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Magda Negri

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Pubblico interamente, capisco la fatica di un pezzo così lungo... questo importante articolo di Enrico Morando sulla decisiva questione dell'unità dell'Europa e del suo sforzo economico comune per affrontare la crisi Covid.
Come Gualtieri, Morando sembra insistere sull'essenzialità di rafforzare il bilancio europeo...
Ma ad oggi la resistenza di alcuni stati europei, non della Commissione, appare tenace.
Aspettiamo il decisivo vertice di martedì.
 

Il futuro dell'Unione

Crisi Covid, l’Ue o ne esce unita o si affonda tutti insieme

L’opposizione dei Governi dei “Paesi del Nord” – Germania compresa – all’emissione di titoli di debito pubblico dell’Euroarea per far fronte alla crisi coronavirus è priva di giustificazioni razionali: se il fattore fondamentale che la genera è in grado di colpire in modo simmetrico tutti gli Stati membri, è addirittura ovvio che una reazione asimmetrica (ciascuno Stato usa gli spazi fiscali che ha; e quelli che ne hanno poco chiedono l’intervento del Mes, a condizionalità data), non è in grado di condurre l’Area fuori dalla tempesta. Quindi, bisogna insistere fino a riuscire a convincere, nel poco tempo disponibile. Non abbiamo alternative, perché “fare da soli” – se si esce dal teatro della propaganda e ci si misura con la difficoltà del contesto reale – non è una alternativa: è il suicidio.

Lo prova ciò che è accaduto nelle ore successive alla disastrosa frase di Lagarde (non è compito della Bce ridurre lo spread), che esattamente questo voleva dire: ognuno per sé. I mercati ne hanno preso immediatamente atto e lo spread è schizzato verso l’alto. Quello tra i titoli decennali italiani e tedeschi, prima di tutto. Ma, attenzione: dall’inizio della crisi coronavirus tutto il sistema degli interessi sui titoli del debito pubblico degli Stati membri dell’Euroarea si è mosso verso l’alto: quello sul Bund decennale tedesco è salito di 60 punti base; quello della Francia di 80.

Se c’era bisogno di una conferma circa il carattere simmetrico della crisi, questi spostamenti in un’unica direzione ce lo confermano. Gli investitori e i risparmiatori hanno capito che il deficit e il debito di tutti gli Stati si alzeranno enormemente, per finanziare prima l’emergenza sanitaria, poi la sopravvivenza e infine la ripresa dell’apparato produttivo europeo, da sostenere sia dal lato della domanda, sia dal lato dell’offerta. E, ovviamente, hanno segnalato di non essere disposti a farlo senza chiedere che, a debito e a conseguente rischio più elevati, corrisponda un più elevato rendimento.

Dimostrando coi fatti – anche alla sua Presidente (?!) – che la Bce deve (ed è in grado di) garantire “costi quel che costi” una omogenea trasmissione all’intera economia dell’Area della sua politica monetaria, il Consiglio Direttivo ha approvato un programma aggiuntivo di acquisti 2020 per ben 750 miliardi. E, soprattutto, ha deciso di cancellare il vincolo a che gli acquisti di titoli di ciascun Paese siano tenuti in limiti direttamente proporzionali alla dimensione relativa dell’economia del Paese stesso (per l’Italia, il 13%). In sostanza, nel Consiglio Bce si è formato un ampio consenso sulla necessità di uscire da un vincolo che avrebbe impedito, nel caso del concentrarsi delle difficoltà sul debito di un Paese membro- nel contesto di una più generale crisi dell’Area euro-, di incrementare il volume degli acquisti Bce di titoli di quel Paese, “per quanto necessario e per tutto il tempo necessario”.

Il passo è davvero enorme, e ha potuto essere compiuto -a mio parere – in virtù del fatto che questa volta il fattore originario della crisi colpisce, almeno potenzialmente, tutti i Paesi membri in modo simmetrico, così convincendo anche i più riottosi membri del Consiglio di una verità di cui in passato non avevano voluto prendere atto: in un contesto generale di recessione, l’intero edificio dell’euro può rovinare su se stesso se si abbandona al suo destino anche uno solo dei Paesi membri. Il quale Paese – sia chiaro – non ha alcun diritto di chiedere che gli organismi comunitari paghino al posto suo i debiti eccessivi contratti in passato e male usati (il rischio paventato dai Paesi nordici, non senza qualche buona ragione: si veda la legge di bilancio gialloverde 2019-2021).

Ma ha il diritto (e anche il dovere, se l’idea del “bene comune” non è del tutto smarrita), di chiedere che l’intera potenza degli organismi comunitari venga impiegata quando l’incendio che lo minaccia non ha nulla a che vedere coi suoi debiti passati, ma nasce da un agente esterno e appare in grado di aggredire l’intero edificio comunitario.
Con questa decisione la Bce ha compiuto un passo molto importante verso una concreta forma di “solidarietà monetaria”, perché – scegliendo di poter differenziare il programma di acquisti in rapporto alle esigenze del singolo Paese -, ha affermato di fatto la possibilità di monetizzare una certa componente del debito pubblico.

Il comunicato del Consiglio direttivo della Bce afferma la nuova visione con chiarezza: «Nella misura in cui alcuni limiti autoimposti ostacolassero l’azione che la Bce è tenuta a intraprendere per adempiere al suo mandato, il Consiglio direttivo prenderà in considerazione la possibilità di rivederli nella misura necessaria per rendere la sua azione proporzionata ai rischi che dobbiamo affrontare». Non è un caso che sia un organismo “integralmente” federale come la Bce – l’unico, tra quelli dell’Unione, a essere davvero tale – a prendere su di sé l’incarico di indicare la strada da seguire ai governi e ai cittadini europei nel loro complesso.

Altro che “facciamo da soli”, dunque. Oggi è possibile utilizzare le scelte compiute dalla Bce come la prova della efficacia dell’approccio comunitario – il costo del debito pubblico è immediatamente tornato a dimensioni “normali”dopo la decisione della Banca centrale: in sua assenza, oggi si starebbe già discutendo del default del debito pubblico italiano-, rispetto a quello intergovernativo. Quest’ultimo infatti, fondato sulla contrattazione tra gli Stati in presenza di problemi che hanno soluzioni a somma zero (ciò che guadagna uno viene perso dall’altro), non può risultare utile quando il problema da risolvere è lo stesso per ogni Stato membro e impone soluzioni cooperative, pena il male comune.

Sottolinearlo, non è vuota retorica europeista: di fronte ai ritardi e ai rinvii degli organismi politici dell’Unione, molti cittadini e la quasi totalità dei commentatori hanno intonato il “de profundis” sulla costruzione europea in quanto tale: a che serve l’Unione, se non ha un ruolo in circostanze così drammatiche? Lo Stato nazionale è la nostra salvezza: possiamo farcela anche da soli.  Che nella gestione di una crisi come quella del coronavirus lo Stato nazionale – anche quello delle “piccole” nazioni europee – abbia molto da dire e da fare, è ovviamente vero. Ma sono bastate poche ore per distinguere questo “vero” dalla facile propaganda anti-europea. Lo ha spiegato bene Olivier Blanchard: quando è scoppiata la crisi, il debito pubblico italiano era pari al 135% del Pil e lo Stato pagava, sulle nuove emissioni, un tasso di interesse inferiore all’1%. Per la stabilizzazione del debito a quei livelli, bastava dunque un avanzo primario annuo attorno all’1%. Ampiamente sostenibile.

Ma se la crisi coronavirus riduce di molto le entrate (tutto chiuso, giustamente) e aumenta enormemente le uscite (tutto il necessario a salvare vite umane, giustamente), mentre lo spread aumenta (in un solo giorno, quando sembrava che la “Bce non fosse al mondo per ridurlo”, oltre 100 punti base in più), e con lui i tassi di interesse salgono, l’avanzo primario necessario per stabilizzare il debito (nel frattempo salito vicino al 145% del Pil) sarebbe più vicino al 5% annuo che all’1. Assolutamente insostenibile, sia economicamente (una simile stretta accentua la caduta del Pil), sia politicamente (l’offensiva populista, già formidabile, avrebbe facilmente ragione delle residue resistenze liberaldemocratiche).

Il rischio che la crisi coronavirus torni ad alimentare una violenta offensiva populista, consentendo ai partiti che la conducono di lucrare consenso facendo da cassa di risonanza ai ritardi, alle incertezze e alle assenze degli organismi politici comunitari, è molto elevato: oggi i cittadini europei stanno diligentemente sopportando, in nome del bene comune, gravi limitazioni alle loro libertà e concreti disagi. Ci vuole poco a trasformare tutto questo in rabbia verso chi – l’Unione Europea – dovrebbe e potrebbe aiutare, ma non lo fa (o non lo fa nella misura necessaria).  In Italia, Salvini sta da giorni soffiando sul fuoco: «… Noi vogliamo usare i soldi degli italiani. L’anno scorso il Pil degli italiani è stato pari a 1 miliardo e 800 milioni di euro; la spesa pubblica è stata pari a 800 milioni di euro. I soldi ci sono. Possiamo fare una emissione di Buoni del Tesoro straordinaria, garantita dalla Bce, e rivolta alle banche italiane e ai risparmiatori italiani? Sì, possiamo farlo…».

Lasciamo stare gli strafalcioni sulle dimensioni del debito e della spesa (sono entrambi mille volte più grandi)… Lasciamo stare che la spesa statale al 100% del Pil non l’avevano neppure in Unione Sovietica… Lasciamo stare che la Bce, per statuto, non può “garantire” il debito di un singolo Paese. E lasciamo pure perdere, per carità di patria, l’ineffabile intervistatrice della tv pubblica: «Non c’è il rischio che questa emissione… ci metta in condizione di essere poi sotto, insomma, il Fondo salva Stati?». Tutto ciò dimostra soltanto che il leader del centrodestra italiano,- con buona pace di quanti invocano il Governo di unità nazionale -, non sa nulla di ciò che dovrebbe sapere per svolgere il suo ruolo di capo della opposizione. Prima o dopo, i cittadini italiani (e anche i conduttori di salotti televisivi) se ne accorgeranno.

Ha invece grande importanza – per il presente e il futuro dell’Italia – ciò che queste parole dimostrano, al di là di ogni ragionevole (o interessato) dubbio: Salvini non intende – e forse non può – rinunciare alla architrave che regge l’intera sua costruzione politica: l’Italia fuori dall’euro e, se è necessario a questo scopo, fuori anche dall’Unione. Questo rende anche politicamente urgente la svolta verso la costruzione di una politica fiscale dell’Europa: senza questa seconda gamba, lo strumento della politica monetaria – per quanto ben utilizzato – non ha la potenza di fuoco necessaria.

Qualcosa di rilevante si è mosso, in questi giorni, ma ancora non ci siamo. L’attivazione della “general escape clause” da parte della Commissione è certamente una notizia buona. Ma è anche, per dirla chiaramente, una notizia ovvia. Recita infatti il Six Pack (sì, quello che allora, nel 2011, non avremmo dovuto firmare): «In periodi di severa recessione per la Zona euro o tutta l’Unione europea, gli Stati possono temporaneamente allontanarsi dall’aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine (OMT), posto che ciò non metta a rischio la sostenibilità di bilancio nel medio termine». Se quello che stiamo vivendo non è un “periodo” che solleciti l’applicazione di questa clausola, quale mai lo sarà? Fino a qui però, siamo nel contesto della “eccezione”; del “temporaneo”.

Dunque, della emergenza che reclama rimozione dei vincoli per gli Stati membri. Benissimo. Ma i bilanci degli Stati membri sono diversi: ammesso che tutti usino lo spazio fiscale che hanno (e lo faranno, tutti. Oh, se lo faranno…), il motore così alimentato (ed aiutato dalla politica monetaria – anche selettivamente – ultraespansiva) non avrebbe la potenza di traino necessaria per uscire dal pantano della crisi. E, soprattutto, sarebbe un motore che fornisce una spinta asimmetrica, mentre nel pantano della crisi ci sono tutti gli Stati membri.

Tutt’altra cosa se l’attivazione della clausola sospensiva è da intendersi come la prima, indispensabile scelta sulla strada che conduce l’Area dell’euro a dotarsi di un suo bilancio. Altro che dilemma su cui è bloccato il Bilancio dell’Unione: l’1% del Pil dell’Unione o l’1,..? No, si deve trattare di quel Bilancio dell’Euroarea – uscite proprie ed entrate proprie- che può finalmente far camminare “mano nella mano” la politica monetaria e quella fiscale, altrimenti destinate a neutralizzarsi (quando va bene), o ad ostacolarsi (quasi sempre) reciprocamente.

Nel giugno del 2018, a Meseberg, Merkel e Macron sostennero di comune accordo «l’istituzione del Bilancio dell’Eurozona. Per la competitività, la convergenza, la stabilizzazione, a partire dal 2021» (dal comunicato finale). Allora, fu il governo italiano Conte 1º a mandare tutto all’aria, inseguendo la sua propaganda sull’immigrazione e la Legge di bilancio balconara. Adesso, molto opportunamente, è lo stesso Conte – a capo di un diverso Governo – a proporre che il Mes emetta titoli di debito per finanziare gli interventi europei nella crisi coronavirus.

È un bel cambiamento. Non credo che lo specifico strumento del Mes sia quello giusto, per la crisi che abbiamo di fronte: concepito per fare fronte a crisi del debito di singoli Paesi, esso si trascina dietro un complesso sistema di governance e di condizionalità, che lo rendono poco adatto a essere impiegato per la gestione di una crisi economica generalizzata. E l’esigenza di modificarne profondamente le regole crea più problemi (politici) di quanti ne risolva.

Ma il problema non è lo strumento tecnico: il nodo da sciogliere è quello che apre o chiude la porta della politica fiscale dell’Euroarea. Se c’è la volontà politica di aggredirlo, si troverà certamente la soluzione adeguata: in ultima analisi, dovranno essere le entrate proprie dell’Euroarea a garantire i debiti accesi sul merito di credito dell’Area stessa, non dei singoli stati. Non potrà trattarsi in nessun caso dei debiti contratti dagli stati membri in passato.

Quelli, dovranno essere ripagati da ciascuno, senza eccezioni e furbizie. In questo senso, l’Italia deve dimostrare consapevolezza degli errori compiuti in passato (che spiegano la diffusa diffidenza nei nostri confronti), ma anche assoluta determinazione nel perseguire le scelte che sono indispensabili, nell’interesse di tutti i cittadini europei.
Due iniziative politiche potrebbero servire, a questo scopo: il voto del Parlamento per ratificare il trattato sul “nuovo” Mes e l’approvazione di una mozione parlamentare che, impegnando il governo a compiere ogni sforzo per decidere, con gli altri partner dell’euro, per la creazione di un Bilancio dell’Euroarea, affermi solennemente che esso non deve essere rivolto a mettere in comune i debiti passati (quelli, sappiamo di averli usati male e di doverli pagare noi), ma a fare insieme investimenti sul futuro comune.

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Salvare l'Europa: come uscire dal debito e dalla stagnazione

Venerdì 26 febbraio 2016
Sala Viglione, Palazzo Lascaris
Via Alfieri 15
Torino

Presiede: Magda Negri

Intervengono: Davide Gariglio, Mercedes Bresso, Alberto Majocchi, Enrico Morando

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Così come Syriza in Grecia non era il futuro profetico per la sinistra italiana, così non dobbiamo considerare che la sconfitta di Miliband in Inghilterra sia esattamente trasponibile nel dibattito della sinistra italiana. In Inghilterra ha pesato potentemente lo straordinario successo del partito nazionalista scozzese. Non facciamo equazioni troppo semplici. In Italia aspettiamo l’esito delle elezioni amministrative. Credo andranno bene, anche se peserà la disaffezione degli elettori vrso le elezioni locali. La formazione delle liste in Campania è il simbolo di un grave problema che si sta determinando nel PD: non basta imbarcare tutti per vincere. Bisogna vincere lealmente, con persone presentabili.

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