive anche nei rapporti internazionali.

In realtà, si tratta di tendenze minoritarie contro cui agiscono sia l'islamismo radicale che il dispotismo dei regimi che è invalso definire moderati. Tendenze che tuttavia vanno sostenute perché dalla loro graduale affermazione dipende l'evoluzione verso una interpretazione umanitaria e tollerante dell'Islam.

Impresa della cui difficoltà Obama non può non essere avvertito. Il presidente americano ha affrontato anche i due nodi politici più intricati, il conflitto israelo-palestinese e le ambizioni atomiche dell'Iran. Ha ricordato che il legame tra Israele e gli Stati Uniti è indistruttibile ma «Israele deve comprendere che come il suo diritto ad esistere non può essere negato, così vale per quello palestinese».

L'unica soluzione per porre fine ad un conflitto che si trascina da oltre sessant'anni è la creazione di uno Stato palestinese accanto a quello di Israele e ciò comporta la fine dell'installazione di colonie israeliane in Cisgiordania. Sarebbe stato opportuno tuttavia ricordare, nell'occasione solenne del discorso nell'Università di Al-Azhar, il carattere democratico e pacifico che dovrà avere lo Stato palestinese da costruire. Il governo israeliano in ogni caso è chiamato a riflettere sulle parole di Obama.

Forse ha ragione Yehoshua quando scrive che «è arrivato, con il discorso di Obama, il momento della verità, il presidente statunitense ha espresso ciò che gran parte degli israeliani ha nel cuore». Occorre riconoscere che su questo punto c'è continuità tra gli ultimi anni di Bush e Rice e i primi di Obama e Hillary Clinton. La vera discontinuità riguarda la strategia con cui l'amministrazione Bush intese fronteggiare l'offensiva del terrorismo dopo l'11 settembre. Una strategia che sembrò esaurirsi essenzialmente nell'uso della forza militare su base unilaterale.

Nel discorso di Obama appare chiaro il mutamento di asse rispetto a quella impostazione. Il nuovo presidente scommette su una dose ben maggiore di soft power e sul congedo dall'idea che la democrazia possa essere promossa dall'esterno con l'uso della forza. Intendiamoci, Obama non sottovaluta il ruolo della forza militare ma lo considera un aspetto di una strategia più ampia e complessiva. Sull'Iran, Obama ha, nella sostanza, riconfermato quanto era alla base delle proposte negoziali avanzate dal gruppo dei 5 più 1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu più la Germania): diritto dell'Iran all'accesso al nucleare per scopi civili ma rispetto del Trattato di non proliferazione. Sul nucleare iraniano ha fatto ricorso ad un linguaggio condiviso nel mondo arabo sottolineando la necessità di scongiurare una corsa agli armamenti nella regione.

Troppo poco? Sfugge ad Obama l'aggressività dell'Islam iraniano? La verità è che a pochi giorni dal voto per la presidenza della Repubblica iraniana, le sue parole di apertura verso un paese scosso da una profonda crisi economica, intendono corrispondere alle aspettative dei giovani iraniani insofferenti del dispotismo teocratico e favorire una affermazione dei moderati a Teheran.

La sfida di Obama è ambiziosa. L'obiettivo è duplice: ridurre la forza di attrazione dell'estremismo nel mondo islamico; accrescere l'immagine positiva degli Stati Uniti sulla scena del mondo globale e verso l' "umma", la comunità islamica, quell'universo sterminato che va dal Marocco all'Indonesia, un miliardo e duecento milioni di donne e di uomini.

L'affermazione che gli Usa non sono un impero egoista, ma sono stati una delle principali fonti di progresso del mondo, sintetizza efficacemente la convinzione di Obama e dei suoi collaboratori: mostrare al mondo un nuovo atteggiamento, una nuova disponibilità e un nuovo volto, può contribuire ad allentare le tensioni e ridurre i conflitti. C'è da sperare che le cose stiano realmente in questi termini.

 

 

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Così come Syriza in Grecia non era il futuro profetico per la sinistra italiana, così non dobbiamo considerare che la sconfitta di Miliband in Inghilterra sia esattamente trasponibile nel dibattito della sinistra italiana. In Inghilterra ha pesato potentemente lo straordinario successo del partito nazionalista scozzese. Non facciamo equazioni troppo semplici. In Italia aspettiamo l’esito delle elezioni amministrative. Credo andranno bene, anche se peserà la disaffezione degli elettori vrso le elezioni locali. La formazione delle liste in Campania è il simbolo di un grave problema che si sta determinando nel PD: non basta imbarcare tutti per vincere. Bisogna vincere lealmente, con persone presentabili.

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