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Magda Negri

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Pd, partito a vocazione confusa _ La Stampa _ Luigi La Spina
 
A questo punto, la domanda è una sola: il Pd è un partito ingovernato o è un partito ingovernabile? L’intervista alla Bindi su «La Stampa» di ieri è solo l’ultima testimonianza di una serie di contraddizioni, confusioni, incertezze veramente sbalorditive per un gruppo dirigente che, tra l’altro, si ritiene la classe politica più professionale e sperimentata d’Italia.

Non si può pensare, perciò, che sia l’ingenuità e l’inesperienza degli uomini, di volta in volta alla guida di quel partito, il motivo di una costante incapacità di tenere una linea politica coerente e credibile. La conclusione obbligata, allora, anche se amara per tutto il sistema democratico del nostro Paese che avrebbe sempre bisogno di una potenziale alternativa di governo, è che il Pd è ingovernabile perché non ha una identità comune, cioè, non è un partito.

Cominciamo dall’inizio. Il candidato alla prima segreteria, Walter Veltroni, al Lingotto di Torino, nel giugno 2007, pronuncia un discorso molto apprezzato, promettendo l’azzeramento di tutti gli spezzoni eredi dei partiti della prima Repubblica e la fusione in una classe dirigente nuova, costruita essenzialmente dalla partecipazione di quella società civile che crede in un moderno progetto riformista. Lancia l’idea, forse velleitaria e discutibile, ma affascinante, di un partito a vocazione maggioritaria, cioè che non debba subire i condizionamenti decisivi degli alleati nel governo del Paese. La sua pratica, però, contraddice subito le sue intenzioni: costruisce un’assemblea costituente fatta proprio di spezzoni dei vecchi partiti e presenta alle elezioni una coalizione che esclude un pezzo importante del riformismo italiano, il Partito radicale, e include un partito che non ne fa parte, quello di Di Pietro.

Il risultato di questa azzardata sfida a Berlusconi è una sconfitta, ma non solo onorevole: è quasi una mezza vittoria, infatti, perché raggiunge per il suo partito una percentuale di voti insperata e sulla quale si potrebbe costruire un futuro promettente. Invece, pochi mesi dopo, è costretto alle dimissioni.

Arriva alla segreteria provvisoria Dario Franceschini, per un breve interregno contrassegnato da un accentuato antiberlusconismo. Ma il congresso, nell’ottobre 2009, elegge il suo competitore interno, Pier Luigi Bersani, e l’alleata di corrente, Rosy Bindi, diventa presidente. Il nuovo leader ripudia il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, stabilisce la necessità di alleanze con esponenti del centro moderato e la regola, quando nello schieramento di centrosinistra ci fossero le condizioni di candidati alternativi su programmi diversi, di risolvere i contrasti con il metodo delle primarie.

Passano solo due mesi e la confusione, nel Pd, è assoluta. In Puglia si verifica il caso più classico dell’opportunità di primarie: due candidati, con due ipotesi di alleanze diverse. Ma Bersani stabilisce di non farle, perché l’eventuale vittoria di Vendola non consentirebbe l’accordo con Casini. La scelta, discutibile come tutte le scelte, potrebbe essere comprensibile se con il leader dell’Udc ci fosse un accordo generale, in quasi tutt’Italia. Ma non è così, perché quel partito è libero, ad esempio, di allearsi con la Lega in Lombardia e con la Polverini nel Lazio.

Il presidente del partito, Bindi, alla vigilia della decisione finale in Puglia, allora, formula al suo segretario queste ragionevoli obiezioni, ma cade in una contraddizione clamorosa: è d’accordo con un’alleanza del suo partito con Casini, pur prevedendo che, alle prossime elezioni politiche, sarà proprio lui l’avversario, il candidato del centrodestra, l’erede di Berlusconi.

Il vero problema del Pd non è, in questa situazione, la percentuale del consenso elettorale e neanche il numero di Regioni attualmente governate dal centrosinistra che resisteranno al prevedibile tsunami berlusconian-leghista nel voto di fine marzo. In Europa, il confronto numerico tra le forze riformiste e quelle moderate e conservatrici non trova l’Italia in un drammatico svantaggio, anzi. Si tratta, invece, di metter fine al marasma di contraddizioni politiche, di giravolte nelle alleanze, di lotte tra gruppi e dirigenti che si odiano e di prendere atto che la convivenza tra una cultura di governo e la testimonianza di antiberlusconismo è fallita.

L’Italia ha bisogno di un’opposizione tale da non perpetuare, nella seconda repubblica, il vizio fondamentale della prima: l’impossibilità di un ricambio a Palazzo Chigi. Con il rischio di una situazione peggiore, perché, una volta, tra Dc e Pci, almeno, c’era il riconoscimento di una comune partecipazione alla costruzione dello Stato repubblicano e la condivisione delle sue regole. Un patrimonio sul quale, oggi, non possiamo neppure contare con certezza.

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Così come Syriza in Grecia non era il futuro profetico per la sinistra italiana, così non dobbiamo considerare che la sconfitta di Miliband in Inghilterra sia esattamente trasponibile nel dibattito della sinistra italiana. In Inghilterra ha pesato potentemente lo straordinario successo del partito nazionalista scozzese. Non facciamo equazioni troppo semplici. In Italia aspettiamo l’esito delle elezioni amministrative. Credo andranno bene, anche se peserà la disaffezione degli elettori vrso le elezioni locali. La formazione delle liste in Campania è il simbolo di un grave problema che si sta determinando nel PD: non basta imbarcare tutti per vincere. Bisogna vincere lealmente, con persone presentabili.

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