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Magda Negri

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Stampa, 20 gennaio 2008 - L'ADUNATA DI ROMA - L'imprudenza politica della chiesa - BARBARA SPINELLI

È probabile che Camillo Ruini, che per molti anni ha presieduto la Conferenza episcopale italiana e ancora influenza la Chiesa nella sua qualità di vicario di Roma, gioirà di quello che oggi potrebbe accadere nella capitale: una moltitudine di cittadini romani e italiani, da lui incitata e inebriata, accorrerà sicuramente all'Angelus, in piazza San Pietro, per ascoltare il Papa e denunciare la persecuzione di cui sarebbe stato vittima. Persecuzione che lo avrebbe indotto a non pronunciare più nell'aula universitaria la prolusione che gli era stata - senza seria preparazione - affidata.

Il brutto episodio finirà col trasformarsi in una giornata gloriosa per la Chiesa, questo il giudizio cui sembra esser giunto il
cardinale, e il male ancora una volta si muterà provvidenzialmente in bene. Lui stesso s'è espresso in questo modo, venerdì alla televisione, ripetendo quanto già detto il 4 novembre a Aldo Cazzullo sul Corriere. La Chiesa (tali furono le sue parole) è attaccata quando vince: «Constato che quando l'impegno non è coronato da successo, quando la Chiesa "perde", tutto fila liscio». (leggi tutto)


Il rifiuto che numerosi scienziati e un gruppo di studenti hanno
opposto al Pontefice, la ritirata strategica del Santo Padre: tutto
questo non è, per una parte della gerarchia, un episodio increscioso,
o come ha detto sull'Avvenire Souad Sbai, in nome dell'Islam italiano
anti-integralista, un «giorno di tristezza».

Forse non è del tutto increscioso neppure per il Papa. Al giornalista
Rai che l'interrogava, Ruini ha detto: «I rapporti tra Stato italiano
e Chiesa possono migliorare, grazie a episodi come questo».

E ha sorriso sibillino, come si rallegrano quei militanti
apocalittici che provocano tenebre e caos pensando che solo a queste
condizioni rinasca la luce, che incitano a sfasciare (nel linguaggio
brigatista si diceva «disarticolare») per generare palingenesi
prerivoluzionarie. La sovversione ha in genere queste proprietà,
avverse al filar liscio dei rapporti. Non a caso il sorriso di Ruini
si accentua sino a tingersi di scherno, quando respinge l'accusa
d'ingerenza nell'agenda politica e chiede - provocatoriamente,
accendendo sorrisi complici nel giornalista - se ci sia
oggi «qualcuno in Italia, capace di dettare agende politiche». Esiste
insomma un modo di raccontare l'episodio della Sapienza, che deforma
ogni cosa. Si falsifica quel che accade, si comprime il tempo che
viviamo schiacciandolo tutto sul presente e togliendogli ogni
profondità. Ci si racconta la storia di una Chiesa perseguitata,
prendendo in prestito il linguaggio dell'esperienza ebraica; si
denuncia e si irride la stasi della politica. In questo Ruini ha
comportamenti sovversivi che singolarmente lo apparentano alla figura
di Berlusconi.

Ma è un sovversivo che miete successi, e sono questi ultimi che
conviene analizzare. Non è un successo religioso, perché
l'indebolirsi delle fedi non si argina riempiendo piazze. Non è
neppure in questione la libertà della religione cattolica, perché in
Italia essa è garantita e ha un'estensione enorme. Nessuno
l'ostacola, tanto meno la censura: se la fede è debole, quando è
debole, lo è per cause spirituali o pastorali e non per cause
esterne, di potere politico. Solo in Italia questa realtà è
obnubilata. È sottratta allo sguardo dei cittadini anche dai
commentatori che dovrebbero sapere e che sanno, senza però sentirsi
in dovere di aiutare i fedeli a emettere giudizi adulti perché
informati.

Quel che molti commentatori o intellettuali nascondono è il divario
tra simili realtà e il modo di raccontarle. Il rapporto mimetico del
cattolicesimo italiano con l'ebraismo è un non senso, nelle
democrazie. Fuori dall'Italia, in Francia o Germania, Spagna o
Inghilterra, esiste certo una nuova consapevolezza dell'importanza
delle religioni (le parole e le esperienze personali di Sarkozy e
Blair lo testimoniano), ma i mutamenti avvengono in contesti
radicalmente diversi: in nessuno di questi Paesi la Chiesa ha il
peso, il tempo di parola che ha in Italia. Venerdì, su questo
giornale, Giacomo Galeazzi ha spiegato bene lo spazio abnorme che le
viene dato: da quando è Papa, Benedetto XVI ha avuto un tempo
d'antenna superiore a quello del premier e del Capo dello Stato, e
appena inferiore a quello di tutti i ministri messi insieme. Non
solo: la Chiesa cattolica ha il 99,8% dello spazio dell'informazione
religiosa, lasciando briciole a altre fedi. Il vittimismo è storia
senza sostanza. La Chiesa italiana non è imbavagliata ma piuttosto
sovraesposta. L'idea che esistano comportamenti etici su cui lo Stato
non può autonomamente legiferare perché appartenenti alla legge
naturale, dunque iscritti dalla mano creatrice di Dio nella stessa
natura umana, dunque interpretabili e tutelabili solo dalla Chiesa, è
idea diffusa. Chi contesta il diritto della Chiesa a imporre i suoi
veti su famiglia, unioni di fatto, aborto, testamento biologico,
ricerca biologica, è una minoranza.

È questa situazione che ha finito col generare rabbia gridata, e
stupida perché perdente. Ma rabbia che comunque non nasce dal nulla.
Ogni evento ha una storia, un tempo lungo in cui è iscritto ed è
maturato: ha cause che dispiegano effetti, non è istante che fluttua
nell'etere come piuma ed è infilabile in ogni tipo di racconto.
Questa verità viene ignorata da parte della gerarchia, ma anche dal
Pontefice nell'ultimo incidente italiano. È la verità di una Chiesa
italiana che ancora non ha deciso che fare, dopo la perdita della Dc:
se schierarsi con la destra o no, se far politica direttamente o
privilegiare lo spirituale, il profetico-pastorale. È la verità di un
Pontefice che sta mostrandosi incapace di sintesi, di delicatezza
istituzionale. Di volta in volta Benedetto XVI aderisce a una
corrente o all'altra della gerarchia, senza anticipare proprie
soluzioni alte e meno italiane. Un giorno s'infiamma contro
il «degrado» di Roma, e ventiquattr'ore dopo descrive una città
accogliente e ben governata. Precipitosamente accetta di aprire
l'anno accademico, poi rinuncia senza fugare il sospetto che la
ritirata sia uno strumento - maneggiato da Ruini - per inasprire le
tensioni anziché placarle. La sua opinione politica oscilla, diventa
impreparazione, per forza vien chiamata inconsistente. È
un'impreparazione che non solo ignora la dimensione del tempo ma che
induce i vertici del Vaticano a sprezzare i significati profondi
della laicità, dell'autonomia della politica, dello Stato neutrale. È
assurdo doverlo ricordare alla presenza di un cattolicesimo che ha
dato all'Europa questa separazione: ma laicità non è pensiero debole,
non è visione relativista del mondo, dell'etica. Il laico non è,
contrariamente a quello che Marcello Pera ha scritto su questo
giornale, «chi non crede o non riesce a credere». Non è neppure chi
non riesce a «conferire senso alla vita», a «interpretare il male»
perché dotato del lume della ragione e non anche della fede. Il laico
è colui che tra Chiesa e Stato sente di dover erigere, come diceva
Thomas Jefferson, un alto «muro di separazione»: per proteggere sia
la sovranità legiferante del popolo, sia le religioni. Diceva
Jefferson che i poteri legislativi del governo «riguardano le azioni,
non le opinioni» (Lettera ai Battisti di Danbury, 1802), e di azioni
devono ancor oggi occuparsi i governi. La laicità non è un'opinione
ma un metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse - anche
integraliste - possono incontrarsi senza violenza e senza impedire
leggi attente al bene comune. L'autonomia della politica (il «muro»
di Jefferson) non appartiene al non cristiano: appartiene a ciascuno.
Non esiste una forza esterna allo Stato cui viene delegata
la «competenza delle competenze», come la chiama lo storico Giovanni
Miccoli, e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può
legiferare. Il muro di Jefferson in Italia è in permanenza
fatiscente - anche se esiste nella sua Costituzione - e questo
origina cronici disordini e l'alternarsi continuo di ingerenze e di
contestazioni anti-papaline. Queste ultime son state definite malate,
ma non meno malate son state le ingerenze degli ultimi anni: l'intera
spirale necessita guarigione e correzione. Il chiaro muro divisorio
non esisteva nemmeno nella Spagna di Franco, nel Portogallo di
Salazar, e quella malattia ha prodotto la reazione di Zapatero e le
sue misure di riordino e separazione laica.

In Italia siamo a un bivio simile, anche se con impressionante
ritardo. È come se nella nostra Chiesa permanesse ancora il modello
franchista spagnolo, come se il pensiero di cattolici come Rosmini e
Maritain non avesse mai messo radice. Come se non ci fossero stati il
Concilio Vaticano II e Paolo VI, difensore della laicità di Maritain
contro gli integralisti del Vaticano. Come se fosse ancora vivo e
forte il «partito romano» che per decenni, da dentro la Chiesa, cercò
di suscitare uno Stato etico cristiano in Italia e mai si conciliò
con papa Montini e la Dc autonoma di De Gasperi.

L'episodio della Sapienza non è caduto dal cielo, e non rendersene
conto significa che una certa imprudentia politica sta divenendo la
caratteristica del Pontefice. Dice ancora Pera che le vecchie regole
laiche sono sorpassate, e forse lo pensa anche Benedetto XVI. Sono
invece più che mai attuali, in un'Europa dove si è ormai insediato un
Islam forte, in espansione. Senza Stato laico, che garantisca
cattolici e non cattolici, atei e agnostici, avremmo in Europa guerre
di religioni, intolleranze, pogrom. Avremmo catastrofi benefiche solo
a chi non sa apprezzare quanto si stia bene, quando «tutto fila
liscio».

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Così come Syriza in Grecia non era il futuro profetico per la sinistra italiana, così non dobbiamo considerare che la sconfitta di Miliband in Inghilterra sia esattamente trasponibile nel dibattito della sinistra italiana. In Inghilterra ha pesato potentemente lo straordinario successo del partito nazionalista scozzese. Non facciamo equazioni troppo semplici. In Italia aspettiamo l’esito delle elezioni amministrative. Credo andranno bene, anche se peserà la disaffezione degli elettori vrso le elezioni locali. La formazione delle liste in Campania è il simbolo di un grave problema che si sta determinando nel PD: non basta imbarcare tutti per vincere. Bisogna vincere lealmente, con persone presentabili.

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