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Magda Negri

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Non rassegnarsi alla guerra. Costruire la pace- Incontro del Pd con il Corpo Diplomatico.

Abbiamo convocato questa iniziativa perché di fronte al dramma che da più di due settimane si consuma in Medio Oriente è responsabilità di tutti e di ciascuno non rassegnarsi alla ineluttabilità della guerra e, al contrario, agire perché la pace non svanisca in un orizzonte così lontano da non poter mai essere raggiunta.

E proprio perché siamo tenacemente e testardamente convinti che per una pace negoziata tra israeliani e palestinesi bisogna lavorare, abbiamo invitato – e li ringraziamo di aver accolto il nostro invito – l’Ambasciatore di Israele Gideon Meir e il Rappresentante in Italia dell’Autorità Nazionale Palestinese Sabri Ateyeh. E con loro abbiamo invitato esperti di politica internazionale che da sempre si occupano di Medio Oriente, per riflettere insieme su come rimettere in moto un percorso di pace, come l’Italia debba concorrervi e come il PD possa agire per contribuire alla stabilità del Medio Oriente.

Non rassegnarsi alla guerra, significa prima di tutto fermarla.Ogni giorno in più di guerra aumenta le vittime innocenti, le sofferenze, i lutti, le distruzioni. E scava un solco di odio, di negazione reciproca, di incomunicabilità che rende più difficile e lontana la pace.

Per  questo ribadiamo ancora una volta la assoluta urgenza di arrivare al cessate il fuoco, chiesto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU e dall’intera comunità internazionale, e di dare corso alla proposta franco-egiziana.
Naturalmente deve essere un cessate il fuoco bilaterale, sicuro e durevole. Il che significa la cessazione dei lanci dei missili di Hamas su Israele, la cessazione dell’offensiva militare di cielo e di terra dell’esercito israeliano a Gaza, l’interruzione di ogni introduzione di missili e armi nella striscia di Gaza.

E se l’ostacolo ad accettare il cessate il fuoco è che ciascuno dei contendenti non si fida dell’altro, la comunità internazionale – come si fece in Libano due anni fa – assuma su di sé la responsabilità di garantire il rispetto del cessate il fuoco, con l’invio di osservatori civili e – sollecitando il consenso delle parti – anche di una missione di interposizione. L’Unione Europea dichiari la sua disponibilità a esserne parte e l’Italia dica senza incertezze di essere pronta a concorrervi.

Ottenere il cessate il fuoco è essenziale prima di tutto per porre fine a disumane e ingiuste sofferenze a cui sono sottoposte le popolazioni civili. Nessuna giustificazione ci può essere per l’uccisione di cittadini inermi o addirittura di bambini. E questo vale sia quando a morire sono bambini palestinesi in una scuola bombardata dall’aviazione israeliana, sia quando a morire sono bambini israeliani su un bus fatto saltare in aria da un terrorista. Così come è un principio riconosciuto dal diritto internazionale un criterio di proporzionalità tra offesa subita e legittima reazione..
In ogni caso è assoluta priorità mettere in campo subito tutti gli aiuti umanitari necessari. L’Italia – che ha una consolidata tradizione di generosità e impegno, come si vide nei lunghi anni di guerra nei Balcani – mobiliti tutte le sue energie, a partire dal coinvolgimento del sistema delle autonomie locali e del mondo delle ONG e del volontariato.

Il cessate il fuoco è indispensabile per restituire parola alla politica.Di fronte alle drammatiche immagini di questi giorni, più di un commentatore si è chiesto se la pace fosse ancora possibile. E, in particolare, se fosse possibile quella intesa negoziata perseguita fin qui e fondata sul principio “terra in cambio di pace”. L’interrogativo non è davvero retorico, perché se si guarda a quel che è successo in questi anni non si può non constatare amaramente che a Gaza Israele ha dato la terra, ma non ha avuto la pace. E in Cisgiordania Abu Mazen ha dimostrato di essere pronto alla pace, ma non ha avuto la terra.

Eppure una soluzione diversa non c’è.Uno scenario che vedesse ancora per anni Israele occupare la Cisgiordania e Gaza essere un’enclave disperata sarebbe l’incubatore di nuove sofferenze, conflitti e drammi.Un popolo palestinese che non vedesse riconosciuta la propria aspirazione ad una patria, non potrebbe che essere attratto da un radicalismo sempre più estremo. E un Israele che inglobasse  forzosamente Cisgiordania e addirittura Gaza, sarebbe obbligato a vivere permanentemente in armi, esposta ad una dinamica demografica sempre più rischiosa per il carattere ebraico dello Stato di Israele, che dunque sarebbe meno sicuro del proprio futuro.

Non ci può essere pace se non si muove dal dato di origine: su quella terra vivono due popoli, entrambi titolari di due diritti ugualmente legittimi.In Medio Oriente sono in conflitto non già un torto e una ragione, ma due ragioni: perché è una ragione il diritto d’Israele a vivere sicuro di sé e senza paura del suo futuro; ed è una ragione l’aspirazione del popolo palestinese ad avere una propria patria indipendente. La pace potrà esserci solo in quanto quelle due ragioni si riconoscano reciprocamente.

D’altra parte se si guarda al 60 anni di travagliata vicenda mediorientale, si può facilmente constatare che alla pace ci si è avvicinati quando sulla negazione reciproca è prevalso il reciproco riconoscimento.La pace parve a portata di mano tra il ’91 e il ’95 quando si ebbero la Conferenza di Madrid, i colloqui di Oslo, gli Accordi di Washington e Taba tutti ispirati dal principio “Due popoli, due Stati” e fondati sul negoziato tra le parti.E la pace poi si è allontanata quando  quell’impianto è stato indebolito dal fallimento di Camp David e dal diffondersi di posizioni estremiste e integralistiche nel campo palestinese e dalla ripresa degli insediamenti di colonie ebraiche in Cisgiordania.

Ma non è solo l’esistenza di due popoli a dirci che l’unica pace possibile è una pace negoziata.Nonostante il manifestarsi continuo di tensioni, in questi ultimi anni passi significativi sul cammino di una pace negoziata sono stati compiuti.
I colloqui tra l’ANP e il Governo di Israele hanno consentito di avvicinare le posizioni sui punti cruciali di un accordo: su Gerusalemme capitale di due Stati vi è ormai la possibilità di un’intesa; i confini del ’67, con eventuali scambi equivalenti di terra, sono riconosciuti da entrambi come la linea di demarcazione tra i due Stati; Israele sa che dovrà smantellare le colonie in Cisgiordania (le “pesanti rinunce” come ha detto Olmert); e i palestinesi sanno che il diritto al ritorno dei profughi palestinesi – come ha esplicitamente dichiarato Abu Ala – non dovrà compromettere il carattere ebraico dello Stato di Israele.

Non solo, ma passi in avanti si sono fatti anche nello scenario regionale.La cessazione delle ostilità al confine israelo-libanese tiene – anche grazie alla forza Unifil, guidata dall’Italia – e in Libano, dopo una  crisi politica lunga e drammatica,  la elezione unanime del Presidente Suleiman ha avviato la ricerca di una nuova intesa intercomunitaria.
Con la mediazione della Turchia si sono avviati colloqui tra Israele e Siria per arrivare all’accordo sulle alture del Golan.
C’è un impegno della Lega Araba e dei suoi principali Paesi – in primis Egitto e Arabia Saudita – che con la piattaforma di Beirut del 2002 e poi le successive proposte fino a quella di Ryad del 2007, testimoniano di una reale volontà di giungere ad una pace che dia stabilità alla regione.

E persino la tregua di sei mesi tra Hamas e Israele è stata un segno nella direzione di uno scenario meno conflittuale.
Si tratta, dunque,  di non compromettere la tela tessuta fin qui e di riprendere un cammino di pace fondato sul reciproco riconoscimento e sul negoziato. Sul cammino della pace si erge come un ostacolo duro l’integralismo islamico e in particolare Hamas, le cui responsabilità in questa crisi sono evidenti.

È Hamas che ha rovesciato l’autorità di Abu Mazen a Gaza, trasformando quella striscia di terra in un’enclave integralista e base di ogni azione militare contro Israele. Ma soprattutto Hamas non riconosce il diritto di Israele  a esistere. Va ricordato, infatti, che Hamas nacque alla fine degli anni ’80 come espressione del rifiuto di una parte del mondo islamico ad accettare la storica decisione del Consiglio Nazionale Palestinese di Tunisi di riconoscere l’esistenza di Israele  e con Israele cercare una pace.

Hamas nega cioè la precondizione imprescindibile del processo di pace: nega quel riconoscimento senza il quale  non c’è alcun negoziato e tantomeno alcuna doppia statualità.Al tempo stesso sappiamo che Hamas non è solo un’organizzazione militare, ma un movimento politico di vasto consenso – tant’è che ha vinto le elezioni palestinesi del 2006 – e di larghe simpatie nei settori più diseredati del mondo arabo.

E, ancorchè fortemente indebolita dall’offensiva israeliana di queste settimane, è realistico immaginare che Hamas continuerà ad esistere, ad agire ed essere un attore dello scenario. Non è senza significato che la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiede il cessate il fuoco, auspichi al tempo stesso la ricostituzione di un nuovo accordo interpalestinese.

È perciò essenziale avere una strategia lucida e coerente, che significa mettere Hamas di fronte ad una scelta netta: riconosca il diritto di Israele a esistere. E cessi di contestare l’autorità di Abu Mazen e la sua scelta di negoziare con Israele. Se Hamas compie questo passo, sarà parte del processo di pace. Se non lo fa, ne sarà fuori.D’altra parte la comunità internazionale ha già conosciuto un passaggio analogo, quando negli anni ’80 disse a Yasser Arafat e all’OLP – che anch’essi non riconoscevano il diritto di Israele a esistere – che la possibilità per il popolo palestinese di vedere accolta la propria aspirazione ad una patria indipendente era indissolubilmente legata al riconoscimento dell’analogo diritto per il popolo ebraico.

E fu la decisione di Arafat e dell’OLP a compiere quel passo, ad aprire la strada alla ricerca di una pace negoziata. Si tratta oggi di avere da parte della comunità internazionale la stessa determinazione e intransigenza.Ma la rimessa in moto del processo di pace richiede anche che si restituisca spazio e credibilità ad Abu Mazen a alla leadership palestinese  che crede in una pace condivisa. Non vanno in questa direzione né i ricorrenti ampliamenti di insediamenti israeliani in Cisgiordania (che peraltro dovranno essere smantellati al momento dell’accordo d pace), né l’esasperato controllo militare della Cisgiordania, di cui la costellazione di centinaia di check-point sono il simbolo.

Se si vuole una pace duratura e affidabile è interesse di Israele che nei Territori palestinesi si affermi un’autorità democratica credibile e autorevole e anzi la soluzione ”due popoli, due Stati” sarà tanto più credibile in quanto i due Stati, siano anche due democrazie.Servono insomma atti, da parte di Israele, di maggiore fiducia in Abu Mazen, nel Governo Fayyad e nella dirigenza palestinese che devono essere messi nelle condizioni di poter esercitare un effettivo crescente autogoverno.

Certo, non sfugge a nessuno che la partita non si gioca solo nelle relazioni tra palestinesi e israeliani. L’ombra minacciosa e incombente dell’Iran grava su questo conflitto, così come i rapporti che legano la Siria alle principali organizzazioni integraliste, a partire da Hamas.Né possono essere ignorate le continue infiltrazioni di Al Qaeda e del terrorismo nello scenario mediorientale.E sullo sfondo s’addensa lo scontro tra sciiti e sunniti che sempre di più scuote il mondo islamico.

Per questo è decisivo sostenere e assecondare quelle leadership arabe – Egitto, Giordania, Arabia Saudita – che si sono impegnate nel processo di pace e che anche per questo sono oggi denunciate come traditrici dall’estremismo islamico.
Declinare una strategia in Afghanistan fondata sul rafforzamento della dimensione politica e accelerare la transizione democratica in Iraq sono altrettanti tasselli di una strategia per dare stabilità alla regione. Così come è decisivo il rilancio di una strategia efficace per dare soluzione politica al dossier iraniano e per questo il mondo guarda con aspettativa e speranze alle dichiarazioni in questo senso del nuovo Presidente degli Stati Uniti.

Lo scenario fin qui delineato rende evidente e sottolinea la responsabilità che grava sulla comunità internazionale.
Per fare la pace è condizione necessaria la volontà di israeliani e palestinesi. Ma può non essere sufficiente.
60 anni di conflitto – scanditi da guerre, intifade, terrorismo, sofferenze e lutti – hanno radicato un clima di sfiducia e diffidenza, rese più acute dalla frustrazione di una pace sempre evocata ma mai acquisita. Qui c’è un dovere morale e politico della comunità internazionale che non può limitarsi a evocare la pace e lanciare appelli alle parti.

La pace ha bisogno di condizioni favorevoli, di assistenza, di accompagnamento. Fin qui non lo si è fatto a sufficienza, come dimostra il fatto che il “quartetto” – che pure include quattro protagonisti mondiali quali Onu, USA, Unione Europea e Russia – sia sparito perfino dalle citazioni e dal lessico di questi mesi. Così come non può essere archiviata come una fatalità il fatto che l’obiettivo solennemente enunciato da Bush ad Annapolis – “la pace entro il 2008” – sia fallito.
Insomma serve un salto di qualità.

Ottenere subito il cessate il fuoco e avviare immediatamente la preparazione di una nuova Conferenza internazionale di pace. Sapendo che proprio l’esperienza di questi anni ci dice che il decorrere del tempo non lavora per la pace. Occorre agire subito e con tempi certi, tanto più in uno scenario reso più fragile dall’incertezza sull’esito delle elezioni israeliane e dal regime di prorogatio del mandato presidenziale palestinese. E tutti auspichiamo che con l’assunzione della Presidenza da parte di Barack Obama, gli Stati Uniti vogliano ritrovare quella determinazione essenziale per qualsiasi assetto statale del Medio Oriente.

Non minore responsabilità deve sentire l’Unione Europea, che non può mai dimenticare quanto la riguardi tutto ciò che accade nel bacino mediterraneo e nel vicino Oriente. D’altra parte l’Europa è divenuta il principale partner economico di Israele ed è il principale sponsor finanziario dell’Autorità Nazionale Palestinese. Serve che anche qui l’Unione Europea colmi lo scarto tra ruolo economico e peso politico. E la stessa credibilità di un progetto ambizioso quale l’Unione Euromediterranea varata sei mesi fa dalla UE, è affidata al contributo che l’Europa saprà dare alla pace e alla stabilità del Medio Oriente.

In questa chiave sollecitiamo a muoversi il Governo italiano. Non possiamo tacere l’insoddisfazione per un’azione inadeguata e non all’altezza della gravità della crisi. Nel 2006, di fronte alla guerra in Libano, il Governo Prodi seppe far assolvere all’Italia un ruolo leader nel fermare quel conflitto. Oggi l’Italia appare del tutto marginale, priva di voce e di influenza. Chiediamo con forza che si esca da questo cono d’ombra e l’Italia compia finalmente atti visibili, impegnativi, attivi per la pace.

Quanto a noi, ribadiamo il nostro impegno di sempre: crediamo in una pace negoziata, in una soluzione che dia riconoscimento ai diritti e alle aspirazioni di due popoli, che assicuri dignità ad ogni donna e ad ogni uomo nella convivenza di culture, religioni, identità. È un impegno che ha ispirato ogni nostra azione anche in queste settimane nei rapporti con i mondi più direttamente investiti del conflitto.

Abbiamo parlato con la stessa voce e detto le stesse cose quando abbiamo partecipato il 26 novembre scorso alla Giornata Internazionale per la Palestina e quando nei giorni scorsi abbiamo accolto l’invito ad una iniziativa promossa dall’Unione delle Comunità Ebraiche e da tutte le sue associazioni. Agli amici palestinesi voglio dire che la nostra intransigenza verso Hamas è mossa proprio dalla preoccupazione che non si affermi nell’opinione pubblica alcuna equiparazione tra Hamas e il popolo palestinese. E anche per questo sentiamo di dover sostenere con convinzione Abu Mazen e la sua leadership.

Agli amici israeliani – e alle Comunità Ebraiche italiane – voglio riconfermare i sentimenti di un’amicizia che affonda le radici nella storia, nella comune lotta contro il fascismo e il nazismo, nella tragedia dell’Olocausto e nel comune impegno per  affermare, sotto ogni cielo, le ragioni della libertà e della dignità umana contro ogni orrore persecutorio, ogni discriminazione, ogni antisemitismo. E – senza alcuna polemica – non può sfuggire a nessuno come vi sia anche chi ha bisogno di proclamarsi enfaticamente oggi amico degli ebrei per far dimenticare i troppi anni in cui ne è stato feroce nemico e persecutore.

Crediamo in una pace in cui israeliani e palestinesi possano identificarsi entrambi; in una pace in cui ebrei, cristiani, mussulmani possano convivere e dialogare; in una pace che restituisca dignità ad ogni donna e ogni uomo che vive in quella terra. Per questi obiettivi il Partito Democratico ha agito e continuerà ad agire con convinzione.

 

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Così come Syriza in Grecia non era il futuro profetico per la sinistra italiana, così non dobbiamo considerare che la sconfitta di Miliband in Inghilterra sia esattamente trasponibile nel dibattito della sinistra italiana. In Inghilterra ha pesato potentemente lo straordinario successo del partito nazionalista scozzese. Non facciamo equazioni troppo semplici. In Italia aspettiamo l’esito delle elezioni amministrative. Credo andranno bene, anche se peserà la disaffezione degli elettori vrso le elezioni locali. La formazione delle liste in Campania è il simbolo di un grave problema che si sta determinando nel PD: non basta imbarcare tutti per vincere. Bisogna vincere lealmente, con persone presentabili.

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